giovedì 10 maggio 2012

Belluno, che non si prende sul serio


È una di quelle città dove ci si va solo se c’è qualcosa di specifico da fare. Altrimenti al massimo ci si passa in treno. Ma poi ci si vorrebbe restare.

Alle porte delle Dolomiti, Belluno in effetti pare solo un’ancella, un burocratico orpello, un cartello indicatore. Complice una conferenza, mi ritrovo a trascorrere una giornata nella città, 30 mila abitanti, una storia nobile ma non troppo: la cultura paleoveneta, nel V secolo a.C.,  presenta una sua peculiarità locale, anche per la lingua. I reperti attestano un influsso celtico. Erano celtiche le genti ferae che i romani cacciarono verso Nord, iniziando la loro penetrazione nel mondo alpino. La conquista romana, partita da Aquileia nel 181 a.C., fu graduale e pacifica. I primi contatti furono prettamente commerciali: i romani avevano bisogno del ferro e del rame bellunese. Al tempo di Augusto, Belluno divenne municipium, dopo Feltre. In età romana, le zattere di abete, caricate con ogni ben di Dio e della natura, legno soprattutto, scendevano al Po e a Ravenna. Il castro romano corrisponde alla parte più antica della città, issata su una sorta di terrazzo fluviale che scivola verso sud, tra l'alveo dell'Ardo e quello del Piave, col foro in Piazza delle Erbe. La coincidenza della città romana con quella attuale non permette una esatta conoscenza della primitiva struttura urbana; sappiamo tuttavia che la mappa del castrum rimase intatta fin al X secolo.

Il tempo non è dei migliori, cosicché apprezzo non poco i bassi portici – che differenza d’umiltà rispetto a quelli aristocratici di Bologna e a quelli accademici di Padova! –, dai quali ammiro il centro cittadino, issato magistralmente su una cresta rocciosa che domina il Piave. Lo stile del centro non è uniforme (qualche intromissione di cemento la si nota), i palazzi non sono mai imponenti (salvo forse quelli che danno su piazza duomo), le geometrie urbane tradiscono epoche diverse (non trovo una sola via rettilinea). Ma la città pulsa, è viva, sprizza gioia civile, nonostante il ritmo assunto dal deambulare e dall’indaffararsi della gente non sia certo frenetico.

Di Belluno ricorderò le piazze. Quella grande dei maritri, un gran trapezio di verzura circondato da palazzetti in stile gotico veneziano, con un tocco di rinascimento, un che di medievale, uno zeste di barocco, coi tavolini dei bar che invitano all’ozio laborioso di chi elabora pensieri e s’industria per il bene comune, mentre il Teatro comunale, d’uno stuccato più che stucchevole stile neoclassico, chiude la prospettiva ad Oriente. Giusto in tempo per aprirsi su una piazzetta incantevole, coi platani che s’abbassano in un inchino che sfiora la terra, per avvicinare con circospezione alla chiesa goticheggiante di Santo Stefano, ingentilita dal cono di laterizi medievali del campanile.

È per viuzze laboriose ma tranquille che giungo poi ad un altro fazzoletto di selciato a cui s’è dato il nome di piazza, quella delle Erbe, dominata da un palazzo gentile a antico, uno dei pezzi di cui più orgogliosa va la cittadinanza tutta: il Monte di Pietà. Di erbe ce ne sono poche, come di frutti, ma il nome che ricorda altre città venete ben più famose suggerisce un passato contadino che popolava le vie e le piazze: ricordo d’aver visto una foto d’inizio XX secolo della Piazza dei martiri invasa da mucche e vaccari.

E lì dietro Piazza Duomo con i suoi tre gioielli: Palazzo di giustizia, Vescovado vecchio e Palazzo dei rettori. E il grande duomo, un bizzarro concentrato di stili, sormontato da un esagerato campanile che non ha nulla di veneto, né di montanaro, essendo in puro stile sabaudo. Dal vescovado, accanto al Duomo, parquet secolare e mura affrescate, familiarmente, le finestre s’affacciano sul dirupo a picco sul Piave. E allora mi dico che Belluno è un gioiellino perché non prendendosi troppo sul serio ha saputo valorizzare quel poco che la natura le aveva concesso. E il molto che l'uomo vi ha aggiunto.

Nessun commento: