Si va verso da Flores Tikal, alla scoperta del più affascinante sito maya guatemalteco. Viaggiamo su un Toyota collettivo, costa poco ed è gradevole. Il paesaggio si muove attorno al lago Petén Itza’, tanto che la suggestione pare suggerire le forme di una qualche costruzione maya al di sotto di una qualsiasi collina. La vegetazione s’infittisce e s’ispessisce, assumendo la conformazione del mistero naturale. D’improvviso, all’altezza di El Ramate, stazione turistica di un certo peso, soprattutto per i guatemaltechi, meno per gli stranieri, ecco una vista del lago Petén Itza’, il terzo del Paese, pacifico e solare. La silhouette del rilievo montuoso pare un coccodrillo addormentato.
Gli abitati che s’attraversano paiono piuttosto anonimi e precari, se non francamente brutti, se non fosse che palmizi e buganvillea, gli accecanti colori, rendono i villaggi se non altri pittoreschi, magari con il corollario di una bianca chiesetta in colonial posticcio, coi gradini immacolati che vengono sporcati al primo passaggio d’una scarpa. Non si può dire che da queste parti vi siano coltivazioni sistematiche. Qua e là, questo sì, si scorge qualche estancia, le cui coltivazioni e i cui allevamenti restano tuttavia avvolti nel mistero, a parte qualche cavallo un po’ addormentato e qualche mucca francamente addormentata. E non mancano, anche qui, le chiese protestanti: Monte degli Ulivi, Chiesa di Emmaus, Congregazione dei santi e dei profeti: i nomi più fantasiosi.
Anche le strutture del Parco nazionale di Tikal, che comincia qui, paiono messe proprio male, ridotte spesso a cemento scarnificato e a qualche tettoia di legno e paglia. Non è facile vivere da queste parti, e ancor meno doveva esserlo ai tempi dei maya. Ma la natura è così prorompente che una certa euforia sembra prendere il cuore, oltre che la mente e l’anima.
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