Un altro luogo indonesiano che riporta alla notte dei tempi. E' il maggior tempio buddhista del Paese. Cinque chilometri di altorilievi
La sapienza
degli architetti, sapienza creativa per eccellenza, assume i tempi della storia
– e talvolta della Storia – allorché riesce a coniugarsi con lo spirito di quel
dato secolo, o ancor meglio di quella data epoca. Non ci è concesso di
conoscere i nomi degli architetti del tempio di Borobudur, solo qualcosa della
loro scuola: vennero da tutta Giava, tra il 750 e l’850 d.C., chiamati dalla
dinastia Sailendra per edificare il trionfo massimo del buddhismo javanese. Ma
venne abbandonato subito dopo la sua conclusione, per il tramonto della
dinastia e l’arrivo delle dinastie indù; così giacque, protetto dalla terra e
dalle ceneri delle eruzioni sino all’inizio del XIX secolo. Ma è comunque certo
che la loro arte ha trasformato in pietra il comune sentire di un intero popolo.
Di tutto ciò rifletto
scendendo lentamente dal tempio di Borobudur, percorrendo a ritroso i cinque
chilometri (!?!) di camminamenti che, in senso rigorosamente orario, il devoto
(e ora si spera anche il visitatore) è tenuto a percorrere per giungere alla
sommità del tempio: due milioni di blocchi di pietra formano un complesso
simmetrico, per una base che ha lati di 118 metri che sorreggono sei terrazze
quadrate e altre tre, quelle sommitali, circolari, con quattro passaggi stretti
ma finemente scolpiti. Rifletto pensando che tale ascensione è un viatico
straordinario alla contemplazione, del Nirvana nel caso del buddhismo.
Le
disavventure del sito di Borobudur sono note, tra terremoti ed eruzioni
vulcaniche. Ancor oggi non poche parti del complesso templare buddhista sono in
fase di restauro. Troppi dettagli, troppe bellezze, troppe innovazioni
stilistiche costringono ad un restauro rigoroso, conservativo e non ricostruttivo.
Fortunatamente. Per questo non pochi altorilievi mancano di alcuni tasselli, ma
è meglio così, c’è già tanto da vedere e fotografare, da ammirare e fissare
nella memoria. Pannelli nei quali si ripercorrono e rincorrono non solo i
classici elementi della spiritualità e della mitica storia buddhista, e quelli
del pantheon buddhista-javanese, ma anche tutti quegli elementi che la memoria
ha accumulato nell’avvicinamento da Yogyakarta a Borobudur: risaie e palmizi e
banani; le prospettive “allargate” provocate dagli specchi d’acqua delle
risaie; le forme abitative d’epoca, ma ancora esistenti, di legno e bambù; le
infinite bottegucce d’artigianato lungo la strada. Non ci sono le motorette,
negli altorilievo di Borobudur, ma almeno l’occupazione di tutti gli spazi
disponibili c’è. Non ci sono fortunatamente le chiassose insegne dei negozi e
delle aziende, ma il desiderio di pubblicizzare c’è. Un concentrato di
antropologia e di sociologia javanesi e, in fondo, anche indonesiane.
Mi perdo, non
seguo più le descrizioni mitologiche della mia guida cartacea, peraltro
dettagliatissima. Mi ritrovo, infatti, nel mito stesso, avvolto da esso,
circuito, ipnotizzato quasi. La ripetizione, per 1460 volte, dei pannelli con
le scene mitologiche, la costante presenza di lingam, l’infinito ripetersi della figura del Buddha, m’appaiono
una sorta d’iniziazione alla quale è difficile resistere. Si può reagire in due
modi a una tale pressione psicologico-religiosa: sforzarsi, da antropologo, di
trovare costanti e scostamenti dalla norma delle culture del luogo e
dell’epoca; oppure giocare il gioco ed immergersi nell’esperienza filosofico-religiosa
del buddhismo dell’epoca. Nel primo caso ci si preserva da ogni contaminazione,
ma si passa accanto alla profondità spirituale del luogo; nel secondo s’accetta
la sfida della religiosità non propria, ma si rischia di non capire razionalmente
il fenomeno e di essere quindi colpiti da buonismo, irenismo e sincretismo.
Scelgo il secondo percorso, più rischioso ma certamente più affascinante e
sorprendente. Cerco cioè di immergermi nel mondo dell’epoca, senza
razionalizzare immediatamente, per quanto possibile, cioè, senza dover sempre e
comunque ricorrere alle categorie e all’immaginario della mia italianità e
della mia cristianità occidentale. Senza tradire nulla, penso, ma cercando di
immergermi con amore nella conoscenza di una diversa avventura religiosa e di
pensiero. È l’amore che, in effetti, essendo l’essenza del cristianesimo, mi
permette di non tradire la mia fede. Se vogliamo, un’esperienza che ripercorre
alcune delle tappe delle scoperte di Teilhard de Chardin, ma vissute alla luce
dell’esperienza mistica della Lubich. Il tutto in piccolo, in piccolissimo
anzi.
Cosa succede?
L’avanzamento è accompagnato dalla presenza di tanti javanesi, ben più numerosi
dei turisti stranieri. Godo delle loro scoperte, delle loro risa, dei loro turbamenti,
talvolta condividendo con loro tali sentimenti che talvolta mi paiono un po’
infantili ma che forse sono più vicini al sentire del “bambino evangelico” che
al ragionare dell’“adulto occidentale”. Percorro itinerari supposti tantrici
(dall’alto il tempio appare un unico, lungo itinerario tantrico), scopro
ovunque statue del Buddha, poso lo sguardo sugli incredibili simboli fallici di
cui è disseminato l’intero tempio, apro lo sguardo sulla straordinaria natura
che fa da corona al sito, respiro respiro respiro. E con mia sorpresa colgo in
me un amore crescente per questa gente javanese. Più m’immergo nel manufatto
artistico, più spalanco lo sguardo sull’ambiente che lo avvolge e più avverto
che i miei sentimenti per la gente che visita con me questo sito di Borobudur
protetto dall’Unesco cresce. Finché non resta che l’amore. Non resta che Dio,
che si esprime amorevolmente nel Verbo. Un amore che permane, nonostante sia
messo alla prova dalle centinaia di insistenti venditori di souvenir e articoli
d’artigianato che si susseguono all’uscita del tempio e fino alla mia auto.
Questi uomini e queste donne sono da amare. Anzi, sono amore. Per me. E io per
loro. Anche se non compro nulla.
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