lunedì 11 maggio 2015

Durbar Square (Kathmandu), dove il Nepal si fa più profondo



Continuando nel reportage scritto un anno fa dai luoghi recentemente sconvolti dal sisma che ha colpito il Paese himalayano, ecco il gioiello dei gioielli della capitale. Per ricordare tutte le vittime del terremoto.

Ci sono dei luoghi dove è difficile mantenere la calma spirituale e fisica tanta è la novità che ci tocca affrontare. Mi capita qualcosa di simile a Kathmandu, capitale del Nepal, in questo periodo di lavoro e vacanza in cui non è poi così semplice riposarsi, per l’eccessiva quantità di sorprese che ci si trova ad affrontare nello spazio di poche ore, se non di pochi minuti. Durbar Square è un concentrato di storia e d’arte: era il luogo dove venivano incoronati i re e dove poi governavano (durbar vuol dire palazzo) ed è tuttora il maggior patrimonio architettonico tradizionale del Paese himalayano. Complesso dichiarato nel 1979 “patrimonio dell’umanità” dall’Unesco, è in realtà un complesso di tre piazze sulle quali si affacciano una quantità impressionante di templi e palazzi. C’è il Kasthamandap, XII secolo, la più antica costruzione della regione, edificata col legno di un solo albero di sal. C’è l’Ashok Binayak, santuario dorato dedicato a Ganesh, il dio dalla proboscide. Sul Maju Deval, dedicato a Shiva, si può osservare la folla variopinta in visita alla Durbar seduti sui suoi gradoni. C’è, soprattutto, l’Hanuman Dhoka, il palazzo del potere, fondato nel IV secolo, che contava in origine 35 cortili, ma nel 1934 un terremoto terribile ridusse i cortili a una decina…

L’approccio è di quelli che non lasciano indenni. Arrivo dal mio alloggio dopo aver attraversato una quantità di strade, viuzze, piazze e slarghi trovando non poche sorprese e molta, moltissima voglia di vivere e non solo di sopravvivere. La tensione spirituale, umana e civica è al massimo allorché, in fondo a un viale (in realtà una stradina!) appare uno dei templi della celeberrima Durbar Square, il Saraswati. E comincia allora un grappolo d’ore trascorse a salire e scendere i gradini dei tanti templi che occupano la piazza, anzi le piazze, concatenate assieme senza una logica apparente, ma comunque non senza legami culturali e, soprattutto, estetici. Vago tra un tempio e l’altro, tra un mendicante e l’altro, tra una donna che offre candeline e un’altra che invece propone collane di fiori arancioni, tra una coppia di innamorati che tubano in un anfratto ligneo e uno stormo di piccioni che tubano per i fatti loro attorno a un monaco color zafferano e a uno color della porpora, tra una turba di mocciosi che occupano il carro approntato per il Capodanno locale e un’altra turba che invece gioca a pallone con un grumo sfilacciato di stracci… Perso, o forse ritrovato. Così m’identifico.

Il museo del Hanuman Dhoka è certamente meno vivo, anzi in confronto è quasi morto. Ma espone i capolavori assoluti dell’arte newari, legno e mattoni, niente pietra. L’esperienza più elettrizzante è quella della salita per le nove scale di legno della Torre di Basantapur, il più alto edificio dell’antico palazzo reale, salendo a uno a uno i gradini che conducono all’ultimo livello da cui si gode una straordinaria vista sull’intera Kathmandu. Sotto di noi appare un alveare la piazza omonima, occupata dai mercanti d’ottone e peltro, mentre i templi della Durbar Square appaiono mucchi aggraziati di offerte votive e la folla un liquido oleoso in movimento; senza contare i rumori, che quassù giungono attutiti quanto basta per sentirsi al di sopra della tenzone della sopravvivenza. La discesa per le anguste scale, infide per la profonda oscurità pur in pieno giorno, pare una semplice preparazione psicologica all’immersione nella folla della piazza, concentrato d’umanità e di profusione vegetale e animale, tra mucche sacre e serpentelli sacralizzati, tra ghirlande candide-dorate-arancioni e manciate di petali al vento.

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