Viaggio a Capo Verde/4 - Nell'isola di Santo Antão, camminando verso il mare lungo le valli scoscese e ardite scavate dalle "ribeira"
Appena lasciata la Cova de Paúl e la sua insolita
agricoltura da cratere, una stradina in acciottolato sale verso la corona di
rocce del vulcano che fu. Un soffio impetuoso pare spingere tutte le nubi del
mondo attraverso quella ferita della roccia. Roccia che, appena indossata la
giacca a vento e varcato il passo, si rivela una parete a strapiombo: come si
farà per scendere a valle? La nebbia impedisce di vedere al di là di una
dozzina di metri, ma il rassicurante acciottolato ormai vuol dire strada
sicura, magari faticosa, ma sicura. Ed è così che, passo dopo passo, tornante
dopo tornante, quando la nebbia si dirada mi ritrovo alcune centinaia di metri
più in basso: sotto ci sono tornanti in numero infinito, mentre sopra ci sono
sempre tornanti, ma in numero, questo sì, finito. La vegetazione appare
verdissima, i fiori, seppur piccoli, non mancano, e pure non pochi uccelli,
anche di ragguardevoli dimensioni, volteggiano nell'aria al di sopra della mia
testa, in compagnia di vette e pinnacoli così aerei da far paura.
Mi chiedo in quale
paradiso terrestre mi trovi. Ma mi sbaglio, perché ben presto al di qua e al di
là, al di sotto e al di sopra della mia posizione geostazionaria appare il
lavoro dell'uomo, il duro lavoro dell'uomo, che in queste contrade vuol dire
coltivazione di terre da riporto in terrazze minuscole sorrette da muretti a
secco talvolta straordinari. Così come fuori dal comune sono i muri di sostegno
della via che sto percorrendo in una discesa ripidissima, sostegni che vengono
controllati quasi giorno dopo giorno e riparati con rapidità e costanza, visto
che lasciar passar del tempo, anche pochi giorni, può voler dire vedere andare
in malora secoli di lavoro comune, di bene comune.
La
valle della Ribeira de Paúl splende ora in tutta
la sua superba seppur modesta bellezza. L'abitato è diffuso: sì, si notano tre
o quattro grumi di case un po’ più consistenti, ma pare di avere a che fare con
un presepio napoletano estivo: più ampio è, più case ci sono. Le coltivazioni
si fanno precise e curate, più verdi. Tra le terrazze appaiono le ben note canaline
che distribuiscono equamente l'acqua accumulata nelle stagioni delle piogge, ma
anche in misura minore nella stagione secca, nei giorni come oggi in cui le nubi
che si abbarbicano alle vette distribuiscono comunque un po' di umidità. I
depositi d'acqua si fanno più ampi e la portata dei canali non è dà poco, perché
siamo in cima a tutto il sistema d'irrigazione: in fondo, cioè a Vila das
Pombas, arrivano solo poche gocce. Finché, tra banani e canne da zucchero,
cavoli di tutti i colori e papaye ormai mature, si arriva alla strada carrozzabile
– che è solo una via in acciottolato più larga e meno pendente di quella che mi
ha portato sin qui –, ma non è che la civiltà dia fastidio. Si, le musiche e i
cellulari sono quelli della globalizzazione, ma il paesaggio no, e la gente è
sempre cortese e affabile. Attraverso quattro o cinque villaggi dainomi originali
– Chã Manuel dos Santos, Chã João Vaz, Passagem, Boca de Figueiral, Eito –,
finché la piana costiera, poche centinaia di metri nella foce della ribeira, annuncia il mare. Che
anche oggi pare arrabbiato.
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