Viaggio in Kazakistan/8 - L'opera d'arte timuride più importante del Paese è un mausoleo perso nel deserto.
Sette di sera. Il sole sta piegando la sua forza cercando di nascondersi dietro il disordinato e trascurato abitato di Turkestan. Sono appena ritornato al Mausoleo di Khoja Ahmed Yasawi dopo la sfiancante visita in pieno giorno e un momento di pausa abbandonato in una stanza pulita ma estremamente essenziale dal letto sfondato. Sono tornato qui perché questo luogo mi attira, come già da tempo mi attirava anche solo gettando un’occhiata alle sue foto nelle guide turistiche. Ho già visitato Samarcanda, Buchara, Konjeurgench e Isfahan, dove si ergono forse i migliori capolavori dell’arte religiosa centrasiatica, ma qui qualcosa si aggiunge. La vox populi parla chiaro: tre pellegrinaggi a questo mausoleo valgono un pellegrinaggio alla Mecca. Fu costruito su ordine di Tamerlano tra il 1389 e il 1405 in onore del profeta Khoja Ahmed Yasawi che, nato nel 1094 a Sayram, era poeta e mistico, fondatore dell’ordine sufi Tariqah. Terminò la sua vita nel 1166 in un eremitaggio su una collina non lontana dal luogo del mausoleo. Si dice che qui passò Tamerlano stesso il quale, dopo una preghiera e vedendo il pietoso stato della gente e della cittadina, ordinò che vi fosse costruito un enorme mausoleo per riscattare la città che aveva ospitato un tale personaggio. Naturalmente si servì dell’arte di artisti e artigiani iraniani all’epoca celebri, come Haddzhi Hassan e di Shems Abdul Wahhab che venivano da Shiraz. La composizione archiettonica del mausoleo è strana, decorato totalmente nella porta nordoccidentale, mentre la grandiosa porta sudorientale è in mattoni apparenti: fu l’ultima a venire costruita e forse i soldi erano finiti, e Tamerlano ormai era morto e sepolto...
Stasera tira un forte vento, caldo e secco, il mausoleo vive della sua pelle screpolata che crea disegni coi mattoni e tra i mattoni, che esalta le decorazioni timuridi azzurre e blu sul beige dei mattoni, che trasforma le imperfezioni in bellezza, come in una donna che nel fior della maturità viene resa perfetta dalle prime rughe che appaiono sul suo corpo. La luce radente della sera esalta la sapienza del tempo che passa rendendo d’oro la pelle che non è preziosa. Le due cupole, una azzurra uniforme, l’altra a scanalature sempre azzurre ma con decorazioni floreali verdi e blu, giocano tra di loro e con le pareti tracciate di armonie. C’è serenità e bellezza, merci rare in Kazakistan.
Come sempre accade, quasi sempre, nei monumenti musulmani l’interno non è la portata migliore del menù. Anche qui, più che nelle decorazioni la bellezza va cercata nel gioco delle forme e delle luci, nelle aperture che lasciano filtrare quel po’ di luminescenza atta a cercare prospettive sempre uguali e sempre nuove, a suscitare l’intersecarsi di linee che muoiono al proprio apogeo per rinascere poi nel luogo dell’altrui morte. Reciprocamente legate. L’esterno, al contrario, è stupefacente nella sua levità e nell’inconsueta leggerezza pur nelle dimensioni maestose della costruzione che per alcuni versi richiama il travagliato esempio della moschea di Bibi Kanoum a Samarcanda, che non fu mai terminata perché in parte crollò durante la costruzione. Le due cupole creano sempre nuove armonie e nuove sorprese, al punto che il fotografo che dovrei essere s’arrende: solo il filmato può rendere giustizia a un tale capolavore mutante a seconda della luce che lo avvolge.
Un pavone rallegra i visitatori all’ingresso del mausoleo orientato a Sud-Est, visitatori che peraltro debbono stare attenti alle deiezioni delle centinaia di piccioni e altri volatili che da sempre occupano la mai terminata facciata dalla quale, nella parte superiore, spuntano assi irregolari di legno che avrebbero dovuto sorreggere altre decorazioni e maiolicati, ulteriori strutture architettoniche. Quel pavone, segno di bellezza ed eternità (potente connubio!) rende i visitatori – al 99,9 per cento indigeni – perché, sia detto per inciso, chi mai si sfianca per venire in questo deserto ad ammirare un solo monumento, visto che il resto conta poco o nulla? –, consci che qui si tocca qualcosa della grazia. Quella universale, quella che non può limitarsi a baciare una sola religione, la grazia di Dio, il potente e misericordioso, il buono e il bello, il giusto e il grazioso. L’amore.
Ma non è finita qui. Il mausoleo mi trattiene ancora un paio d’ore, fino all’ultimo raggio di sole che brucia la pietra, le maioliche, i mattoni, fino alla consunzione della grazia che s’evapora in mille gocce di colore. Un cammello, un secondo, dove sono, chi sono, dove vado? Il mondo pare sospeso stasera. Chissà quali misteriosi movimenti avvengono in un’anima per costringerla a girare attorno a un mausoleo timuride per ore e ore, fino alla benedizione dell’ultimo raggio di sole! Certamente qualcosa che ha a che fare con la grazia.
