Viaggio in Kazakistan/7 - Un centro commerciale e industriale nel deserto dell'Ovest del Paese, ovvero capire i locali aspettando un treno...
Di questa città nel Sud del Kazakistan non avrei molto da dire, perché in realtà ci trascorro appena qualche ora, tra l’arrivo dell’aereo che mi ha portato qui da Almaty e la partenza del treno che mi condurrà a Turkestan. Un tassì mi ha deposto in qualche modo , è il caso di dirlo, alla stazione ferroviaria, dove ora mi trovo a trascorrere un paio d’ore di attesa. L’abitato che scorreva fuori dal finestrino mi è parso quello consueto delle repubbliche ex-sovietiche, con un evidente disordine urbanistico, una dose considerevole di trascuratezza e un’inveterata allergia alla bellezza dell’abitato, e non solo di quello.
Passano pochissimi treni, ma la gente è tanta e così le bottegucce che vendono prodotti alimentari: vivono di quel che riescono a smerciare durante la sosta dei lunghi convogli sferraglianti, sufficientemente ampie (almeno dieci minuti) perché la gente scenda dal proprio vagone e si procuri il cibo necessario per il prosieguo del viaggio.
Fa caldo, non c’è un solo caffè che fornisca un minimo di conforto, non dico l’aria condizionata... Ma tant’è, una sedia di plastica azzurra la trovo sotto un portico e così una bibita fresca e uno di quei deliziosi fagottini alla carne e alle cipolle che da queste parti sanno cuocere proprio bene. Sull’unico binario passeggeri la signora biondo platino con incongrui tacchi a spillo che aspetta il treno con atteggiamento di sopportazione e la babuska che sgrana le sue preghiere con una faccia durissima, di terra; c’è il ferroviere che suda come una fontana ma che si ostina a rimanere al sole in attesa del convoglio seguente, annunciato tra 48 minuti; c’è la muta di marmocchi che, sotto la guida della più grandicella, improvvisa una scuola di danza contemporanea; c’è il ristoratore di origini uzbeche che inalbera con fierezza la sua barba da imam integralista mentre le sue donne tirano la pasta; c’è la poveretta che elemosina una briciola di pane, nemmeno un soldino...
Al mio tavolino sbilenco s’accomoda sua sponte un uomo che ovviamente non parla una parola d’inglese ma che vuol comunque attaccar bottone col sottoscritto, attirato dalle pagine che sto vergando con la mia calligrafia regolare così diversa dal loro alfabeto e da quello russo. Riesco a capire che lavora come scaricabagagli alla stazione, che ha sette figli tra cui due ragazze, che ha una casetta in periferia, che il venerdì va sempre alla moschea, che a casa sua tutti hanno il telefonino anche se di modelli antiquati, che il figlio più grande vuole diventare medico, che Nazarbayev è poco meno di un dio, che Shymkent è grande perché ci arrivano gli aerei, che Nibali è il migliore ciclista al mondo, che Dio è grande e misericordioso e che dobbiamo temerlo, che viaggiare fino a Roma è il suo sogno nasconto e irrealizzabile perché non ha il passaporto, chissà perché, che gli spiedini sono il suo piatto preferito e che ogni domenica con la famiglia vanno al fiume per grigliarli... Tutto ciò sarà poco più del 5 per cento di quello che dice il mio interlocutore, Nusultan si chiama, comunque sufficiente per aprire uno spaccato sulla vita della gente di Shymkent.
Di questa città nel Sud del Kazakistan non avrei molto da dire, perché in realtà ci trascorro appena qualche ora, tra l’arrivo dell’aereo che mi ha portato qui da Almaty e la partenza del treno che mi condurrà a Turkestan. Un tassì mi ha deposto in qualche modo , è il caso di dirlo, alla stazione ferroviaria, dove ora mi trovo a trascorrere un paio d’ore di attesa. L’abitato che scorreva fuori dal finestrino mi è parso quello consueto delle repubbliche ex-sovietiche, con un evidente disordine urbanistico, una dose considerevole di trascuratezza e un’inveterata allergia alla bellezza dell’abitato, e non solo di quello.
Passano pochissimi treni, ma la gente è tanta e così le bottegucce che vendono prodotti alimentari: vivono di quel che riescono a smerciare durante la sosta dei lunghi convogli sferraglianti, sufficientemente ampie (almeno dieci minuti) perché la gente scenda dal proprio vagone e si procuri il cibo necessario per il prosieguo del viaggio.
Fa caldo, non c’è un solo caffè che fornisca un minimo di conforto, non dico l’aria condizionata... Ma tant’è, una sedia di plastica azzurra la trovo sotto un portico e così una bibita fresca e uno di quei deliziosi fagottini alla carne e alle cipolle che da queste parti sanno cuocere proprio bene. Sull’unico binario passeggeri la signora biondo platino con incongrui tacchi a spillo che aspetta il treno con atteggiamento di sopportazione e la babuska che sgrana le sue preghiere con una faccia durissima, di terra; c’è il ferroviere che suda come una fontana ma che si ostina a rimanere al sole in attesa del convoglio seguente, annunciato tra 48 minuti; c’è la muta di marmocchi che, sotto la guida della più grandicella, improvvisa una scuola di danza contemporanea; c’è il ristoratore di origini uzbeche che inalbera con fierezza la sua barba da imam integralista mentre le sue donne tirano la pasta; c’è la poveretta che elemosina una briciola di pane, nemmeno un soldino...
Al mio tavolino sbilenco s’accomoda sua sponte un uomo che ovviamente non parla una parola d’inglese ma che vuol comunque attaccar bottone col sottoscritto, attirato dalle pagine che sto vergando con la mia calligrafia regolare così diversa dal loro alfabeto e da quello russo. Riesco a capire che lavora come scaricabagagli alla stazione, che ha sette figli tra cui due ragazze, che ha una casetta in periferia, che il venerdì va sempre alla moschea, che a casa sua tutti hanno il telefonino anche se di modelli antiquati, che il figlio più grande vuole diventare medico, che Nazarbayev è poco meno di un dio, che Shymkent è grande perché ci arrivano gli aerei, che Nibali è il migliore ciclista al mondo, che Dio è grande e misericordioso e che dobbiamo temerlo, che viaggiare fino a Roma è il suo sogno nasconto e irrealizzabile perché non ha il passaporto, chissà perché, che gli spiedini sono il suo piatto preferito e che ogni domenica con la famiglia vanno al fiume per grigliarli... Tutto ciò sarà poco più del 5 per cento di quello che dice il mio interlocutore, Nusultan si chiama, comunque sufficiente per aprire uno spaccato sulla vita della gente di Shymkent.
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