Ma è interessante, ricca e profumata come tutta la Malesia.
Le letture e
gli amici mi avevano messo in guardia: Penang, come dicono gli inglesi, o
Pinang, come invece dicono i malesi, non è quella che si dice una bella isola.
Il suo mare non è blu e verde come quello di Bali, o della più vicina Palau
Langkawi. I suoi mall non sono così
ricchi e lussuosi come quelli di Kuala Lumpur. A parte la città di Georgetown,
c’è poco di bello da vedere. Ma c’è sempre qualcosa di insolito, curioso e vero
che può mettere in moto la fantasia e fare apprezzare in un modo o in un altro
qualsiasi luogo, anche il più insignificante. Perché, magari, capire perché è
tale può essere una grande scoperta. Figurarsi per questa Pulau Penang, che in
ogni caso è un’isola tropicale ricca di storia e di bellezze naturali.
Usciti verso
Nord da Georgetown, finalmente il mare pare farla da padrone. Ma è un mare
cinereo, che alberghi e negozi e ristoranti cercano di rendere interessante, se
non attraente. Il centro di tale tentativo è una località balneare, Batu
Feringgi, che nel 2004, proprio nel pieno del suo sforzo promozionale, rischiò
di scomparire dalla faccia del pianeta tunisino: fu in effetti colpito dal ben
noto tsunami che ne danneggiò gravemente le strutture alberghiere e le
infrastrutture, ma senza spazzarle via. Così, a sette anni di distanza, la
stazione è ripartita a pieno ritmo, approfittando delle distruzioni del
maremoto per rammodernare le proprie strutture. Ma a Batu Feringgi è meglio non
fermarsi proprio, se si hanno altri scopi oltre a quelli esclusivamente oziosi
e balneari.
Dal Nord verso
il Sud dell’isola le strade sono due: quella orientale e quella occidentale. La
prima, attraversa l’abitato, la seconda la foresta tropicale. Scelgo la
seconda, anche se l’autista preferirebbe l’altra, e ne capisco ben presto il
motivo: la sua vecchia Mercedes 200D fa una fatica boia a superare le salite e
i tornanti che attraversano la foresta. E poi, se ad Oriente in mezz’ora si
percorre l’isola, o poco più, dipende dal traffico, ad Occidente ci vuole il
doppio del tempo. Lo spettacolo però è affascinante, e persino la foresta
sembra tenuta bene,con chiazze di colore intenso che qua e là conferiscono al
verde dominante una variabilità che affascina. Il “Parco nazionale dei frutti
tropicali” pare esaltare l’esuberanza di queste foreste, esponendo magnifici
esemplari di tutti i frutti che maturano da queste parti: ananas, mango, frutto
della passione, papaya… Qua e là fanno capolino dei villaggi costituiti
sostanzialmente da capanne di legno issate su palafitte. Anche qui ci sono
quelle ricche e quelle povere. Le prime hanno imposte ben curate e tetti in
lamiera, mentre quelle povere non hanno imposte e il tetto è di canne, o
piuttosto di frasche di palma. I locali comuni sono invece in muratura, e qua e
là non mancano nemmeno qui i primi centri commerciali con le loro insegne
pacchiane, che nella foresta c’entrano come i cavoli a merenda.
