La città è ormai caduta. Che cosa si trova in una delle città più cristiane della Siria? Visita del 2005.
Lasciata la stupefacente Mar Mousa e il deserto di rocce tra Damasco e
Homs, una stretta e pittoresca valle conduce da Yabrud verso una
cittadina dal nome fascinoso: Maalula, ai piedi della catena ancora
innevata dell’Antilibano, incastonata in una striscia di verde che
evidenzia l’umidità della valle. Il mio accompagnatore mi dice con una
certa fierezza che la cittadina è famosa presso il popolo siriano non
tanto per le bellezze d’arte, per la natura scorticata o per la
tradizione d’un tempo lontano di cristianità originaria, quanto molto
più prosaicamente per la bellezza delle sue giovanette e delle sue
donne. Costato come sia vero. Spuntano ovunque, dagli angoli più
impensati, degne senza essere ingabbiate in scafandri di tessuto,
certamente più intraprendenti di quanto non lo siano normalmente le
donne siriane…
A Maalula c’è dell’altro, ovviamente, del bello e dell’antico. Come il
monastero di Santa Tecla, Deir Mar Takla. Pare di essere nel siq
di Petra, in un canyon angusto e misterioso che si dice sia stato aperto
miracolosamente dal passaggio di Santa Tecla, appunto, seguace di San
Paolo in fuga, e poi martirizzata sul posto. La Siria non cessa di
sorprendere per la sua incredibile capacità di generare miti, di tirar
fuori dal suo cilindro santi d’ogni tipo ed origine.
Più sotto, appresso al convento moderno dedicato alla santa, come una
fortezza ricca di modestia (mi si perdoni l’anacoluto) si para dinanzi
al pellegrino il monastero di San Sergio, Deir Mar Sarkis, che in alcune
sue parti risale addirittura al III-IV secolo. E il suo altare data ad
un’epoca pre-cristiana: è semicircolare e non è piatto – come
prescrissero i primi vescovi, per non confondere il rito cristiano con
quello pagano –, conservando quelle scanalature e quei bordi che
servivano a trattenere il sangue dei sacrifici animali dei culti
ancestrali della regione. Il pretino, che pare voler affermare d’essere
lui stesso una reliquia dei primi tempi del cristianesimo, mi offre un
bicchierino di passito – squisito, per onor di cronaca –, prodotto dalle
magre vigne del monastero e poi intona solo per me il Padre nostro in
aramaico: il dialetto del posto è quello stesso (sembra proprio che sia
così) che Gesù parlava in Palestina.
Il monastero annuncia poi una originalissima conformazione calcarea,
forata come un gruviera da infinite grotte che avevano ogni sorta d’uso,
forse salvo quello dell’eremitaggio. Da quegli anfratti escono capre,
pecore, mucche, galline, conigli e umani ch sembrano capre, conigli…
Ancora una ventina di chilometri di ebbrezza, seguendo una catena
montagnosa che pare lo slabbramento d’una ferita mai rimarginata, ed
ecco un altro grappolo di case, l’ennesimo, che s’inerpica su un colle
coronato da un altro grappolo, di cupole questa volta. Ecco Seidnayya,
una delle più antiche mete di pellegrinaggio di tutto il Medio Oriente:
qui è conservata, in un oscuro anfratto ricavato nella cripta della
chiesa principale, un’immagine mariana, un’icona ante litteram,
che si dice dipinta niente meno che dall’evangelista Luca in persona.
Ogni sorta di miracoli è attribuita all’icona, non solo dai cristiani
delle Chiese più diverse, ma anche dai musulmani. Nell’orribile
scalinata a zigzag costruita di recente con materiali dozzinali per
permettere un’ascensione più comoda al santuario, le donne velate sono
in effetti più numerose di quelle a capo scoperto. Si confondono con le
monache ortodosse che custodiscono il santuario con ferreo rigore, senza
transigere minimamente alle anarchie dei turisti. Anch’io mi becco una
violenta reprimenda per aver osato fotografare l’icona, commettendo così
un atto di peccaminoso consumismo…
Perdersi nei cortili, sulle terrazze, nei tetti, negli intricatissimi
passaggi del monastero è piacevole e contagioso, tanto più quando si ha
la coscienza di scoprire uno dei luoghi più antichi della fede
cristiana, dopo Gerusalemme, ovviamente costruito per sostituire, o più
precisamente per sovrapporsi, a un antico tempio pagano, romano o greco,
chissà. In ogni modo qui la fede non è un’opinione, è forte come la
roccia. Quella dei cristiani e quella dei musulmani. Maria fa da trait-d’union tra i fedeli delle due religioni, forse non a caso. Forse è una profezia.
Nessun commento:
Posta un commento