Congiungendo la ricorrenza che ci riporta alla Shoah e la violenta contestazione ucraina, riporto le note di una visita a Babyn Yar, il dirupo dell’abominio, a Kiev (2009).
Mattinata capricciosa, che si diverte ad alternare ventate
d’aria settentrionale, pungente non c’è che dire, a squarci assolati di luce
pura. Mi sveglio di buon’ora. La città dorme ancora, è domenica, l’ideale per
una passeggiata, come si dice, corroborante. Passo dinanzi ai capolavori
dell’architettura sacra ucraina, che a tratti brillano soprannaturalmente,
mentre l’Opera e la Porta d’oro paiono invece tristi e disertate. I caffè
stentano ad aprire. Prendo un paio di stazioni di metropolitana, così simile a
quella di Mosca, così ardita nello scendere in profondità con scale mobili che
fanno paura, inusitate per le nostre città dell’Europa occidentale. La gente
seduta sulle panchine di legno dei vagoni dorme ancora, ha lo sguardo perso di
chi ha bevuto troppo o di chi, al contrario, ha dovuto sopportare coloro che il
gomito l’hanno alzato troppo. Emergo dal sottosuolo ai piedi dell’antenna televisiva
della tv nazionale ucraina, una delle più alte dell’Est europeo, è in ogni caso
l’edificio più elevato di tutto il Paese. Brutta antenna senza alcun dubbio, e
nemmeno tanto utile, come dicono gli abitanti di Kiev. La tivù la si vede
sempre male.
La meta del mio peregrinare domenicale è un semplice
candelabro di bronzo, quello ebraico a sette braccia, una menorah. È stato eretto a spese della comunità ebraica, sulla
collinetta dove venne commesso uno degli atti più efferati della Shoah. I
monumenti ufficiali il governo comunista ha voluto costruirli lontano da qui,
senza nominare nemmeno il popolo ebraico. Da tempo volevo recarmi quassù, da
quando m’era capitato d’ascoltare alla radio alcuni struggenti passaggi di una
composizione sinfonica di cui al momento non conoscevo l’autore. Le note
profonde dei violoncelli e dei contrabbassi s’alternavano alle voci d’un coro
di sole voci maschili: tenori, controtenori e bassi. M’era sembrato di cogliere
in quelle note qualcosa di simile al male assoluto e alla sofferenza
dell’innocente. Inquietante. Sì, m’ero reso conto che quelle note mi portavano lentamente
verso Oriente, nelle terre slave. Qualcosa mi diceva che Mussorskij,
Rimsi-Korsakov, Silvestrov e Pärt non erano lontani. Il concerto finì, e lo
speaker annunciò il nome della sinfonia e il suo autore: Babyn Yar di Vladimir Shostakovich. Mi recai quella sera stessa a
comprare la registrazione della sinfonia, che trovai solo in una vecchissima
edizione diretta proprio dall’autore. L’ascoltai per alcuni giorni, cercando di
informarmi sulla tragedia che quella musica aveva voluto rappresentare, e di
cui mi sovvenivo molto vagamente per un racconto che mio nonno Amos ne aveva
fatto in una sera d’inverno particolarmente brumosa.
M’avvicino accompagnato dalla corsa di rari mattinieri, tra
cui noto una maggioranza di ragazze filiformi. Qualche vecchietto porta a
spasso i suoi impertinenti cani, mentre due o tre giovanotti smaltiscono le
loro sbornie notturne sulle panchine del parco, che stilla primavera da ogni
foglia. Eppure nell’aria mi sembra di cogliere un insolito senso di rispetto,
quasi una composta meditazione mattutina. Una preghiera che non riesce a trovare
formule adeguate oltre al silenzio. Nessuna indicazione m’aiuta nella ricerca
del luogo della strage; solo col contributo dei passanti riesco a individuare
la collinetta di Bayn Yar e la menorah
costruitasul suo culmine. Anzi, intuisco i sette bracci del candelabro ancor
prima di vederli, perché una nenia votiva ebraica rompe il silenzio del parco e
il sottofondo del traffico lontano, attutito dal fogliame. Non scorgo nessuno,
la nenia è avvolta nelle frasche del bosco. Ma c’è, come c’è la memoria dei 34
mila trucidati in quel 29 settembre 1941, correva la festa di Michele e degli
altri arcangeli, figure bibliche. I nazisti radunarono qui i 34 mila ebrei
residenti a Kiev, e in 48 ore gli eliminarono tutti, uno alla volta, gettando poi
i loro corpi nel burrone. Non contenti del misfatto, in questo bosco
costruirono un vero e proprio campo di concentramento chiamato Syrets (dal nome
del quartiere). Della vicenda si seppe all’estero solo dopo la fine della
guerra. Qui furono trucidati anche rom, cristiani, partigiani e persino i
calciatori della Dinamo Kiev che non avevano voluto perdere contro le squadre
dell’esercito occupante.
Il modesto monumento appare ancora più modesto perché il
piedistallo – gradini poco profondi e poco alti rivestiti di mattonelle
dozzinali – è in stato pietoso. Ma sulle maioliche divelte dal freddo e
dall’incuria spiccano decine e decine di lumini spenti, usati nottetempo da
chissà chi. Sono 500 mila gli ebrei in Ucraina, la quarta comunità al mondo,
mai dimenticarlo. Cerco poi il burrone. Mi pare di individuarlo in una ripida
discesa erbosa che conduce ad un campo di calcio sterrato, tanto più che è
proprio laggiù che scorgo una decina di giovanotti ebrei che salmodiano movendo
aritmicamente il corpo: capisco che era quella l’origine del canto che avevo
udito nell’avvicinarmi. Fotografo da distanza il gruppo, quando mi rendo conto
che un rabbino avanza nel lungo viale che conduce alla metropolitana. Cammina a
passo deciso, si volta a destra e a manca. Ai piedi della menorah non si prosterna, non impreca, non fa nulla salvo alzare
gli occhi e abbassarli, come ripetendo gestualmente l’interrogativo insoluto di
Giobbe. Mi scorge, mi fa cenno di avvicinarmi. Mi chiede da dove venga, che
cosa mi abbia spinto quassù. Roma evoca nei suoi meandri cerebrali il ricordo
d’una vecchia zia, che lo fa sorridere almeno un po’. Poi mi prende per un
braccio, quasi strattonandomi, e mi fa: «Non è sul campo di calcio che hanno
ammazzato i miei fratelli. Lì ne hanno solo seppellita una parte. Qui dietro,
invece, lo vedi quel frascame, ecco dietro c’è il burrone, l’abisso».
Effettivamente la vegetazione nascondeva il salto naturale, che però
francamente appare assai modesto. Continua il rabbino: «I cadaveri che
giacevano laggiù una volta trucidati divennero così tanti che il fosso stesso
scomparve. Era 34 mila, un quartiere intero di Kiev». E si raccoglie di nuovo.
Poi rialza e riabbassa lo sguardo, dicendomi: «È la sola forma di preghiera che
riesce a calmarmi l’anima. Perché mi costringe a non dimenticare questa terra,
guardando anche lassù, unico luogo dove cercare la speranza».
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