Nei dintorni di Yogyakarta, a Giava, il maggior tempio indù dell'isola. La fede, anche se non si vedono riti di sorta.
Solitudine
mattutina. Alle sei, all’apertura del recinto del complesso templare di Prambanan,
18 chilometri
ad Est di Yogyakarta, nel cuore della tradizione giavanese, sono solo soletto.
Avendo alle spalle il sole che spande i suoi primi raggi in un’atmosfera
torbida, eppure ancora fresca, m’avvio verso i templi patrimonio dell’umanità
Unesco ascoltando l’incedere dei passi sulla sabbia. I giardinieri stanno
curando le loro aiuole fiorite, i banani, le palme, le tante altre essenze che
abbelliscono il luogo. M’accorgo che i raggi radenti conferiscono spessore ad
ogni cosa, le animano con il bacio della loro rosata essenza. La stessa luce
che ora si posa, cominciando dallo stupa
sommitale delle diverse torri che d’improvviso mi si parano dinanzi, come una
visione, come una possibilità, come una certezza. Un’ora di meditazione. Noto
subito che non c’è il culto vivace degli indù, i loro colori, gli odori, il
disordine, la frenesia e l’improvvisa calma. Nulla, il silenzio e le pietre. Ma
immediatamente colgo pure l’essenza purificata senza inquinamenti, la nudità
della pietra come metafora della fede. È l’alba d’un altro giorno sul tempio di
Shiva, e sui suoi fedeli compagni di culto.
Prambanan non
è uno scherzo, è arte e storia, come leggo sui cartelli esplicativi dell’Unesco:
17 chilometri a Nord-Est di Yogyakarta, la capitale culturale indonesiana, è il
complesso religioso indù più vasto di tutta Giava, costruito tra l’VIII e il X
secolo. Allora a Sud dell’isola governavano i buddhisti Saliendra, mentre al
Nord comandavano gli indù Mataram. Sembra che questi tempi portino le tracce di
una fusione tra le due dinastie, con elementi sincretisti delle due religioni. Nel
XVI secolo uno dei tanti terremoti danneggiò grandemente il sito, che probabilmente
contava un numero molto maggiore di templi: altri danni ci furono col terremoto
del 2006, ancora visibili in diversi templi.
D’improvviso,
senza alcun preavviso, gli umani rioccupano lo spazio votivo del tempio di
Prambanan. Scorgo due piccole figure velate, musulmane quindi, che salgono e
scendono dalle scalette incerte dei templi, che accarezzano le basi delle
singole piramidi compiendo l’intero percorso perimetrale, che s’arrestano
d’improvviso come folgorate da una visione, da una qualche intuizione, forse
mistica. M’avvicino, cerco di carpire i segreti della loro strana celebrazione.
E più cerco d’intercettare le due figure – la prima col velo rosa e la veste
rossa, la seconda col velo verde e la veste gialla –, più mi rendo conto che quelle
due figure stanno pregando. Non nell’anonima moschea di plastica e cemento
costruita all’ingresso del parco. Ma in questo tempio che, in qualche modo, ha
stipulato la tregua, l’agreement tra
buddhisti e induisti, che affonda le sue fondamenta nel misticismo giavanese
così bistrattato e addirittura vietato. La tradizione religiosa d’un popolo non
può essere eliminata per decreto. I riti delle due giovanissime donne mi resteranno
misteriosi, ma non altrettanto lo sarà la certezza della loro fede tradizionale.
Fiamme di luce umana sulle fiamme della luce della pietra. A nulla vale la più
alta costruzione se la persona umana non la rende vitale, non la trasforma in
storia e arte e cultura. Così la servitù diventa libertà dell’anima.
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