La città di Avila conta ormai un nuovo dottore della Chiesa, San Giovanni d'Avila. Visita del 2001.
Silencio. Solo Dios basta. La cruz si es amada es suave de elevar… Sono solo alcune delle scritte, dipinte in nero da una mano ferma sui muri bianchi di calce, che mi accompagnano nell’indimenticabile visita al Monasterio de la Encarnación ad Avila, il convento dove Teresa de Ahumada, che prese più tardi il nome di Teresa di Gesù, visse dall’età di vent’anni fino oltre i cinquanta, e dove a 39 anni ebbe la «conversione definitiva», che la portò alla riforma del Carmelo e alla straordinaria avventura dello spirito che si suole sintetizzare nell’immagine del “castello interiore” che l’uomo deve costruire in sé per accedere alla comunione con Dio.
Per un permesso straordinario concessomi, posso visitare il
monastero negli angoli storicamente più significativi, accompagnati dalla madre
priora e da altre suore, che mi fanno rivivere a passo a passo l’avventura di
Santa Teresa. Ecco lo studio di Teresa, povero, essenziale, ancora arredato coi
mobili dell’epoca, pochi libri. Soprattutto, su un muro spoglio appare ancora
un piccolo affresco della crocifissione, dinanzi al quale la madre aveva deciso
di mettere definitivamente la sua fiducia in lui, il Cristo piagato.
Poi il chiostro inferiore, semplice e arioso, attorno al
quale la santa passeggiava, avendo alla sua destra, come diceva, il Cristo,
testimone di quanto avveniva. Al centro del chiostro viene ancora conservato
con ogni cura un nocciolo che si dice piantato dalla stessa Teresa. Quindi il
parlatorio, dove avvenivano le sue conversazioni con l’altro gigante del
Carmelo, San Giovanni della Croce. Erano colloqui elevatissimi, all’origine di
tante composizioni dei due. Qui, nella festa della Santissima Trinità, mentre
si avventuravano in terreni mistici, una sorella, suor Beatrice, vide entrambi
sollevarsi da terra, mentre continuanvano a parlare tra loro, senza accorgersi
di quel che accadeva loro.
Ancora, eccomi dinanzi alla scalinata del convento che sale
ai piani superiori, chiamata ora “scala dell’apparizione”, dove appunto si dice
che Gesù Bambino sia apparso a Teresa, sotto le sembianze di un bel bambino.
«Come ti chiami», le chiese. «Teresa di Gesù», rispose lei. E a sua volta le
chiese chi fosse: «Io? Gesù di Teresa», rispose il bambino.
Poi il coro superiore, poverissimo nelle decorazioni delle
pareti laterali e nel legno degli scranni, ma rilucente d’oro nel grande
polittico della parete di fondo, dominato da una grande statua di Maria (che un
giorno, si dice, parlò a Teresa), e più in basso, sulla destra, da un
crocifisso sanguinante. Quindi altre scale per giungere al coro inferiore, da
cui Teresa e le sue consorelle seguivano le celebrazioni che avvenivano nella
sottostante chiesa, protette da grate robustissime. Nella parete opposta, una
grande teca di vetro protegge una statua della Madonna dall’ampio manto: è
“Maria-priora del monastero”, che copre col suo ampio mantello tutte le suore
del convento. In questa sala Teresa fu fatta priora, nonostante le reticenze di
parte della comunità. E qui, ricevendo l’eucaristia da San Giovanni della
Croce, strinse il 18 novembre 1572 il cosiddetto “matrimonio spirituale”. Fu
«una visione nell’intimo», dirà, in cui lo Sposo le diede la mano destra e
disse: «Guarda questo chiodo, sarai d’ora in poi la mia sposa». Teresa chiese a
Gesù che facesse crescere la sua piccolezza, altrimenti non sarebbe stata
capace di sopportare una tale grazia. In questa “settima mansione” del
“castello interiore”, Teresa trascorrerà stabilmente gli ultimi anni della sua
vita. Poi morì d’amore.
Mi trasferisco quindi in una angusta cella dove avvenne
quanto rappresentò il Bernini nella celebre statua conservata a Roma, e cioè l’estasi
di Teresa. Sopra l’ingresso della piccola cella, ecco un quadro del Cristo
crocifisso che la madre aveva sempre voluto tenere nella sua cella.
Passeggiando di nuovo nel chiostro superiore, la madre
priora mi spiega che, quando Teresa entrò in convento, erano presenti 160
suore, ognuna col suo appartamento e il suo seguito, chi ricca e chi povera, a
seconda delle famiglie di provenienza: fu lei che, nella nuova regola, volle
che fosse scritto che in ogni convento non ci fossero più di 21 suore, «come un
piccolo collegio di Cristo». Mi racconta pure che il convento è costruito su un
cimitero ebraico e che Teresa stessa era di origini ebraiche. Il nonno era
stato addirittura processato a Toledo nel 1490, perché “convertitosi” al
cattolicesimo era poi tornato alle pratiche religiose ebraiche. Nella famiglia
dovevano perciò portare il marchio infamante che veniva applicato sulla spalla
degli ebrei che non avevano confermato il loro passaggio al cristianesimo.
“¡Oh Dios mio quien
no os conoce no os ama!”. Così è scritto invece nella “cella del dardo”,
dove Teresa visse cinque anni, e dove ebbe il dono appunto “del dardo”. Un
mosaico riporta la narrazione autobiografica della grazia, avvenuta nel 1572.
Una consorella accorse per soccorrerla, ma Teresa esclamò: «Uscite, figlia mia,
e che vi succeda altrettanto».
Salgo poi, attraverso una scaletta angusta e ripida, al
“piccolo carcere”, dove la madre trascorse da reclusa sei mesi dopo la prima,
travagliata fondazione del Monastero di San Giuseppe: richiamata dal suo
prelato, fu costretta a ritirarsi in tale piccola stanza. Ma lei non se ne
lamentò mai, perché diceva di avere una compagnia più che gradevole, quella di
Gesù e Maria.
Scendo poi di nuovo la scalinata centrale del chiostro,
dove la madre ebbe a lamentarsi col Signore, stanca com’era per il viaggio da
Santander che aveva appena concluso. Una voce le rispose: «Ma non avrai mai la
stanchezza che ho provato io».
Dicono che Avila sia terra di santi (mai dimenticare San Giovanni d'Avila) e di pietre. Torno
verso Madrid, mentre fuori dal finestrino sfila la meseta ondulata, punteggiata di ciuffi di verzura aspra e di pietre
levigate dal vento impetuoso. Preso come sono dall’intensità della visita al
Monasterio de la Encarnación,
mi crederei ancora all’epoca di Teresa, se all’orizzonte i mulini a vento d’oggi,
le gigantesche pale di una centrale eolica, non mi richiamassero all’attualità.
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