Centro culturale dell'isola di Bali, ormai è un tempio del turismo. Ma c'è sempre qualcosa da imparare...
Che dire? Ci
sono delle volte che l’aspettativa di un dato posto è tale che la delusione è
dietro l’angolo. Intendiamoci, la delusione per un viaggiatore che trascorre
appena qualche ora in un dato posto non è granché credibile. Non ha avuto
materialmente il tempo di conoscere un dato posto. Eppure il fiuto ce l’ha, il
viaggiatore incallito, e qualcosa alla fine capisce sul serio. Ubud, città
“culturale” dell’isola di Bali, in Indonesia, mi ha profondamente deluso. Non
tanto perché il caldo opprimente e la fatica del viaggio in auto di locazione
(guidare a Bali richiede un’attenzione prolungata e continua, perché le
sorprese sgradevoli e pericolose per l’incolumità di qualcuno sono sempre
dietro l’angolo, in primo luogo per la sconsiderata guida di tanti motociclisti!),
ma soprattutto per la presenza massiccia di turisti. Ormai la città è un grande
centro commerciale, in cui persino la mentalità balinese accogliente e gratuita
viene messa a dura prova dal dio denaro, che sta bene nei tanti templi della
città.
Intendiamoci
di nuovo, questo non nega minimamente l’importanza della città e della sua
storia che impressiona, in particolare per essere diventata negli anni Trenta
un luogo che ospitò pittori di chiarissima fama dal mondo intero, e musicisti e
scrittori. La storia la s’incontra nei templi principali – Pura Taman
Saraswati, elegantissimo, degli anni Cinquanta del XX secolo e Pura Gunung
Lebah, struggente, dell’VIII secolo –, così come nel museo Puri Lukisan o nel
palazzo Puri Saren. Ma questi luoghi ormai sono sommersi dalle boutique, dai
caffè, dai ristoranti, dalle agenzie turistiche, da ogni sorta di commercio.
Persino il mercato Pasar Ubud pare una brutta copia dei bei luoghi indonesiani
dove si cerca di trovare qualcosa di semplice e utile, e dove s’incontra la
gente. Qui molto meno, al punto che l’insistenza dei compratori pare diventare
un’ossessione fastidiosa. Il che mi dà non poco fastidio, per via del rispetto
che in ogni caso noi europei dobbiamo verso questa gente.
Mi riconcilio
con Ubud solamente già col piede di partenza, quando sento della musica uscire
da quello che ritengo un tempio, ma che in realtà quasi subito mi accorgo
essere una scuola. Perché, mentre salgo i ripidi gradini che conducono verso i
tempietti, vengo letteralmente investito da una fiumana di ragazzi in divisa –
pantaloni verdi, camicia bianca e cravatta – che finalmente tornano a casa dopo
aver concluso la loro mattinata scolastica. C’è una tale vivacità nella loro
esuberanza che mi dico: questa è ancora Bali. Ma valla a scoprire!
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