Viaggio in America Latina/1 - Salvador de Bahia svela le sue bellezze che lasciano col fiato sospeso. Anche se...
Salvador de Bahia, lo sanno tutti, è il Brasile più brasiliano
che esista, storicamente parlando. Sì, perché certamente il prsente è meglio
rappresentato da San Paolo per l’economia e da Brasilia per la politica, mentre
turismo e glamour trovano il loro
coronamento nella “città meravigliosa”, cioè Rio de Janeiro. Ma se si vuole
trovare il vero Brasile andando indietro nei secoli per cercare la sua cultura
originaria, bisogna venire a Salvador de Bahia e salire sull’ascensore Lacerda
fino a raggiungere lo sperone roccioso su cui è stato costruito il Pelourinho.
Cioè il centro storico della città, dove si concentra il meglio
dell’architettura e della tradizione culturale dello Stato di Bahia.
Già la sua storia parla chiaro: Salvador fu fondata circa
trent’anni dopo la “scoperta” del Brasile. Nel 1549 Salvador divenne la prima
capitale del Paese, per opera di Tomé de Souza, che eseguiva una sentenza della
corte reale portoghese. Per la sua protezione naturale della Baia di
Ognissanti, Salvador era considerata la capitale ideale. Il Pelourinho divenne
subito il luogo in cui si concentrarono le capacità architettoniche ed
urbanistiche dei colonizzatori portoghesi. Per tre secoli Salvador rimase il
centro del Brasile, convogliando quindi le ricchezze e le forze dei coloni
europei, e attirando masse di lavoratori. Ma, a causa della fama di “popolo
ozioso”, furono anche fatte confluire su Bahia masse di milioni di africani,
angolani in particolare, per lavorare i campi e le piantagioni come schiavi. Da
questa vicenda si capisce come la natura di questa città sia mista, anche dal
punto di vista religioso, visto che i riti tradizionali africani si sono
sovrapposti al cristianesimo portando ad una religione chiamata candomblé, che qui al Pelourinho ha il
suo centro principale.
Come dicevo, al Pelourinho si sale grazie a un ascensore ardito
che sale dal porto turistico del Terminal Maritimo e dal Mercado Modelo,
piazzato al centro di un largo spiazzo che si apre magnificamente sulla baia,
con alcuni edifici degni di nota – come gli stessi Terminal e Mercado – e un
forte che fa la guardia al porto, mentre un lato dello spiazzo è occupato da
alcuni edifici coloniali in rovina, incantevoli. Non a caso, perché non si può
capire Salvador de Bahia senza aver presente che la commistione tra vecchio e
nuovo, restaurato e abbandonato, tra intonaci appena ridipinti e facciate in
rovina è connaturale all’essenza della città più africana che ci sia fuori
dall’Africa. C’è in effetti qualcosa di paradossale nell’esistenza stessa della
città, come viene in evidenza in particolare al Pelourinho, concentrato di
negritudine africana e di europeismo colonialista, di oro e di colori
sfacciati, di bellezze quasi leccate e di trascuratezze ingiustificabili. Se
non si è avvezzi al paradosso, se non si amano i contrasti, è meglio lasciar
perdere Salvador de Bahia e cercare altrove il proprio appagamento dei sensi e
dello spirito.
Certamente il Pelourinho è il quartiere più turistico di
Salvador de Bahia, e non potrebbe non esserlo, se solo si pensa che in pochi
ettari sono concentrati i migliori capolavori del baroco brasileiro, assieme a quelli del Minas Gerais, Ouro Preto e
Diamantina e altro ancora. Ma questa della vocazione turistica in fondo è la
buona scusa per non lasciare andare in malora uno dei maggiori concentrati di
capolavori dell’eredità universale protetti dall’Unesco. Issato su una delle tante
colline scoscese del litorale che si affaccia sulla Baia di Ognissanti, il Pelourinho
non può non stupire per i suoi straordinari tesori barocchi – uno stile certamente
meticcio –, che t’abbagliano di riflessi dorati non appena penetri nella
Catedral Basilica costruita dai gesuiti, nella chiesa di São Pedro o
soprattutto in quella di São Francisco, assoluto e ineguagliato capolavoro. C’è
l’Europa coloniale e l’eccesso tropicale, nel monastero e nella chiesa dedicati
paradossalmente al poverello di Assisi, c’è persino l’impronta, per contrasto,
della negritudine.
Ma poi esco dalle chiese e dai conventi e mi accorgo che le
proporzioni tra le dimensioni europea e afro-indigena si ribaltano per la
prevalenza di quest’ultima, ciò che vuol dire propriamente “stile coloniale”.
L’oro e la gloria di lassù lasciano lo spazio e il tempo alle tinte forti e
alle consolazioni di quaggiù. Con le baianas
che cercano i clienti per farsi immortalare, con i barboni che ti fanno il filo
col fiato avvinazzato, con le bellezze giovanili, muliebri e mascoline, che
t’ispirano sentimenti di rinascita, con i ritmi di saudade e di festa che invitano alla spensieratezza, con i succhi
di frutta esotica e i bicchieri gelati di caipirinha
che invocano l’oblio gioioso.
Al Pelourinho si sale e si scende di continuo, lungo strade che
sono scalinate mascherate, minuscoli gradini di pietra sconnessa che aprono
prospettive sempre più affascinanti e inquietanti di bellezza; un patrimonio
che va gestito dal visitatore con nonchalance,
con la proverbiale lentezza dei locali, incapaci di sentimenti troppo
razionali. Perché qui è ragionevole bearsi con calma.
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