Viaggio in Kazakistan/6 - Nel deserto una stazione di posta in riva al fiume. Un incanto, un rifugio, una speranza
La mia meta odierna è il Tamgay Tas, una breve escrezione rocciosa sulle rive del fiume Ili, che sfocia poi nel grande lago artificiale di Kapshagay, la città dei casinò. Un fiume che pare un miracolo perché scorre nel deserto dello Zethisu kazako, blu intenso nel giallo paglierino della steppa che talvolta di fa deserto. Visitando le rocce del Tagsay Tas, ammirando i petroglifi incisi nella pietra, m’accorgo che a cinque o sei chilometri di distanza nella valle, dall’altra parte del fiume si erge – o, meglio, si distende – una sorta di forte nel deserto.
Un caravanserraglio. Qui in effetti passava una delle tante deviazioni della Via della seta: un fiume del genere poteva all’epoca (ma anche ora!) sembrare una benedizione. Ha dimensioni notevoli, a occhio ritengo che di lato misuri anche più d’un centinaio di metri, con le sue torri e i caratteristici camminatoio in cima alle mura perimetrali merlate. Il fascino d’un castello nel deserto!
Ma come arrivarci? Il mio autista, che parla solo ed esclusivamente il russo, mi avvicina per quanto possibile al caravanserraglio, ma sempre al di qua del fiume. Più m’avvicino, più m’appare misterioso e salvifico: dopo interminabili camminate o cavalcate, giungere in uno di questi luoghi doveva suscitare qualcosa di veramente simile al sentimento della salvezza, non solo perché protetto ma anche perché prossimo a un corso d’acqua. Quasi un miraggio. Come lo è per me che mi ritrovo nell’impossibilità materiale di raggiungere il forte per esplorarlo: impossibile attraversare il fiume, non c’è nessuna imbarcazione in vista. E in auto bisognerebbe percorrere un periplo di settanta chilometri almeno, cinquanta dei quali non asfaltati, cioè piste nel deserto.
Per cui m’è struggente e in fondo piacevole accoccolarmi su una roccia in riva all’Ili ombreggiata dai canneti, in attesa che i miei accompagnatori – l’autista Barash e la moglie Allina – cucinino dei succulenti shashlik, spiedini alla brace, il piatto nazionale di tutte le nazioni centroasiatiche.
La mia meta odierna è il Tamgay Tas, una breve escrezione rocciosa sulle rive del fiume Ili, che sfocia poi nel grande lago artificiale di Kapshagay, la città dei casinò. Un fiume che pare un miracolo perché scorre nel deserto dello Zethisu kazako, blu intenso nel giallo paglierino della steppa che talvolta di fa deserto. Visitando le rocce del Tagsay Tas, ammirando i petroglifi incisi nella pietra, m’accorgo che a cinque o sei chilometri di distanza nella valle, dall’altra parte del fiume si erge – o, meglio, si distende – una sorta di forte nel deserto.
Un caravanserraglio. Qui in effetti passava una delle tante deviazioni della Via della seta: un fiume del genere poteva all’epoca (ma anche ora!) sembrare una benedizione. Ha dimensioni notevoli, a occhio ritengo che di lato misuri anche più d’un centinaio di metri, con le sue torri e i caratteristici camminatoio in cima alle mura perimetrali merlate. Il fascino d’un castello nel deserto!
Ma come arrivarci? Il mio autista, che parla solo ed esclusivamente il russo, mi avvicina per quanto possibile al caravanserraglio, ma sempre al di qua del fiume. Più m’avvicino, più m’appare misterioso e salvifico: dopo interminabili camminate o cavalcate, giungere in uno di questi luoghi doveva suscitare qualcosa di veramente simile al sentimento della salvezza, non solo perché protetto ma anche perché prossimo a un corso d’acqua. Quasi un miraggio. Come lo è per me che mi ritrovo nell’impossibilità materiale di raggiungere il forte per esplorarlo: impossibile attraversare il fiume, non c’è nessuna imbarcazione in vista. E in auto bisognerebbe percorrere un periplo di settanta chilometri almeno, cinquanta dei quali non asfaltati, cioè piste nel deserto.
Per cui m’è struggente e in fondo piacevole accoccolarmi su una roccia in riva all’Ili ombreggiata dai canneti, in attesa che i miei accompagnatori – l’autista Barash e la moglie Allina – cucinino dei succulenti shashlik, spiedini alla brace, il piatto nazionale di tutte le nazioni centroasiatiche.
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