Sulle tracce di Leopardi, su e giù per il suo universo sospeso sulle colline marchigiane.
Come potrei visitare Recanati senza fermarmi sull’ermo
colle e tracciare segni sul bianco taccuino, segni di senso? Son qui, maggio è
fresco, ha piovuto, tira vento, il crepuscolo s’immalinconisce e
m’immalinconisce. E godo nel sostare e ripetere le parole del poeta, le sue
musiche del Verbo. Non a caso scrivo queste note su un taccuino a pentagramma,
le musiche suonano ovunque, qui a Recanati. Vengo da Casa Leopardi, da dove
fuoriescono questa sera i gorgheggi, le scale, i solfeggi, gli esercizi tonali
di una giovane donna, senza tratti, senza volto, solo voce e melodia. Mi sento
come Giacomo il Grande, uomo dai tanti fallimenti amorosi e dagli infiniti
amplessi platonici tra anime, tra corpi sublimati.
Sempre caro mi fu
quest'ermo colle,/ e questa siepe, che da tanta parte/ dell'ultimo orizzonte il
guardo esclude.
Recanati è uno strano paese, allungato com’è su un colle
arcuato, sulla sommità del colle che pare una lama appena un po’ arrotondata.
Da Settentrione a Meridione appare perciò un grumo, quasi una minuscola
piramide di casette appollaiate le une sulle altre, mentre da Oriente e da
Occidente ecco che sembra una lunga teoria di casette allineate sul crinale del
colle. Bizzarro, ma non poco affascinante.
Io solitario in
questa/ Rimota parte alla campagna uscendo,/ Ogni diletto e gioco/ Indugio in
altro tempo: e intanto il guardo/ Steso nell'aria aprica/ Mi fere il Sol che
tra lontani monti,/ Dopo il giorno sereno,/ Cadendo si dilegua, e par che dica/
Che la beata gioventù vien meno.
Il borgo di Recanati è pulito e ordinato, discretamente
molle, viuzze che non riescono mai ad essere rettilinee, per via dell’orografia
ma pure dell’indole dei suoi abitanti: basta ascoltare la parlata – musicale,
eccome! – dei suoi cittadini per capire che qui di rettilineo e monotono ci può
essere ben poco. M’immagino Giacomo il Piccolo in faticosa deambulazione, gobbo
e timido, timoroso di ogni linea troppo dritta, ma pure dell’incertezza
dell’urbanistica, delle scale e delle scalinate. Poi, d’improvviso, tra due
file di case di mattoni rossi e di pietre bianche ingentilite da gerani
rossi-tutti-rossi, s’apre lo sguardo sulla collina marchigiana, dolce e molle
come tanti corpi di donne abbracciati alla terra. Colori teneri, rigati senza
essere irregimentati, le vie di fuga delle silhouette muoiono d’amore sul colle
che segue, in una sinfonia che un Pergolesi potrebbe forse scrivere in musica
sui miei pentagrammi.
O graziosa luna, io
mi rammento/ che, or volge l'anno, sovra questo colle/ io venia pien d'angoscia
a rimirarti:/ e tu pendevi allor su quella selva/ siccome or fai, che tutta la
rischiari.
Percorro di nuovo la dorsale del borgo di Recanati. Di
perle ne scopro non poche: il Palazzo comunale, la Torre del borgo, la chiesa
di San Domenico, la Pinacoteca comunale… Ma nel mio animo in questo concentrato
di senso non restano i palazzi, restano le viuzze, le piazzuole, gli slarghi,
le file di case che s’incurvano per seguire e per determinare la via. È qui che
Recanati svela la sua natura: il piccolo che diventa enorme, il filo d’un sentimento
che trova i caratteri dell’immortalità, una serie di fonemi che fa toccare
l’infinito.
E come il vento/ odo
stormir tra queste piante, io quello/ infinito silenzio a questa voce/ vo
comparando: e mi sovvien l'eterno,/ e le morte stagioni, e la presente/ e viva,
e il suon di lei. Così tra questa/ immensità s'annega il pensier mio:/ e il naufragar
m'è dolce in questo mare.
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