Martinica. L'antica capitale spazzata via da una terribile eruzione vulcanica della Montagne Pelée, nel 1902. Una città che alterna rovine a edifici rinnovati.
Era il 1902, mese di maggio, giorno 8. C’erano le elezioni in
Martinica e i politici al potere temevano che nella regione della capitale
Saint-Pierre la gente se ne andasse senza ottemperare al primo diritto-dovere
del cittadino: votare. Eppure il vulcano conosciuto come Montagne Pelée, ombra
nera sopra la città, da qualche settimana dava segni inquietanti di un’attività
magmatica e tellurica imponente: cenere e lapilli venivano eruttati da giorni,
senza che arrivassero sulla capitale, distante una dozzina di chilometri in
linea d’aria dalla cima del vulcano. La gente era spaventata assai, c’erano
stati decine di casi di avvelenamento da morsi di vipere, qualcuno c’era pure
restato, a memoria d’uomo non ce n’erano stati di così rtavvicinati in
precedenza. E poi, che dire di quelle turbe di animali della foresta che
scendevano a valle e poi si dirigevano a Sud, con non poco strepito, polvere
sollevata al passaggio e trambusto? Alla fine accadde, alle 8 di mattina: il
vulcano riversò la sua onda d’urto di cenere, lapilli incandescenti e gas che
portò la morte praticamente a tutta la popolazione di Saint-Pierre, che non
ebbe nemmeno il tempo di pensare ad una qualche fuga. Pochi minuti furono
sufficienti per togliere la vita alla capitale. I danni materiali furono enormi
– il fuoco invase tutta la città –, ma minori di quelli umani. Sopravvissero,
almeno sembra, solo tre uomini. Uno di essi, di nome Cyparis, era un
prigioniero, seppellito in una cella d’isolamento che si rivelò salvatrice per
lui.
Visitare a più di un secolo di distanza Saint-Pierre è
operazione di memoria, non di archeologia. Si tratta di trovare le tracce della
vita che fu spazzata via e poi confrontarle con la vita attuale, circa un
quinto di quella che ferveva su questa costa caraibica della Martinica prima
dell’eruzione. L’esercizio richiede una certa elasticità, ma merita, perché ci
si accorge nell’oggi un po’ sbrindellato e nostalgico che, comunque,
Saint-Pierre non è morta l’8 maggio 1902. È il teatro che impressiona più
d’ogni altra rovina, sia per le sue dimensioni, sia perché è rimasta solo la
pietra mentre il legno s’è volatilizzato in cenere. Le enormi scalinate
d’accesso paiono così più che sproporzionate, paiono portare alla stupenda
parete di vegetazione che s’erge immediatamente a ritroso del teatro, quasi
verticale, pettinata alla sommità da un ciuffo di palme e di banani
incantevoli. Se poi s’immaginano le bouganville che accompagnano la scalinata,
si può capire la straordinaria forza evocativa di queste scalinate. E poi le
prigioni attigue, dove si salvò Cyparus, gli avamposti dell’esercito francese,
gli alloggi della gente comune, le cappelle, i ponti, i mercati, la borsa
valori, il cimitero… Ogni luogo vive sostanzialmente dei gradini di accesso a
questi resti privati della loro componente lignea, quindi della loro parte
vitale. La base è rimasta, sottolineata da quei gradini che portano al nulla,
che discendono dal nulla di rovine, dal redde
rationem del fuoco. Fors’anche dal fuoco eterno, per coloro che non diedero
ascolto asgli esperti per allertare la popolazione e permettere a tanta gente
di mettersi in salvo.
Passeggio ancora, senza sosta, nel caldo umido, tra uno
scroscio di pioggia e l’altro, tra un brillìo di sole e l’altro, tra un
pensiero fumoso e uno di speranza, tra un buco e l’altro nell’abitato.
L’eruzione della Montagne Pelée ha portato l’arte del buco, della mancanza, del
nulla in questa città commerciante e vitale della Martinica coloniale. La kenosis ha fatto il suo ingresso
portando il vuoto. Che ora i nuovi “sampietrini” stanno cercando di colmare.
Con non pochi vuoti!
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