Ho scritto di cento e cento città, anni di cammino e di visioni, di muri e gradini. Anni, decenni, alla scoperta dello sconosciuto e del poco o male conosciuto. Mai ho scritto una riga della mia città, quella che mi diede i natali, come si dice, quella che troppo presto abbandonai per poter evitare la blasfemia della mitologia. Parma è rimasta nel mio immaginario una soffusa e circonfusa atmosfera di mistero. Era la città che cacciò la mia famiglia, perché centro bigotto e borghese, perché incapace di capire che il mondo girava: né a destra né a sinistra, ma nella profondità della bellezza.
Parma era l’utero che m’aveva custodito per tre anni, ma
che serbavo nella memoria non come un’immagine– tantomeno come una galleria
d’immagini –, ma come un’indefettibile assenza, una mancanza di senso, una
nostalgia senza lacrime. Parma era un’incrociarsi di viuzze e borghi e slarghi
vaghi, avvolti nella nebbia, ammirati attraverso un obiettivo appannato, una
finestra battuta dalla pioggia. Era una torre (l’atelier di mio padre); una
chiesa (la Steccata
di mia nonna); un parco (quello Ducale, di mio nonno); un Antelami oscuro (il
Battistero di mio zio); un palazzo (la Pilotta, che nome evocativo, di mia zia); la
città matrigna (di mia madre). Non era la mia città, non poteva esserlo e non
lo sarebbe mai diventata.
Cinquant’anni più tardi trovo due ore, non di più, per flaner, per girovagare per farini felino
garibaldi pace duomo ducale. Due ore per cercare una qualche riconciliazione.
No. Qualche filo squarcio soffio. Colgo solo un’atmosfera immobile, cuori
liquidi, barlumi di grandeur, ferite
nelle pareti. Che riconosco: l’utero che
mi ha custodito, il liquido amniotico che m’ha nutrito, la dimora che m’ha reso
atto alla vita in società.
Inseguo per qualche tempo le immagini più parmigiane che si
possano trovare in giro: le opere di Antonio Allegri e Francesco Mazzola, il
Correggio e il Parmigianino. Una fugace visita alla Diana – Giovanna da
Piacenza nel monastero benedettino di San Paolo –, una volta graziosa e
birichina, un gioco di muta sensualità, prima di avventurarmi sotto la mole
imponente della Pilotta, un po’ trascurata, un po’ altera come un colosso ormai
anziano che gonfia il petto e s’atteggia a uno sguardo truce. Salgo le
scalinate scure e imponenti del palazzo, spazi che incutono un certo timore ma
non abbastanza per impaurire. I passi risuonano amplificati in misura
sproporzionata ai locali che attraverso, quasi moltiplicati, esagerati da una
qualche immensa cassa toracica. Eccolo, il teatro Farnese, ligneo capolavoro
d’ebanistica e di acustica, d’architettura e d’ingegneria. Salgo gli stretti
spazi riservati al pubblico, gradini dove accomodarsi è scomodo, ma la visione
è perfetta sulla scena di legno e mattone.
Una larga e ampia introduzione alle meraviglie del
Correggio, alle sue mezzelune della Annunciazione
e dell’Incoronazione della Vergine,
e poi ai dipinti della Madonna della
scodella e della Madonna col bambino
e i Santi Girolamo e Maddalena, nei quali ritrovo arie familiari,
ricordi d’infanzia ancora presentissimi: due incisioni a casa nostra li
riproducevano, con quella Madonnina piccola e dolce, vicina, sorella e amica, e
non solo madre. E poi lo straordinario spazio spirituale ed estetico aperto dalla
Schiava turca del Parmigianino,
diversissima ma così simile: occhi che mi amano e mi elevano nello spazio
dell’amore carnale che diventa spirituale.
L’emozione latita, i sentimenti tacciono. Parma non è mia,
ma io sono in qualche modo di questa città, le appartengo per diritto divino,
per predestinazione. Me lo conferma una strana sensazione – l’unica – che mi
spalma l’anima di balsamo: una nascente nostalgia per quello che questa città
avrebbe potuto darmi ma non mi ha mai dato. Una nostalgia per un futuribile. Un
aborto culturale, un’incertezza anagrafica. Una vecchia signora avvolta in uno
strascico di violetta che muore in un alito di lambrusco, in un conato di
ricchezza. Cioè Parma quest’oggi. Nascente nostalgia subito morente.
Salgo i gradini – sproporzionati? – che chiudono come un
muro le navate del Duomo. Rossi. Rosa. Gialli. Alle spalle le volte affrescate
di romanico e di barocco, e le cappelle di stucchevole ricchezza cromatica.
Dinanzi altre volte, altre cupole più lontane, meno accessibili. L’ultimo
scalino, una luce breve. La crocifissione dell’Antelami. Pietra nuda amata. Capisco
la nascita e la morte. Capisco la nostalgia. Parma s’accende di note.
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