lunedì 17 settembre 2012

Borobudur, percorsi tantrici



Un altro luogo indonesiano che riporta alla notte dei tempi. E' il maggior tempio buddhista del Paese. Cinque chilometri di altorilievi

La sapienza degli architetti, sapienza creativa per eccellenza, assume i tempi della storia – e talvolta della Storia – allorché riesce a coniugarsi con lo spirito di quel dato secolo, o ancor meglio di quella data epoca. Non ci è concesso di conoscere i nomi degli architetti del tempio di Borobudur, solo qualcosa della loro scuola: vennero da tutta Giava, tra il 750 e l’850 d.C., chiamati dalla dinastia Sailendra per edificare il trionfo massimo del buddhismo javanese. Ma venne abbandonato subito dopo la sua conclusione, per il tramonto della dinastia e l’arrivo delle dinastie indù; così giacque, protetto dalla terra e dalle ceneri delle eruzioni sino all’inizio del XIX secolo. Ma è comunque certo che la loro arte ha trasformato in pietra il comune sentire di un intero popolo.
Di tutto ciò rifletto scendendo lentamente dal tempio di Borobudur, percorrendo a ritroso i cinque chilometri (!?!) di camminamenti che, in senso rigorosamente orario, il devoto (e ora si spera anche il visitatore) è tenuto a percorrere per giungere alla sommità del tempio: due milioni di blocchi di pietra formano un complesso simmetrico, per una base che ha lati di 118 metri che sorreggono sei terrazze quadrate e altre tre, quelle sommitali, circolari, con quattro passaggi stretti ma finemente scolpiti. Rifletto pensando che tale ascensione è un viatico straordinario alla contemplazione, del Nirvana nel caso del buddhismo.
Le disavventure del sito di Borobudur sono note, tra terremoti ed eruzioni vulcaniche. Ancor oggi non poche parti del complesso templare buddhista sono in fase di restauro. Troppi dettagli, troppe bellezze, troppe innovazioni stilistiche costringono ad un restauro rigoroso, conservativo e non ricostruttivo. Fortunatamente. Per questo non pochi altorilievi mancano di alcuni tasselli, ma è meglio così, c’è già tanto da vedere e fotografare, da ammirare e fissare nella memoria. Pannelli nei quali si ripercorrono e rincorrono non solo i classici elementi della spiritualità e della mitica storia buddhista, e quelli del pantheon buddhista-javanese, ma anche tutti quegli elementi che la memoria ha accumulato nell’avvicinamento da Yogyakarta a Borobudur: risaie e palmizi e banani; le prospettive “allargate” provocate dagli specchi d’acqua delle risaie; le forme abitative d’epoca, ma ancora esistenti, di legno e bambù; le infinite bottegucce d’artigianato lungo la strada. Non ci sono le motorette, negli altorilievo di Borobudur, ma almeno l’occupazione di tutti gli spazi disponibili c’è. Non ci sono fortunatamente le chiassose insegne dei negozi e delle aziende, ma il desiderio di pubblicizzare c’è. Un concentrato di antropologia e di sociologia javanesi e, in fondo, anche indonesiane.
Mi perdo, non seguo più le descrizioni mitologiche della mia guida cartacea, peraltro dettagliatissima. Mi ritrovo, infatti, nel mito stesso, avvolto da esso, circuito, ipnotizzato quasi. La ripetizione, per 1460 volte, dei pannelli con le scene mitologiche, la costante presenza di lingam, l’infinito ripetersi della figura del Buddha, m’appaiono una sorta d’iniziazione alla quale è difficile resistere. Si può reagire in due modi a una tale pressione psicologico-religiosa: sforzarsi, da antropologo, di trovare costanti e scostamenti dalla norma delle culture del luogo e dell’epoca; oppure giocare il gioco ed immergersi nell’esperienza filosofico-religiosa del buddhismo dell’epoca. Nel primo caso ci si preserva da ogni contaminazione, ma si passa accanto alla profondità spirituale del luogo; nel secondo s’accetta la sfida della religiosità non propria, ma si rischia di non capire razionalmente il fenomeno e di essere quindi colpiti da buonismo, irenismo e sincretismo. Scelgo il secondo percorso, più rischioso ma certamente più affascinante e sorprendente. Cerco cioè di immergermi nel mondo dell’epoca, senza razionalizzare immediatamente, per quanto possibile, cioè, senza dover sempre e comunque ricorrere alle categorie e all’immaginario della mia italianità e della mia cristianità occidentale. Senza tradire nulla, penso, ma cercando di immergermi con amore nella conoscenza di una diversa avventura religiosa e di pensiero. È l’amore che, in effetti, essendo l’essenza del cristianesimo, mi permette di non tradire la mia fede. Se vogliamo, un’esperienza che ripercorre alcune delle tappe delle scoperte di Teilhard de Chardin, ma vissute alla luce dell’esperienza mistica della Lubich. Il tutto in piccolo, in piccolissimo anzi.
Cosa succede? L’avanzamento è accompagnato dalla presenza di tanti javanesi, ben più numerosi dei turisti stranieri. Godo delle loro scoperte, delle loro risa, dei loro turbamenti, talvolta condividendo con loro tali sentimenti che talvolta mi paiono un po’ infantili ma che forse sono più vicini al sentire del “bambino evangelico” che al ragionare dell’“adulto occidentale”. Percorro itinerari supposti tantrici (dall’alto il tempio appare un unico, lungo itinerario tantrico), scopro ovunque statue del Buddha, poso lo sguardo sugli incredibili simboli fallici di cui è disseminato l’intero tempio, apro lo sguardo sulla straordinaria natura che fa da corona al sito, respiro respiro respiro. E con mia sorpresa colgo in me un amore crescente per questa gente javanese. Più m’immergo nel manufatto artistico, più spalanco lo sguardo sull’ambiente che lo avvolge e più avverto che i miei sentimenti per la gente che visita con me questo sito di Borobudur protetto dall’Unesco cresce. Finché non resta che l’amore. Non resta che Dio, che si esprime amorevolmente nel Verbo. Un amore che permane, nonostante sia messo alla prova dalle centinaia di insistenti venditori di souvenir e articoli d’artigianato che si susseguono all’uscita del tempio e fino alla mia auto. Questi uomini e queste donne sono da amare. Anzi, sono amore. Per me. E io per loro. Anche se non compro nulla.

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