skip to main |
skip to sidebar
Viaggio al Monte Athos/3
Uno dei venti monasteri "ufficiali" dello "Stato dei monaci", quello nel quale prendo alloggio...
Quando si visita lo "Stato dei monaci" del Monte Athos, si riceve una sorta di visto, il diamonitirion, sul quale deve essere indicato il monastero nel quale si verrà ospitati. A me è toccato il Pantokratoros, non per scelta ma perché il mio amico Nikos ha pensato bene così, visto che c'è qui un monaco che parla l'italiano, Theophilos si chiama. Così, sbarcando al porticciolo di Dafni ancora quasi totalmente inconsapevole di quello che mi succederà, salgo su un autobus e mi ritrovo nella "capitale" di Kayres, e poi sul furgoncino guidato da un giovane monaco di Eraklion che mi guida lungo strade in terra battuta non poco malmesse. Si scende verso la costa orientale della penisola, forse la meno frequentata ma quella che ospita i monasteri più antichi.
Dopo qualche decina di curve, ecco che guardando verso il mare si scorge uno scorcio strano, una sorta di castello, una torre massiccia, una costruzione che pare imprendibile. Dovrò abituarmici, qui al Monte Athos i monasteri sono così.
Avvicinandomi mi rendo conto che attorno all'edificio principale, il monastero vero e proprio, una costruzione rettangolare che “contiene” al suo interno un cortile in mezzo al quale è costruita la chiesa principale, il katholikon − scoprirò che il monastero ospita una decina di cappelle −, ci sono decine di altri edifici che poco alla volta m'accorgo essere segherie, garage e laboratori, fienili, lavatoi, essicatoi, forni... Insomma, tutto quanto serve per il lavoro dei monaci. Che sembrano assai indaffarati.
Arrivato a destinazione, accolto con non poca simpatia dai monaci − sono in tutto una trentina −, occupata la mia austera ma pulitissima cella, mi do subito alla scoperta dei luoghi. Nel cortile fervono i lavori di restauro, manca solo l'ala che dà verso il mare. Le parti già risistemate paiono un piccolo capolavoro di muratura e carpenteria. La chiesa rossa e bianca domina l'intero spazio ma, essendo un po' sollevata rispetto al resto del cortile, pare non volerne sapere di guardare in basso, lasciando ai mortali una certa dose di libertà di movimento. A ridosso della chiesa, verso Nord, c'è il monastero vero e proprio, un edificio che appare più massiccio del resto, perché non è fornito di quegli archi su due livelli che slanciano le strutture e proteggono i deambulatori e le eleganti scale di legno per salire al piano.
Esco per il camminamento ad arco che dà verso Ponente, inquadrando un altro monastero, lo Skiti Ilias. Perlustro i dintorni del Pantokratoros, dapprima scendendo alla spiaggia di ciottoli 80 metri al di sotto − peccato, qui al Monte Athos è assolutamente vietato bagnarsi! −, poi percorrendo il perimetro del monastero, interrotto solamente nella parte più a Levante. Così debbo andare e tornare, il che mi fa scoprire ancor più chiaramente il perché questi fortalizi in realtà abbiano un loro elegante fascino. La ragione sta nelle sporgenze dell'ultimo livello delle costruzioni, sorrette da puntelli obliqui modanati in modo appena percettibile, il che conferisce all'intero, massiccio edificio uno slancio assolutamente inusitato.
Rientro, è l'ora della preghiera delle tre del pomeriggio. E allora comincia una storia di ascesi e fraternità, di cui m'accorgo che l'edificio è l'esemplificazione, il simbolo: la fortezza e la severità dell'ascesi; l'eleganza e la schiettezza della fraternità.
Viaggio al Monte Athos/2
L'ultima città prima di prendere il battello. Con un equipaggio e un carico di passeggeri esclusivamente al maschile...
