Si riparte, curvoni e pendenze da brivido, sorpassi che metterebbero paura ad un agente della criminale, diossido di carbonio come aerosol quotidiano, gli indicatori di direzione qui fanno sciopero continuo. Il paesaggio s’inaridisce o s’ingrassa da una valle all’altra dell’Altopiano, fino al passo di Chopol, strategica posizione duramente contesa da esercito e guerriglieri nella guerra civile degli anni Ottanta. Ora in cima al passo una trattoria dozzinale vende caldo de galina, una delizia mi dicono, brodino di gallina.
Giriamo verso Godinez, e dall’asfalto si passa all’opinione d’asfalto, cioè a una serie di buche intervallate da qualche improvviso residuo di bitume. Dieci chilometri che mettono a dura prova stomaci e freni: «Precaución!», intimano frequenti cartelli gialli. Grazie, ce n’eravamo già accorti. Di tanto in tanto una casa di pietra: cadono massi da dieci tonnellate fin sulla strada: «Precaución!». Poi, finalmente, appare, seppur lontano, il lago Atitlán, e le silhouette dei tre vulcani: San Pedro (3020 metri), Atitlán (3537 metri) e Tolimán (3158). Pare di stare in un film.
Ancora una dozzina di curve mozzafiato – ma qui almeno l’asfalto è potabile –, e poi eccoci scesi a livello del lago, arrivando finalmente ad un confuso abitato, reso ancor più caotico da una quantità impressionante di agenti che paiono complicare all’inverosimile ciò che già è complicato. Bene o male riusciamo ad arrivare al lungolago, che in realtà non esiste: c’è solo una fila di ristoranti aperti, lignei, ricoperti da foglie di palma secche, che si aprono in terrazze sospeso sull’acqua. Ne scelgo uno, a caso ovviamente, per riposare le stanche membra al tavolo che pare una piattaforma sospesa sull’acqua per accogliere il messaggio degli dèi dei vulcani, o per meglio dire delle forze recondite e misteriose che fuoriescono dal ventre della terra.
Mi servono un pescetto che pare un’orata di lago, un po’ bruciacchiata ma comunque piacevole al palato, mentre una buona birra locale completa l’idillio manducatorio. Ma il cibo è certamente un dettaglio nella comunione con la natura che si stabilisce da questa postazione privilegiata. Altri, come l’esploratore inglese John L. Stephens, XIX secolo, hanno descritto il luogo come straordinariamente attraente, uno dei siti più incantevoli della Terra. Senza arrivare a tali vette, posso comunque testimoniare che qui s’intreccia uno straordinario abbraccio con le forze della natura, forze possenti e belle, misteriosamente inconoscibili, tra Bene e Male, inquietamente protesi verso “cieli nuovi e terre nuove”.
Poco da dire d’altro su Panajachel, borgo disordinato e ormai turistico, ma in qualche modo preservato dalla deriva inquietante consumista dalla presenza di visitatori solo di passaggio, quasi mai decisi a trascorrere più di qualche ora in questo posto. Luogo che vive di quello che “non è” Panajachel, quasi di un turismo kenotico, di un’esistenza che s’oblia per lasciar vivere acqua (il lago Atitlán), terra (l’entroterra collinare), aria (l’atmosfera impareggiabile del luogo) e fuoco (i vulcani, naturalmente).
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