Viaggio a Creta/4 - Le sorprese del "fuori pista", fuori cioè dai circuiti battuti dal turismo.
Creta
orientale. Dopo una commovente visita all’isola-lebbrosario di Spinalónga, risalgo con
la mia piccola auto dalle gomme lisce la montagna alle spalle del borgo marino
di Pláka, mentre un vero fortunale si abbatte sulla regione. Gli ulivi
si tingono di verde cupo più che d’argento, battuti come sono dalle violente
raffiche di vento che fanno sbandare la fragile scatola di latta che mi sta
portando verso Occidente. Qua e là appaiono gli scheletri di quelli che furono
mulini a vento, mentre sullo sfondo delle onde marine imbiancate si mostrano le
silhouette dei mulini a vento del XXI secolo, le pale eoliche che generano
elettricità a basso costo economico, ma con un forte impatto ambientale. Sono
brutte!
D’improvviso
il sole squarcia le nubi, che pure permangono una minaccia, creando un infinito
luccichio che rende gli ulivi d’argento, l’erba un manto di velluto zigrinato,
i muretti di sassi un supporto ocra alla creazione. Finché non giungo verso la
sommità della montagna, in una zona colpita la scorsa estate da gravissimi
incendi, di cui ancora si parla nella zona. Avanzo, tornante dopo tornante, in
una sorta d’inferno dantesco che, illuminato dalla luce tersa dopo la pioggia,
accentua ulteriormente la potenza di morte della scena: il nero appare ancora
più oscuro, gli scheletri degli alberi e degli arbusti paiono mani bruciate che
gridano la loro rabbia al sole.
Dopo
aver scollinato, mi par di scorgere qualche tornante più in basso un ciuffo di
verzura che brilla di luce propria. M’avvicino, è il monastero di Moní Aretíou,
un piccolo cenotafio nel quale vivono un paio di monaci anziani. Entro, il
cancelletto di legno è aperto. Non c’è anima viva, ma ogni cosa sembra
vivissima, ravvivata dalla luce del sole cristallina sullo sfondo blu e nero
del cielo. Le due cappelle, una più piccola e intimamente semplice, l’altra più
grande e più ricca, raccontano le orazioni e le lotte interiori dei monaci, le
preci di tanti pellegrini saliti quassù a firmare un compromesso con la
provvidenza divina. Mentre il rigoglioso e coloratissimo giardino che separa le
due chiese dagli altri edifici del monastero racconta la pace raggiunta e la
fecondità dello Spirito. In un angolo della corte principale noto un pozzo,
alla cui acqua si abbeverano i monaci e anche le piante. Un secchio è appeso
alla carrucola di ferro, arrugginito ad arte. Mi trattengo a pregare il Dio
dell’intimità inginocchiato su un banco nella cappellina di Santa Barbara e il
Dio della creazione seduto su una panchina nel cortile. Poi riprendo la via
della valle, senza incontrare anima viva.
A
valle, nel paesino di Karídi, un gioiellino di tradizionale habitat rurale
cretese, sorbisco un caffè in un locale spoglio, mentre fuori ha ripreso a piovere.
Il gestore mi chiede da dove venga. Gli rispondo: «Dal paradiso terrestre di
Moní Aretíou». Al che mi sorride orgoglioso: «Quest’estate l’abbiamo salvato
dalla distruzione del fuoco, noi cittadini di questo borgo. Siamo molto devoti
a Maria per averci dato la grazia di non perdere il nostro gioiello. Ma grazie
anche al creatore che ha portato l’acqua fin lassù: senza il pozzo, l’unico
dell’intera montagna, quest’oggi di Moní Aretíou resterebbe solo un mucchio di
pietre annerite».
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