Si tratta di un porto, e come tutti i porti Ouranoupolis è un gran casino. Non c'è da stupirsi, dove si salpa o si sbarca c'è sempre chi vuole fare affari, chi specula sui servizi di frontiera, chi cerca semplicemente di sbarcare il lunario. Ma questo porto è particolarmente strano, perché è l'unico che porta a uno Stato particolarissimo come il Monte Athos, una sorta di repubblica dei monaci legata direttamente al patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Su tutto domina la torre bizantina di Phosphori, una massiccia costruzione che sembra voler incutere timore e nel contempo rassicurare. I gabbiani volano ovunque, mentre l'abitato non ha proprio nulla che valga la pena di ricordare. Qui si va verso l'Athos, e solo questo importa.
Ouranoupolis si ritira il visto per entrare al Monte Athos. Oggi c'è una lunghissima fila, o piuttosto un assembramento, perché ieri i traghetti per Dafni non hanno potuto viaggiare per via del vento. Un'ora di fila che si rivela un'occasione per conoscere qualcuno dei pellegrini che vanno ai monasteri. Come Nikos che abita ad Atene e viene qui due volte all'anno perché ha un fratello monaco. Comincio ad abituarmi ad un mondo di soli uomini e sostanzialmente nero. Sorpresa: anche per acquistare il biglietto del ferry c'è una fila lentissima...
Un'altra ora apparentemente persa. Ma vedo che tutti sono calmi, il pellegrinaggio richiede in primo luogo la virtù della pazienza. E allora avanti, la traversata di due ore, che in realtà è un costeggiare la penisola sottile come un nodoso dito di pietra, s'annuncia con un sole splendente.
Finalmente si parte. Dopo una lunga attesa per traghetti che avevano problemi di carico e una gran confusione di merci, sono riuscito a trovare un biglietto e ad imbarcarmi su un traghetto lento che ci metterà un paio d'ore per arrivare al porticciolo di Dafni, porta d'accesso al Monte Athos. C'è qualcosa di incompleto in questo traghetto che carica solo uomini, qualcosa di sguaiato e grossolano. Si tirano fuori le bottiglie, si beve, si conversa a voce alta, si esce a fumare una sigaretta, si fanno le ultime telefonate. Solo un monachello asciutto come un chiodo pare pregare, anzi sicuramente sta pregando. Ma, a guardare bene, non pochi cercano di avere un contegno di raccoglimento.
Dopo un certo periodo di navigazione, m'accorgo che in realtà di gente in preghiera, di uomini che fanno veramente un pellegrinaggio, qui ce ne sono molti. Sono tutti coloro che escono sui ponti del traghetto e guardano verso il promontorio lungo e nerboruto del Monte Athos. Guardano verso i monasteri che si susseguono sulla costa e sull'altura, ogni tanto si segnano, soprattutto tacciono. Non è male, è un grande momento di preghiera collettiva. Di quelle che restano nel cuore per la testimonianza che questa gente semplice, greca ma non solo, offre a chi se ne va verso l'Athos.
Per recarsi nella "repubblica dei monaci", nell'ultima propaggine della penisola calcidica, è giocoforza passare per la città dell'imperatore Galerio
La città di Salonicco ha una storia lunga e ricca, che si perde nella notte dei tempi: fu fondata nel 315 a.C. dal re macedone CAssandro, che le diede il nome della moglie, Tessalonica. Ma non ebbe grande importanza finché non giunsero i romani, in particolare l'imperatore Cesare Galerio, spietato persecutore dei cristiani, che scelse la città addirittura come sede imperiale. Ma la città divenne grande solo in epoca bizantina. La furia costruttrice nei secoli ha quasi cancellato le tracce antiche, soprattutto quelle romane, che come si sa i greci non amano particolarmente. Quelle antecedenti a quelle romane, ci avevano pensato i latini stessi a cancellarle, o piuttosto a inglobarle nei loro nuovi palazzi. Fatto sta che Salonicco appare una vera e propria colata di cemento che, a prima vista, ricopre interamente l'area urbana.
