Georgetown e Orange Hill, ovvero la furia degli elementi naturali nei territori dei caribi.
Già appena lasciata la costa turistica del Sud dell’isola di St
Vincent, una delle Isole Sopravento dei Caraibi meridionali, si possono notare sulla strada detriti d’ogni genere, fango e
pozzanghere, pietre cadute dall’alto delle falesie. La notte di Natale è stata terribile, con la caduta di una quantità impressionante d'acqua. La popolazione è stata presa alla sprovvista, perché di questa stagione fenomeni come questi non se ne conoscevano.
Si avanza con prudenza.
Poi, all’altezza del tunnel di Byera, un insolito movimento ferma il traffico.
Sulla vallicciola cresciuta a monte della strada, s’è abbattuta una colata di
fango che ha investito due o tre case e portato a valle qualche automobile. C’è
scappato il morto, un anziano che stava dormendo, la cui stanza è stata invasa
dall’acqua e dal fango. C’è dolore nelle parole degli astanti, uno dei quali è il figlio, così come un
certo fatalismo. Il rapporto con la morte qui è decisamente diverso da quello
che abbiamo da noi in Europa: se la nostra speranza di vita raggiunge ormai gli
80 anni, qui i 50 sono ancora un sogno… Mi raccontano che nel territorio caribi, più a Nord, sono morte altre cinque o sei persone, trasportate chissà dove dalle acque e dal fango che scendeva dalle pendici del vulcano La Soufrière, ancora attivo.
Passato il breve tunnel, oscuro, ecco che s’annuncia la seconda
città del Paese, Georgetown.
Dopo un primo momento di sorpresa nel vedere un abitato almeno all’apparenza
ordinato e vivace, con una originale chiesa metodista e un’altra anglicana
proprio sul lungomare, ingentilite e rese attraenti dagli ampi cimiteri
all’inglese, prati curatissimi con tombe candide, mentre la chiesa cattolica
qui giace abbandonata, senza tetto e ormai senza protezione alcuna, ecco che la
cruda realtà dell’inondazione che ha colpito l’isola nella notte di Natale si
fa vedere in tutta la sua crudezza.
Le strade sono invase dal fango e dai
detriti, qualcuno qua e là sta cercando di riattivare i canali di scolo delle
acque, mentre la gente commenta più che darsi da fare. Arriviamo bene o male al
ponte principale della città, o meglio quello che fu. È crollato su sé stesso,
a metà della campata principale. Fortunatamente non era altissimo, un paio di
metri, così che per miracolo, scendendo la prima metà del ponte e poi risalendo
la seconda, si riesce ancora a passare in auto. Per poco, perché un altro ponte è
irrimediabilmente crollato e ci si deve inoltrare verso l’interno per una
deviazione istruttiva: non tanto per il disastroso stato delle strade e
dell’abitato, quanto perché posso osservare un intero paese alla ricerca di
acqua potabile, visto che le tubature sono saltate ovunque.
Mi dicono che due
sono le sorgenti disponibili: una da questa parte della città e un’altra,
invece, sul litorale. E mi stupisce la semplicità della gente che fa la coda,
magari grida ma poi aspetta il suo turno. E ci sono i giovani che aiutano i
vecchi e i bambini che vogliono cooperare, e la vecchietta che con una scopetta
piccola piccola cerca di aiutare nello sgomberare la via dinanzi a casa sua…
Avanziamo oltre la città, verso la “riserva” delle popolazioni caribi, che qui non ha
questo nome, preferendo quello di “territorio”. Solo nel territorio caribi, ci conferma ora la radio, sarebbero
morte cinque persone e quattrocento persone avrebbero perso la casa. Lasciamo la
città a fatica, per via dei ponti crollati. Ma ben presto, appena
al di là del cartello indicativo che segna l’inizio del territorio caribi e l’avvio
del cammino che porta alla cima del vulcano La Soufrière,
con il mio amico Crespin, che guida da manuale nelle difficilissime strade di
St Vincent, ci accorgiamo che probabilmente non riusciremo ad arrivare alla
nostra destinazione, il villaggio di Owia, all’estremo Nord dell’isola, appena
al di là di una baia che dicono incantevole, la
Sandy Bay. La strada, in effetti, è spesso
ridotta ad un mare di fango e detriti di ogni genere che si sono riversati sulla
carreggiata. Più volte dobbiamo scendere per verificare la tenuta di ponti,
muri di sostegno, curve sospese nel nulla perché la terra è stata scavata dalle
acque al di sotto del manto stradale…
Un vero percorso del combattente, accompagnato dai locali, i
famosi caribi, che non perdono occasione per intavolare qualche discorso con
noi, ovviamente cominciando dai danni dell’alluvione. Le donne e i bambini,
mentre i maschi sono impegnati nella risistemazione delle strade o nella salvaguardia
delle case danneggiate, portano acqua alle loro case dalle sorgenti, perché l'acquedotto costruito qualche anno fa come segno di interesse dello Stato
per la minoranza caribi è stato danneggiato in mille punti diversi dalla furia
delle acque e così la potabilità è andata a farsi benedire (ma comunque l’acqua
non arriva nelle case e nelle fontane). Finché, dopo diversi tentativi e dopo
non pochi rischi per passaggi che forse non era prudentissimo effettuare,
decidiamo di tornare indietro: questa strada “mangiata” (vedi foto) è troppo anche per chi è
abituato a rischiare.
Fantastico ritorno, perché tutta la gente che avevamo
incontrato all’andata vuole sapere tutto quello che abbiamo visto e così condividere
il dolore. Mi dice un vecchio barbuto: «Non è Dio che ci ha colpiti per farci credere di più in lui. Ma è la natura che ci ricorda che non siamo Dio». E
dove mai ha studiato teologia questo contadino caribi?
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