Per ricordare i tanti uomini e donne morti nel terremoto himalayano, ripubblico nei prossimi giorni alcuni post del mio viaggio in Nepal dello scroso anno: il 25 aprile 2014 ero alloggiato in un albergo che è in parte crollato. Allora scrivevo: «La capitale nepalese conquista col suo "caos calmo". Passeggiando nel dedalo del centro storico».
Percorso di avvicinamento alla Durbar Square, a piedi, seguendo
un improbabile itinerario, tra bancarelle, tempietti, mocciosi e sporcizia
ovunque, risciò dai conduttori
oltremodo insistenti, colori sfacciati ed edifici che paiono rimanere in piedi
per miracolo tanto sono sghembi, a volte con la pancia o con l’idrocefalia.
Ovunque il rumore è elevato al di là del sopportabile, ogni proprietario di
motorino si sente in dovere di manifestare urbi
et orbi – siamo in periodo pasquale – la sua benedetta presenza. E i
mocciosi sono ovunque, invadenti e sorridenti. Le botteghucce si aprono sul
piano stradale, alte non più di un metro e mezzo, col proprietario
immancabilmente accovacciato all’interno del scuro e angusto antro-shop. Le donne vestono spesso in sari
coloratissimi, mentre tanti uomini non sono da meno, soprattutto per le fogge e
le tonalità dei loro copricapo. E poi piccioni e cani randagi sono ovunque,
invadono ogni interstizio della superficie terrestre e del cielo. La gente,
comunque, è assai amichevole, se si escludono coloro che desiderano vendere
qualcosa; con la loro insistenza rischiano di farti perdere la calma,
necessarissima per apprezzare appieno la città.
Seguo un itinerario a zigzag, che attraversa il centro storico
pià antico della città di Kathmandu, un dedalo di viuzze, piazzette e spazi
irregolari nei quali la gente vive d’una povertà che talvolta rischia di
diventare troppo precaria. La pulizia, meglio non parlarne, col caldo gli
effluvi diventano insopportabili. Le botteghe e i banchetti improvvisati
vendono di tutto, e costano poco o nulla, anche se è meglio non pretendere
granché in quanto a qualità dei prodotti. Si naviga nella folla, cercando di
non essere travolti da umani in moto o da umani carichi come muli che avanzano
come inebetiti dalla fatica. Vedo un sacco di belle cose: il Tempio di
Neteshwar, lo Stupa di Kathesimbhu, altri templi e statue buddiche, finestre
intagliate e tetti multipli, l’Indra Chowk, un delizioso cortile in stile newari, e tanto altro ancora.
Gli incroci che solitamente sono delle piazze a pianta
assolutamente irregolare, sono il luogo dove capire almeno un po’ la bellezza
di questa città, peraltro caotica, puzzolente e inquinata. Un esempio tra
tutti: la Asan Tole, dove un Santuario di Ganesh fa bella mostra di sé dinanzi
ad ogni sorta di commercio. Si scopre in questi luoghi il modo di essere al
mondo dei giovani e dei meno giovani, degli uomini e delle donne, dei ricchi e
dei mendicanti. Si impara osservando il modo di scansare i veicoli, la pianta
delle bancarelle che occupano ogni spazio libero, le grida e i silenzi della
gente, i loro strani conciliaboli, la loro voglia di farsi largo nella folla,
il modo di occupare i gradini di uno degli innumerevoli templi della urbanità
di Kathmandu… Ogni gesto, ogni odore, ogni suono permette di penetrare l’anima
della città, la sua creatività e la sua tradizione. A Kathmandu non ci si sta
male, basta capire come sopravvivere.
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