Poi, percorrendone le vie, soprattutto quelle del centro, ecco che si svela una città nella città, l'antica Thessaloniki, quella dell'apostolo dei gentili, che giace qualche metro al di sotto del piano stradale attuale e che affiora qua e là nelle piazze, nei viali, addirittura sotto i palazzi. C'è qualche vera e propria perla: la deliziosa chiesa di Ossios David, Agios Dimitrios, Agia Sophia, la chiesa di Ahiropiitos del V secolo. Le tracce del conflitto tra iconoclasti (che qui avevano il loro centro propulsore) è qua e là evidente, come nella chiesa di Agios Nikolaos.
Piove da morire e si fa fatica ad avanzare senza inzaccherarsi. Appare d'uopo una fermata ai tavolini di un bar di fronte a quel capolavoro che è l'Arco di Galerio, imperatore che così voleva celebrare la sua vittoria contro i persiani. I bassorilievi impressionano, soprattutto se visti sulla loro base di laterizi rossi, che li esaltano non poco. E sulla destra ecco la Rotonda, un edificio che ancor oggi non ha terminato di svelare i suoi segreti: in realtà è una chiesa dedicata a Agios Georghios, anche se in origine era un mausoleo. Contava stupendi mosaici: ne restano pochi ma significativi.
La visita, poi, non può non fare tappa alla Torre bianca, diventata il vero simbolo della città con la sua massiccia e pur slanciata forma cilindrica: la torretta sommitale, un cilindro ridotto rispetto a quello della base, conferisce all'insieme dell'edificio una leggerezza inusitata. E da lì, verso il porto, ci si bea nel lungomare, il vero “passeggio” degli abitanti di Salonicco che vi si riversano in massa con qualsiasi tempo e temperatura, se non altro per sorbire un caffè in uno degli innumerevoli locali della riviera. Ma tutta la città è punteggiata di bar coi tavolini sparsi sui marciapiedi, a testimonianza di uno stile di vita che pare farsi beffe della grave crisi economica greca: per dimenticare o per festeggiare si beve, in fondo è la stessa cosa e l'effetto è lo stesso...
Viaggio
in Tanzania e Kenya/8 (ultima puntata) - Mathari, un'altra bidonville. I contrasti di Nairobi che diventano quasi naturali.
Il secondo slum di Nairobi prende il nome di Mathari. Non raggiunge il milione di abitanti, ma poco ci manca. Vi accedo con la mia accompagnatrice, Mada, attraverso un paradossale viale attorno al quale si aprono i club esclusivi dell'esercito, della Microsoft, della marina, delle multinazionali. C'è persino un campo da golf. Lasciata la macchina, ci dirigiamo verso la fine dell'impasse, che pare morire sul gabbiotto dei vigilantes dell'ennesimo club con prati all'inglese (una vera mania qui tra i ricchi di Nairobi, memori della colonizzazione d'Oltremanica). Ed è quando ormai mi chiedo che cosa ci stiamo lì a fare che sulla sinistra, tra un muro di cinta e una robusta rete di recinzione si allunga un fangoso sentiero lungo circa 300 metri.
Mada avanza con le stampelle (ha una piede fratturato) come se nulla fosse. Poi una curva ad angolo retto e, ai piedi di uan scarpata di una settantina di metri d'altezza, ecco un quartiere fitto, sembra che uno spillo di troppo farebbe esplodere tutto l'abitato. Si osservano zone più "residenziali" (si fa per dire, si tratta di casette in muratura, semplicemente, in una di quest abita la famiglia di Mada) ed altre invece assolutamente precarie: lamiera, cartooni, teloni di plastica e chissà cosa d'altro. Questa è Mathari, da cui la gente fatica ad andarsene, perché preferisce il poco ceryo che ha al di più incerto che non ha.
