Viaggio in Kazakistan/1 - La vecchia capitale del Paese ha ancora il piglio e la vitalità necessari per rimanere il centro culturale ed economico dello Stato centrasiatico.
Poche città al mondo mi hanno dato l’impressione di essere verdi come Almaty, che è rimasta capitale del Kazakistan fino a quando il presidente-padrone Nursultan Nazarbayev, nel 1997, non ha ceduto alla follia della grandeur, trasferendo il governo e il Parlamento, peraltro insignificante e inoffensivo, in piena steppa, nella nuova città di Astana, pensando di farne una New Delhi, una Brasilia kazaka, la propria Washington. Oddio, nemmeno Almaty aveva e ha una lunga storia: si ricorda il suo nome Alma Ata (montagne delle mele, significa), ancor prima della distruzione a opera del solito Tamerlano, della fondazione poi nel XIX secolo da parte dei russi del forte chiamato Verniy, per difendersi nella regione dei sette fiumi, come veniva chiamato anticamente il Zhetisu. Poi, durante e dopo la Rivoluzione d’ottobre crebbe a dismisura, raggiungendo le 222 mila anime. Un milione nel 1982.
Almaty non avrebbe granché di cui fregiarsi – restano appena una dozzina di abitazioni del XIX secolo, le sole sopravvissute al terremoto del ... –, anche perché l’epoca sovietica qui ha fatto non pochi danni architettonici. Non restaurati e non restaurabili, enormi parallelepipedi, spropositati casermoni giacciono lungo le avenue di Almaty fortunatamente preclusi in parte alla vista dagli alberi che accompagnano quasi tutte le strade della città. Ecco, gli alberi. Sono ovunque, alti e slanciati, possenti e maestosi: creano la città quasi più degli edifici. Sì, la loro concentrazione è accentuata nei tanti parchi della rete urbana, anche molto estesi – ... –, ma di alberi se ne vedono in ogni via e in ogni giardino, privato o pubblico che sia.
La città è stata concepita in modo da permettere una sana circolazione dell’aria e una buona esposizione: l’abitato scende dai contrafforti del Tien Shan e dalle sue cime innevate con lunghe allée longitudinali che permettono la canalizzazione delle fresche correnti d’aria, rendendo perciò vivibili anche le estati infiammate dai venti del deserto. In aggiunta a ciò, la cultura urbanistica di Almaty ha posto grande attenzione alle fontane, che impazzano coi loro getti rinfrescando al passaggio coloro che cercano un qualche refrigerio.
Un luogo simbolico della città è Piazza della Repubblica e il Monumento all’Indipendenza che svetta al centro della vastissima area. Palazzoni dozzinali, ancora di epoca sovietica, inalberano i proclami del dittatore per lanciare il Paese nella sfida del 2050, quando il Kazakistan dovrebbe raggiungere il livello di vita degli europei.
Su tutto ciò impone la propria presenza l’imponente catena dello Tien Shan, un orizzonte mai raggiungibile, o quasi, e una presenza sicura. Nessuno potrebbe immaginare Almaty senza le sue montagne. Nemmeno i tanto odiati russi.
Poche città al mondo mi hanno dato l’impressione di essere verdi come Almaty, che è rimasta capitale del Kazakistan fino a quando il presidente-padrone Nursultan Nazarbayev, nel 1997, non ha ceduto alla follia della grandeur, trasferendo il governo e il Parlamento, peraltro insignificante e inoffensivo, in piena steppa, nella nuova città di Astana, pensando di farne una New Delhi, una Brasilia kazaka, la propria Washington. Oddio, nemmeno Almaty aveva e ha una lunga storia: si ricorda il suo nome Alma Ata (montagne delle mele, significa), ancor prima della distruzione a opera del solito Tamerlano, della fondazione poi nel XIX secolo da parte dei russi del forte chiamato Verniy, per difendersi nella regione dei sette fiumi, come veniva chiamato anticamente il Zhetisu. Poi, durante e dopo la Rivoluzione d’ottobre crebbe a dismisura, raggiungendo le 222 mila anime. Un milione nel 1982.
Almaty non avrebbe granché di cui fregiarsi – restano appena una dozzina di abitazioni del XIX secolo, le sole sopravvissute al terremoto del ... –, anche perché l’epoca sovietica qui ha fatto non pochi danni architettonici. Non restaurati e non restaurabili, enormi parallelepipedi, spropositati casermoni giacciono lungo le avenue di Almaty fortunatamente preclusi in parte alla vista dagli alberi che accompagnano quasi tutte le strade della città. Ecco, gli alberi. Sono ovunque, alti e slanciati, possenti e maestosi: creano la città quasi più degli edifici. Sì, la loro concentrazione è accentuata nei tanti parchi della rete urbana, anche molto estesi – ... –, ma di alberi se ne vedono in ogni via e in ogni giardino, privato o pubblico che sia.
La città è stata concepita in modo da permettere una sana circolazione dell’aria e una buona esposizione: l’abitato scende dai contrafforti del Tien Shan e dalle sue cime innevate con lunghe allée longitudinali che permettono la canalizzazione delle fresche correnti d’aria, rendendo perciò vivibili anche le estati infiammate dai venti del deserto. In aggiunta a ciò, la cultura urbanistica di Almaty ha posto grande attenzione alle fontane, che impazzano coi loro getti rinfrescando al passaggio coloro che cercano un qualche refrigerio.
Un luogo simbolico della città è Piazza della Repubblica e il Monumento all’Indipendenza che svetta al centro della vastissima area. Palazzoni dozzinali, ancora di epoca sovietica, inalberano i proclami del dittatore per lanciare il Paese nella sfida del 2050, quando il Kazakistan dovrebbe raggiungere il livello di vita degli europei.
Su tutto ciò impone la propria presenza l’imponente catena dello Tien Shan, un orizzonte mai raggiungibile, o quasi, e una presenza sicura. Nessuno potrebbe immaginare Almaty senza le sue montagne. Nemmeno i tanto odiati russi.
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