Ancora nell'isola di Grenada, un villaggio poco frequentato dai turisti, tra povertà e familiarità dei rapporti.
La costa atlantica delle Isole Sopravento è inequivocabilmente la più selvaggia e quasi sempre difficile da nuotare. Non fa eccezione nemmeno l’isola di Grenada. I villaggi e le cittadine che s’allungano sulla costa paiono allora tutt’altro che dei luoghi turistici tradizionali, essendo praticamente assente ogni sito da tour operator. Meno male, da queste parti rischio d’incontrare la normalità dei grenadini, o come si chiamano gli abitanti di questa terra caraibica.
Non mi metto nemmeno
alla ricerca di un qualche monumento o di qualche architettura degna di nota:
tutto pare precario, salvo qualche chiesa protestante che accenna a un guizzo kitsch, solo kitsch. Le più interessanti appaiono le abitazioni di legno del
secolo scorso restaurate alla meno peggio, senza stravolgerne i connotati. È
domenica, tutto è chiuso e quindi la città appare un luogo di fantasmi, salvo
per le celebrazioni domenicali. Per cercare un po’ di vita m’avvicino al
mercato del pesce e al porto, sperando che il Dio dell’incontro mi guardi con
benevolenza. Lo fa. Ha dapprima il volto di una giovane donna che, al bar dove
sorbisco un caffè peraltro delizioso, mi si avvicina con un sorriso sdentato
reso ancora più mostruoso da due labbroni esagerati invitandomi a renderla
felice. Il che per me vuol dire offrirle un caffè, per lei ben altra cosa. Il
commercio naturalmente sfuma, mentre accanto a lei amici e avventori se la ridono della
grossa e poco importa se quella giovane donna m’appare una vittima innocente…
Saluto e avanzo verso il fish market,
che trovo però chiuso. Avanzo ancora qualche decina di metri finché mi ritrovo
in mezzo a un gruppo di pescatori di piccolo cabottaggio che discutono il
prezzo dei loro pescetti con gli avventori. Ne fotografo tre, rossi come
peperoni, su una bilancia. Poi un giovane grosso e arrogante mi
vieta ogni attività fotografica accusandomi di essere un «bastardo crocierista».
Confesso che l’epiteto mi colpisce e m’offende, ma non riesco a volergliene
neanche un po’. M’allontano di qualche metro, appena lo spazio per cambiare
d’universo relazionale: dall’acqua emerge un vecchio rasta che regge in mano un
piccolo tonno nero. Sale i due gradini sbeccati del molo e su un tagliere che
era un banco di scuola si mette a pulire la sua preda preziosa, raccontandomi
nel contempo la protologia e l’escatologia di Grenville. Anche se capisco ben
poco, qui si parla un idioma simil-inglese che nasce e muore in bocca, trovando
appena il tempo di lasciare qualche traccia all’esterno dell’orifizio buccale…
S’avvicina un secondo rasta, più giovane, che prende ad attaccare il suo
collega che m’aveva apostrofato: «I ragazzi d’oggi vivono qui come reclusi.
Vorrebbeo tutti essere a New York o a Londra».
Un giovanotto fa una
sgasata con la sua barca, un vecchio pesca alla lenza, un ragazzo dinoccolato
porta in giro la sua musica assordante in un’enorme scatola. Benvenuti a
Grenville!
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