Sette di sera. Il sole sta piegando la sua forza cercando di nascondersi dietro il disordinato e trascurato abitato di Turkestan. Sono appena ritornato al Mausoleo di Khoja Ahmed Yasawi dopo la sfiancante visita in pieno giorno e un momento di pausa abbandonato in una stanza pulita ma estremamente essenziale dal letto sfondato. Sono tornato qui perché questo luogo mi attira, come già da tempo mi attirava anche solo gettando un’occhiata alle sue foto nelle guide turistiche. Ho già visitato Samarcanda, Buchara, Konjeurgench e Isfahan, dove si ergono forse i migliori capolavori dell’arte religiosa centrasiatica, ma qui qualcosa si aggiunge. La vox populi parla chiaro: tre pellegrinaggi a questo mausoleo valgono un pellegrinaggio alla Mecca. Fu costruito su ordine di Tamerlano tra il 1389 e il 1405 in onore del profeta Khoja Ahmed Yasawi che, nato nel 1094 a Sayram, era poeta e mistico, fondatore dell’ordine sufi Tariqah. Terminò la sua vita nel 1166 in un eremitaggio su una collina non lontana dal luogo del mausoleo. Si dice che qui passò Tamerlano stesso il quale, dopo una preghiera e vedendo il pietoso stato della gente e della cittadina, ordinò che vi fosse costruito un enorme mausoleo per riscattare la città che aveva ospitato un tale personaggio. Naturalmente si servì dell’arte di artisti e artigiani iraniani all’epoca celebri, come Haddzhi Hassan e di Shems Abdul Wahhab che venivano da Shiraz. La composizione archiettonica del mausoleo è strana, decorato totalmente nella porta nordoccidentale, mentre la grandiosa porta sudorientale è in mattoni apparenti: fu l’ultima a venire costruita e forse i soldi erano finiti, e Tamerlano ormai era morto e sepolto...
Stasera tira un forte vento, caldo e secco, il mausoleo vive della sua pelle screpolata che crea disegni coi mattoni e tra i mattoni, che esalta le decorazioni timuridi azzurre e blu sul beige dei mattoni, che trasforma le imperfezioni in bellezza, come in una donna che nel fior della maturità viene resa perfetta dalle prime rughe che appaiono sul suo corpo. La luce radente della sera esalta la sapienza del tempo che passa rendendo d’oro la pelle che non è preziosa. Le due cupole, una azzurra uniforme, l’altra a scanalature sempre azzurre ma con decorazioni floreali verdi e blu, giocano tra di loro e con le pareti tracciate di armonie. C’è serenità e bellezza, merci rare in Kazakistan.
Come sempre accade, quasi sempre, nei monumenti musulmani l’interno non è la portata migliore del menù. Anche qui, più che nelle decorazioni la bellezza va cercata nel gioco delle forme e delle luci, nelle aperture che lasciano filtrare quel po’ di luminescenza atta a cercare prospettive sempre uguali e sempre nuove, a suscitare l’intersecarsi di linee che muoiono al proprio apogeo per rinascere poi nel luogo dell’altrui morte. Reciprocamente legate. L’esterno, al contrario, è stupefacente nella sua levità e nell’inconsueta leggerezza pur nelle dimensioni maestose della costruzione che per alcuni versi richiama il travagliato esempio della moschea di Bibi Kanoum a Samarcanda, che non fu mai terminata perché in parte crollò durante la costruzione. Le due cupole creano sempre nuove armonie e nuove sorprese, al punto che il fotografo che dovrei essere s’arrende: solo il filmato può rendere giustizia a un tale capolavore mutante a seconda della luce che lo avvolge.
Un pavone rallegra i visitatori all’ingresso del mausoleo orientato a Sud-Est, visitatori che peraltro debbono stare attenti alle deiezioni delle centinaia di piccioni e altri volatili che da sempre occupano la mai terminata facciata dalla quale, nella parte superiore, spuntano assi irregolari di legno che avrebbero dovuto sorreggere altre decorazioni e maiolicati, ulteriori strutture architettoniche. Quel pavone, segno di bellezza ed eternità (potente connubio!) rende i visitatori – al 99,9 per cento indigeni – perché, sia detto per inciso, chi mai si sfianca per venire in questo deserto ad ammirare un solo monumento, visto che il resto conta poco o nulla? –, consci che qui si tocca qualcosa della grazia. Quella universale, quella che non può limitarsi a baciare una sola religione, la grazia di Dio, il potente e misericordioso, il buono e il bello, il giusto e il grazioso. L’amore.
Ma non è finita qui. Il mausoleo mi trattiene ancora un paio d’ore, fino all’ultimo raggio di sole che brucia la pietra, le maioliche, i mattoni, fino alla consunzione della grazia che s’evapora in mille gocce di colore. Un cammello, un secondo, dove sono, chi sono, dove vado? Il mondo pare sospeso stasera. Chissà quali misteriosi movimenti avvengono in un’anima per costringerla a girare attorno a un mausoleo timuride per ore e ore, fino alla benedizione dell’ultimo raggio di sole! Certamente qualcosa che ha a che fare con la grazia.
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