Ancora sul Nepal, un anno fa, in una delle piazze più belle al mondo, gravemente colpita nei suoi templi più antichi. Nel cuore della capitale nepalese gli spazi del culto e dell'arte accolgono l'umanità più varia
Ci sono dei luoghi dove è difficile mantenere la calma
spirituale e fisica tanta è la novità che ci tocca affrontare. Mi capita
qualcosa di simile a Kathmandu, capitale del Nepal, in questo periodo di lavoro
e vacanza in cui non è poi così semplice riposarsi, per l’eccessiva quantità di
sorprese che ci si trova ad affrontare nello spazio di poche ore, se non di
pochi minuti. Durbar Square è un concentrato di storia e d’arte: era il luogo
dove venivano incoronati i re e dove poi governavano (durbar vuol dire palazzo) ed è tuttora il maggior patrimonio
architettonico tradizionale del Paese himalayano. Complesso dichiarato nel 1979
“patrimonio dell’umanità” dall’Unesco, è in realtà un complesso di tre piazze
sulle quali si affacciano una quantità impressionante di templi e palazzi. C’è
il Kasthamandap, XII secolo, la più antica costruzione della regione, edificata
col legno di un solo albero di sal. C’è l’Ashok Binayak, santuario dorato
dedicato a Ganesh, il dio dalla proboscide. Sul Maju Deval, dedicato a Shiva,
si può osservare la folla variopinta in visita alla Durbar seduti sui suoi
gradoni. C’è, soprattutto, l’Hanuman Dhoka, il palazzo del potere, fondato nel
IV secolo, che contava in origine 35 cortili, ma nel 1934 un terremoto
terribile ridusse i cortili a una decina…
L’approccio è di quelli che non lasciano indenni. Arrivo dal
mio alloggio dopo aver attraversato una quantità di strade, viuzze, piazze e
slarghi trovando non poche sorprese e molta, moltissima voglia di vivere e non
solo di sopravvivere. La tensione spirituale, umana e civica è al massimo
allorché, in fondo a un viale (in realtà una stradina!) appare uno dei templi
della celeberrima Durbar Square, il Saraswati. E comincia allora un grappolo
d’ore trascorse a salire e scendere i gradini dei tanti templi che occupano la
piazza, anzi le piazze, concatenate assieme senza una logica apparente, ma
comunque non senza legami culturali e, soprattutto, estetici. Vago tra un
tempio e l’altro, tra un mendicante e l’altro, tra una donna che offre
candeline e un’altra che invece propone collane di fiori arancioni, tra una
coppia di innamorati che tubano in un anfratto ligneo e uno stormo di piccioni
che tubano per i fatti loro attorno a un monaco color zafferano e a uno color
della porpora, tra una turba di mocciosi che occupano il carro approntato per
il Capodanno locale e un’altra turba che invece gioca a pallone con un grumo
sfilacciato di stracci… Perso, o forse ritrovato. Così m’identifico.
Il museo del Hanuman Dhoka è certamente meno vivo, anzi in
confronto è quasi morto. Ma espone i capolavori assoluti dell’arte newari, legno e mattoni, niente pietra.
L’esperienza più elettrizzante è quella della salita per le nove scale di legno
della Torre di Basantapur, il più alto edificio dell’antico palazzo reale,
salendo a uno a uno i gradini che conducono all’ultimo livello da cui si gode
una straordinaria vista sull’intera Kathmandu. Sotto di noi appare un alveare
la piazza omonima, occupata dai mercanti d’ottone e peltro, mentre i templi
della Durbar Square appaiono mucchi aggraziati di offerte votive e la folla un
liquido oleoso in movimento; senza contare i rumori, che quassù giungono
attutiti quanto basta per sentirsi al di sopra della tenzone della
sopravvivenza. La discesa per le anguste scale, infide per la profonda oscurità
pur in pieno giorno, pare una semplice preparazione psicologica all’immersione
nella folla della piazza, concentrato d’umanità e di profusione vegetale e
animale, tra mucche sacre e serpentelli sacralizzati, tra ghirlande
candide-dorate-arancioni e manciate di petali al vento.
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