È una di quelle città dove ci si va solo se c’è qualcosa di
specifico da fare. Altrimenti al massimo ci si passa in treno. Ma poi ci si vorrebbe restare.
Alle porte delle
Dolomiti, Belluno in effetti pare solo un’ancella, un burocratico orpello, un
cartello indicatore. Complice una conferenza, mi ritrovo a trascorrere una giornata
nella città, 30 mila abitanti, una storia nobile ma non troppo: la cultura paleoveneta, nel V
secolo a.C., presenta una sua peculiarità locale, anche per la lingua. I reperti attestano un influsso celtico. Erano celtiche le genti
ferae che i romani cacciarono verso
Nord, iniziando la loro penetrazione nel mondo alpino. La conquista romana,
partita da Aquileia nel 181 a.C., fu graduale e pacifica. I primi contatti
furono prettamente commerciali: i romani avevano bisogno del ferro e del rame
bellunese. Al tempo di Augusto, Belluno divenne municipium, dopo Feltre. In età
romana, le zattere di abete, caricate con ogni ben di Dio e della natura, legno soprattutto, scendevano al Po e a Ravenna. Il castro romano corrisponde alla parte più antica della città,
issata su una sorta di terrazzo fluviale che scivola verso sud, tra l'alveo dell'Ardo e quello
del Piave, col foro in Piazza delle Erbe. La coincidenza della città romana con
quella attuale non permette una esatta conoscenza della primitiva struttura urbana; sappiamo
tuttavia che la mappa del castrum
rimase intatta fin al X secolo.
Il tempo non è dei migliori, cosicché apprezzo non poco i
bassi portici – che differenza d’umiltà rispetto a quelli aristocratici di
Bologna e a quelli accademici di Padova! –, dai quali ammiro il centro
cittadino, issato magistralmente su una cresta rocciosa che domina il Piave. Lo
stile del centro non è uniforme (qualche intromissione di cemento la si nota),
i palazzi non sono mai imponenti (salvo forse quelli che danno su piazza
duomo), le geometrie urbane tradiscono epoche diverse (non trovo una sola via
rettilinea). Ma la città pulsa, è viva, sprizza gioia civile, nonostante il
ritmo assunto dal deambulare e dall’indaffararsi della gente non sia certo
frenetico.
Di Belluno ricorderò le piazze. Quella grande dei maritri,
un gran trapezio di verzura circondato da palazzetti in stile gotico veneziano,
con un tocco di rinascimento, un che di medievale, uno zeste di barocco, coi
tavolini dei bar che invitano all’ozio laborioso di chi elabora pensieri e
s’industria per il bene comune, mentre il Teatro comunale, d’uno stuccato più
che stucchevole stile neoclassico, chiude la prospettiva ad Oriente. Giusto in
tempo per aprirsi su una piazzetta incantevole, coi platani che s’abbassano in
un inchino che sfiora la terra, per avvicinare con circospezione alla chiesa
goticheggiante di Santo Stefano, ingentilita dal cono di laterizi medievali del
campanile.
È per viuzze laboriose ma tranquille che giungo poi ad un
altro fazzoletto di selciato a cui s’è dato il nome di piazza, quella delle
Erbe, dominata da un palazzo gentile a antico, uno dei pezzi di cui più
orgogliosa va la cittadinanza tutta: il Monte di Pietà. Di erbe ce ne sono
poche, come di frutti, ma il nome che ricorda altre città venete ben più famose
suggerisce un passato contadino che popolava le vie e le piazze: ricordo d’aver
visto una foto d’inizio XX secolo della Piazza dei martiri invasa da mucche e
vaccari.
E lì dietro Piazza Duomo con i suoi tre gioielli:
Palazzo di giustizia, Vescovado vecchio e Palazzo dei rettori. E il grande
duomo, un bizzarro concentrato di stili, sormontato da un esagerato campanile
che non ha nulla di veneto, né di montanaro, essendo in puro stile sabaudo. Dal vescovado, accanto al Duomo, parquet secolare e mura
affrescate, familiarmente, le finestre s’affacciano sul
dirupo a picco sul Piave. E allora mi dico che Belluno è un gioiellino perché
non prendendosi troppo sul serio ha saputo valorizzare quel poco che la natura
le aveva concesso. E il molto che l'uomo vi ha aggiunto.
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