Viaggio in Tanzania e Kenya/7 - Un'altro degli aspetti paradossali dell'Africa, di certa Africa. Ma con che diritto voler giudicare una situazione così complessa e variegata come la giustizia distributiva in un continente saccheggiato e impoverito da secoli?
La vecchia Nissan di Mada sembra non farcela più nelle lunghe salite delle highway locali. Ma siamo arrivati a destinazione, a Kibera, appena dietro la parrocchia di Guadalupe, in un quartiere residenziale. Ad annunciare Kibera è un albergo, l'Hotel Classic, una baracca dipinta di rosso e d'azzurro, dove finisce l'asfalto e inizia un altro mondo. Il mondo dei rifiuto, della provvisorietà assoluta.
Attorno all'unica strada asfaltata dello slum, si allungano dei veri e propri muri di baracche, in mezzo ale quali di tanto in tanto si apre un breve spazio, un metro o poco meno, che indica una via laterale, un budello che porta ad altre migliaia di baracche. Quei budelli sono ricettacolo di ogni cosa che vaghi nel mondo, fogne a cielo aperto, ma anche luogo di giochi, di litigi, di socializzazione. Aleggia ovunque un odore acido di fogna, mentre la nettezza urbana è lasciata alla buona volontà dei singoli abitanti. Eppure nella via principale non mancano i negozietti di cosmetici e telefonini, segni di sogni consumisti in tutto il mondo. Ovviamente qui non c'è elettricità, né acqua corrente, figuriamoci se potabile!
Per la strada passeggiano personaggi dalle facce inquietanti, talvolta leggo un'infinita invidia per il mio status di uomo libero bianco, ma anche uno sguardo inquisitore per vedere se posso essere oggetto di qualche sottrazione. Non tiro fuori la macchina fotografica nemmeno per sogno, i miei accompagnatori sono stati categorici. Non rischio tanto di venir derubato, quanto di beccarmi una coltellata. Eppure c'è una certa gaiezza in giro, i colori sono sgargianti, nonostante il marrone delle strade e di ogni cosa. Colgo sguardi di infinito amore. Non solo di donne. I giovani indossano magliette del Milan e del Barcellona, dalle baracche fuoriescono musiche a tutto volume. Un giovane uomo a gambe divaricate siede su una immensa poltrona in damascato rosa; accanto a sé ha una bacinella di plastica azzurra che ospita un quadro del Sacro Cuore, mentre dietro le sue spalle un immenso hifi sputa musica rap a tutto volume. E vicino a quest'uomo una giovane mamma con tre bimbi, già sformata nonostante l'età ancora verde, sbuccia un'arancia per i tre frugoletti mentre vende un mucchietto di arachidi in bottiglia. Dietro alla scena campeggia un Hotel De Luxe con una guardiana che si atteggia a pin up dall'alto dei suoi abbondanti cento chili. Ogni tanto si creano dei crocicchi attorno a una motocicletta, circola alcol, circola erba, talvolta polvere che non è eroina ma devastante droga chimica. Si beve un intruglio che si chiama changhà, alcol da canna da zucchero e chimica, si rischia la cecità e la demenza, se non la morte.
È qui che faccio conoscenza, attraverso i miei amici, con Nancy, una giovane donna che vive in una baracca infilata in una viuzza laterale di 2 metri per 3. Lamiera e qualche pezzo di plastica o di legno sono i materiali da costruzione: baracche bollenti d'estate e gelide d'inverno. E si sente tutto quanto accade nelle baracche vicine, non c'è possibilità di privacy, se non chiudendosi a chiave nel proprio loculo. La vicina di Nancy langue nel suo bugigattolo sparando musica rap e ubriacandosi. «Non si preoccupi, in fondo è una brava donna», cerca di giustificarla Nancy ai miei occhi, anzi al mio udito, perché ne colgo solo il respiro affannoso e sincopato a pochi millimetri da dove sono seduto, appena un foglio di lamiera. C'è un perfetto ordine nella baracca della giovane donna, ogni cosa è al suo posto pur nell'assoluta precarietà dei luoghi, del mobilio e delle suppellettili.
Nancy vi abita con sua figlia e con la nipote, che ha accolto a casa sua, si fa per dire, dopo la morte della sorella e del cognato. Abitava in campagna, come tutti o quasi gli abitanti di Kibera ed era venuta in città per lavorare come donna delle pulizie presso una famiglia facoltosa. Poi è rimasta incinta e non ha potuto più continuare a lavorare, mentre l'uomo che l'aveva ingravidata è sparito nel nulla. Nancy previene la mia domanda: «Sono rimasta e continuo a rimanere qui invece di tornare nel mio paese perché qui i miei due piccoli possono frequentare una buona scuola tenuta dagli italiani. Tra qualche anno potranno emanciparsi da questo luogo. Io cerco di guadagnare qualcosa lavando panni. C'è pure qualche associazione che ci fornisce di medicinali e quando c'è bisogno di un dottore riusciamo a trovarlo. Quindi preferisco stare qui». Ma non ti senti immersa nello squallore? «Io qui in fondo ho creato un mio angolo pulito nel quale vivo bene con i due piccoli. Basta stare attenti, basta pagare l'affitto regolarmente, basta non dare fastidio ai vicini e così riesco a vivere abbastanza bene». E non vorresti andare a vivere in un quartiere migliore? «Certo che sì, ma non so come poter guadagnare abbastanza per mantenere i miei figli e pagare un affitto alto. E poi ormai conosco tutti qui e fuori sarei trattata come una mendicante. Qui ho una mia dignità».
Viaggio in Tanzania e Kenya/6 - La sorpresa di un ambiente naturale straordinario in piena città. Tra l'aeroporto e gli slum.
Una delle sorprese più inattese di questa mia breve tournée kenyota, è la visita al Nairobi National Park, 117 chilometri quadrati di terreno tra l'aeroporto internazionale e lo slum di Kibera, che anticipa il centro della città, che coi suoi grattacieli crea un costante orizzonte insolito per un parco nazionale: uno skyline di insolita forza quando nel mirino appare un rinoceronte bianco sullo sfondo dei grattacieli.
È qui che partecipo al primo safari della mia vita. Mi hanno sempre interessato piuttosto gli umani, ma avverto che qui in Africa non posso esimermi dal conoscere da vicino la bellezza stucchevole della natura, con le sue icone e le sue riproduzioni. A parte il prezzo inquietante (alla fine si pagano 100 dollari a testa!), il breve safari, che durerà in tutto quattro ore, colazione compresa in un delizioso country club con tanto di prato all'inglese su cui scorrazzano dei plaicidi cinghiali e qualche timida gazzella, si rivela per me una vera scoperta, come se per 58 anni avessi vissuto all'oscuro dell'esistenza di una natura che è madre e terra madre e terra matrigna, nel mistero dell'alternanza tra vita e morte, pace e violenza. Capisco di più gli uomini e le donne e le loro relazioni umane osservando gli animali allo stato naturale.
Mi reco nel parco grazie a un'amica kenyota, una vera forza della natura, moglie di un deputato, promotrice di innumerevoli attività di solidarietà. Con la sua fuoristrada, accompagnati da una guida corpulenta al punto da sembrare lui stesso un partecipante della naturalità dell'ambiente (è un complimento sincero, non uno scherzo!), ci avviamo partendo, come d'uopo, da un sacrario insolito, il luogo dove nel ... fu bruciato uno stock di zanne d'avorio sequestrato ai trafficanti illegali, che avevano ammazzato in quell'occasione centinaia di elefanti per orbarli delle zanne d'avorio tanto prezioso. Fu un tournant, una vera svolta nella politica naturalistica del Kenya, che avviò così una strategia di protezione dei grandi parchi nazionali, capendo che la preservazione dell'integrità della natura era nel contempo il maggior investimento finanziario che si potesse immaginare per il Paese est-africano.
