La città del ponte più noto dei Balcani, distrutto dalla guerra degli anni Novanta e ora ricostruito.
Non c’è dubbio: Mostar – che non a caso significa
“guardiano del ponte – vive dello Stari Most, il ponte vecchio, definito anche
poeticamente “luna pietrificata”. Le sole vestigia interessanti, quelle
dell’epoca medievale e ottomana, s’aggruppano, si cristallizzano, si
affastellano attorno al ponte più noto della Bosnia e simbolo della guerra
degli anni Novanta, che lo distrusse senza pietà né rispetto per la storia e
per l’arte. Una storia lunga: nel XVI secolo era un importante nodo di
trasporti e commercio dell’Impero ottomano. Nel 1557, Solimano il Magnifico
ordinò la costruzione di un magnifico arco di pietra che sostituisse il ponte
ligneo sospeso sulla Neretva, le cui oscillazioni spaventavano i viaggiatori.
Il ponte fu terminato nel 1566 e ben presto divenne una delle meraviglie
architettoniche dell’intera Europa. Nel corso della guerra degli anni Novanta,
dapprima croati-bosniaci e musulmani-bosniaci combatterono fianco a fianco
contro i serbi, ma nel 1993 presero a combattersi anche tra di loro, creando
una linea di fronte che attraversava l’intera città. Due anni di combattimenti
che distrussero non solo il ponte, ma anche la quasi totalità degli edifici
storici della città. Il centro è stato poi ricostruito col contributo
determinante dell’Unesco, visto che la città è iscritta nell’albo dei siti
“patrimonio dell’umanità”.
Vengo da Medjugorie, un luogo di grande significato
spirituale, al di là della veridicità delle apparizioni mariane, ma di assoluta
insignificanza dal punto di vista architettonico e artistico, oltre che
storico. È quindi con sommo piacere che, percorsi i trenta chilometri che
separano la cittadina delle apparizioni dalla città del ponte, mi trovo
dapprima nelle vie del fronte su cui due lati le vestigia crudeli della guerra
sono ancora perfettamente visibili, e quindi alle soglie del quartiere
centrale, con le sue in fondo modeste ma bellissime case di pietra e di legno
che ricordano come da queste parti la frammistione e la contaminazione delle
culture siano assolutamente normali. C’è dell’influenza turca, indubbiamente, a
cominciare dalle moschee che paiono palazzi residenziali e dai minareti che
svettano come fossimo a Istanbul; ma non mancano le tracce d’un medioevo più
mitteleuropeo, fino a scorgere elementi che rimandano piuttosto al Sud della
Macedonia attuale e a quella più antica, Grecia quindi. E che dire del ponte
sospeso stesso, che è certamente debitore a certi parametri costruttivi romani,
seppur con contaminazioni romane?
Attraverso il ponte, che ha conservato anche dopo la
ricostruzione la pavimentazione originale, recuperata almeno in parte: lastre
di pietra bianca poste nel senso della marcia e traversine della stessa pietra
sollevate di 8-10 centimetri sulla sede stradale. Un modo di rendere
percorribile il ponte anche nei rigidi inverni di queste parti – la città è
coronata dalla neve che imbianca le sommità dei rilievi –, ma anche di
annullare, o anestetizzare, la forte e insolita pendenza del ponte sospeso
sulla Neretva. Mi siedo quindi ai tavolini di un bar, sotto la via dei commerci
chiamata Onešćukova, con una vista mozzafiato sulla “luna pietrificata” e,
dinanzi a una fresca e gradevole Sarajevska, la più nota birra locale, scrivo
queste note nel relax più assoluto: per giunta la temperatura non è rigida e la
pioggia non cade a torrenti, come il bollettino meteorologico prevedeva. E come
sempre immagino la storia locale, dall’invasione ottomana alla terribile guerra
recente. La Storia, quella con la maiuscola, spesso trova luoghi in cui
cristallizzarsi, in cui tracciare parole spesse come le corazze, dense come il
sangue e viscide come l’acqua piovana sulle pietre dello Stari Most. Luoghi
dove le armi parlano, ma ancor più dove la cappa di tristezza della violenza
lascia il suo marchio. Mostar è uno di questi luoghi, dove il sigillo
dell’abominio è indelebile. Ma dove la storia si apre a nuovi scenari, dove è
possibile gettare nuovi ponti e soluzioni impensabili. La ricostruzione del
ponte, avvenuta nel 2004, ne è il simbolo, non la metafora.
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