Inizia poi la lunga peregrinazione nel parco, alla fine una quarantina di chilometri su piste in terra battuta. Se l'inizio è timido, con qualche bufalo e qualche gazzella che pascolano lontano negli spazi erbosi della savana, che la nostra guiida riesce a vedere ma che noi a malapena vediamo coi nostri teleobiettivi, come piccole macchie nere. Poi, addentradoci nelle piege del parco, nelle valli e negli altipiani dai nomi esotici (...), gli incontri con gli animali aumentano di frequenza e d'intensità, finché ci ritroviamo ad osservare ippopotami, rinoceronti bianchi e neri, gazzelle e zebre in quantità, mandrie di bufali, vari gruppi di simpaticissime giraffe, cervi e caprioli, altri animali cui non so nemmeno dare un nome. Solo i 140 leoni e leonesse del parco si nascondono, ma non è l'ora giusta e nemmeno la giornata. Ma non fa nulla, li vedremo poi nelle gabbie all'entrata...
Confesso di sentirmi particolarmente felice per essere almeno un po' entrato in comunione con la Natura, con queste stupende giraffe che sono opere d'arte assolutamente uniche, con queste giraffe che paiono esseri arrivati dalla preistoria col solo scopo di rallegrare la nostra vista, con questo enorme rinoceronte bianco che ci attraversa la strada con una calma olimpica dapprima, poi con una corsa impetuosa che assomiglia tanto a una danza elegantissima, con questi bufali che si abbeverano in un invaso fangoso e che sollevano nuvole di polvere che paiono effetti cinematografici da milioni di dollari ma che sono invece totalmente gratis, degli avvoltoi che qui paiono addirittura meno minacciosi...
Mi sento più uomo dopo un tale safari urbano, che tanto urbano poi non è. Piuttosto si tratta di un safari nell'anima dell'Africa.
Viaggio in Kenya e Tanzania/5 - Sorvolando con l'aereo la cima più alta dell'intera Africa.
Avrei voluto ma... non ne avevo il tempo, non avevo le forze fisiche necessarie, e forse non avevo nemmeno la voglia di spendere 2000 euro per foterlo violare. Il Kilimanjaro non ho potuto avvicinarlo, né tantomeno raggiungerne la cima. Qualcosa che rimane nel cuore come una mancanza, come un'occasione mancata, come un sogno rimasto tale. Non mi resta che leggere le mie guide: 5896 metri, la più alta cima del continente africano, uno tra i dieci vulcani più alti del mondo, un massiccio isolato, non parte di una catena montuosa ma espressione di sé stesso, tre cime sommitali, una calotta nevosa che ha perso l'80 per cento della sua superficie negli ultimi cinquant'anni...
Non ci pensavo più, quando ho prso l'aereo da Dar es Salaam la calda per atterrare a Nairobi la fresca. Un'ora di volo, nulla di speciale. Salvo che a un certo punto il pilota si premura di avvisare la gentile clientela che sulla sinistra dell'aeromobile apparirà tra pochi istanti lui, il sogno, il grande fratello, la «chiara coscienza divina» per tanti masai e per altre genti dell'Est dell'Africa. E mi trovo proprio dal lato giusto e la visibilità s'è d'improvviso fatta eccellente dopo mezz'ora di nubi e tappeti di cotone idrofilo sparsi sulla Tanzania. E allora osservo poco alla volta apparire la sagoma imponente del Kilimanjaro, che svetta come un'evidenza, come un'escrescenza della Terra, come un'elezione. Sta. Sale imperioso per poi verso la cima proporre un altipiano che non è tale, ma che appare tale nonostante sia costruito da tre vette principali e altre secondarie. Sì, c'era la neve una volta, ora c'è solo un residuo di nevaio che potrebbe essere un'icona del bianco Kilimanjaro che si ricordava decenni addietro. Ma intanto mi godo la vista, che se ne va, della Montagna dell'Africa.