Il Tempio dei
serpenti, nel Sud dell’isola, contrariamente a quanto annunciato è una gran
delusione: sugli altari peraltro di scarsissimo valore artistico – anche se la
storia qui parla di un tempio costruito nel 1850 per il venerato monaco, asceta
e medico, buddhista di nome Chor Soo Kong, che si dice avesse edificato un
tempio abitato da serpenti divenuti mansueti –, si notano dei serpentelli verdi
non più lunghi d’una sessantina di centimetri, che se la dormono della grassa,
non so se narcotizzati o se inebetiti dall’incenso. Dicono che di notte si
sveglino e mangino le offerte lasciate dai fedeli durante la giornata, ma
qualche dubbio al riguardo mi rimane. Mi sembra tutta una messa in scena per
spingere i visitatori ad acquistare i biglietti (costosi) per l’attigua Mostra
dei rettili di Penang, o a farsi fotografare con un immenso pitone al collo per
30 RM, che qui sono un fortuna.
Salendo poi
verso Nord, ecco che le brutture fanno la loro apparizione, intendo dire i
“biscotti”, cioè i palazzoni popolari o residenziali tra i 20 e i 30 piani, che
ospitano gran parte della popolazione locale. Senza apparenti regole
urbanistiche, distruggono il paesaggio e creano abitati inquietanti. Ma qui in
Asia sono la norma, ormai. Qua e là scorgo templi buddhisti e indù, mentre le
moschee da queste parti sono piuttosto poco appariscenti, anche se la Malesia è molto più
“dura”, islamicamente parlando, dei vicini Indonesia, Brunei e, ovviamente,
Singapore. Anche le chiese sono ben presenti, soprattutto quelle cattoliche ma
non solo, spesso accompagnate da istituzioni scolastiche, sanitarie o
caritative. Il tutto sempre più avvolto nella sguaiatezza dei centri
commerciali, che sembrano anche qui essere i templi e le chiese del XXI secolo.
Il giro della
Pulau Penang si conclude con il maggior centro buddhista dell’intera Malesia,
quel Kek Lok Si che da tempo diffonde la sua fama spirituale nel Paese: l’inizio
della costruzione ebbe luogo nel 1893, grazie all’opera di artigiani thai,
birmani e cinesi. Si tratta di un vasto complesso votivo che si nota già da una
dozzina di chilometri di distanza, perché è di dimensioni ragguardevoli e
perché è issato sulle pendici di una montagna. Vi si accede attraverso un lungo
budello in salita, un corridoio fiancheggiato per alcune centinaia di metri da
bancarelle che vendono candele ed incensi, ma anche mille altre mercanzie. Finalmente,
grondante di sudore, sbuco in una sorta di piazzetta occupata nella quasi totalità
da una vasca circolare che brulica di tartarughe, animale sacro per i buddhisti.
E da lì comincia un’ininterrotta serie di templi e tempietti che, sempre in
salita, vogliono in qualche modo presentare il pantheon buddhista nella sua completezza.
Qua e là dei monaci fanno capolino, ora per pulire qualcosa, ora per dare un
buon consiglio (speriamo!), ora per togliere i resti delle candele dai bracieri
votivi. Si muovono con circospezione, quasi invisibili, ma padroni assoluti del
loro spazio culturale. C’è poca gente – né turisti né devoti – per la semplice
ragione che siamo nelle ore più calde della giornata (fesso che sono!), ma i
pochi presenti paiono voler entrare in comunione reale con lo spirito del
luogo.
Il sito è di
solito raffigurato e quindi identificato con la pagoda biancheggiante, alta 30 metri e a sette
livelli, dedicata a Rama VI di Thailandia che ne pagò la costruzione. Anche se
tutto lo sconsiglierebbe, sono così tentato di salirlo, attraverso delle scale
di cemento grezzo costruite al suo interno. Ogni piano è tappezzato da piccole
rappresentazioni del Buddha, ma colorate in modo diverso. Arrivo alla cima madido
di sudore, ma comunque soddisfatto per aver potuto ammirare il complesso templare
ad ogni piano, osservandolo mutare di prospettiva e quindi di sostanza, quasi a
voler comunicare alla persona che sale quei gradini il senso della vita che
muta ad ogni passo, e che talvolta bisogna sapersi elevare per avere un’esatta
visione delle cose, o perlomeno più chiara.
Ma non è
finita qui, perché la “furia votiva” dei monaci ha voluto che in questo luogo
fosse innalzato un monumento straordinario. È ancora in piena costruzione: ci
sono il tetto, l’enorme statua della dea Kuan Yin, la dea della misericordia, i
pilastri-colonne scolpiti. Ora si sta lavorando per innalzare le pareti
dell’edificio cilindrico. Vi si accede grazie ad una breve funicolare, peraltro
benedetta in questi frangenti, che evita un ulteriore bagno di sudore. I templi
dell’ultimo livello, in effetti, non sono nulla di speciale: non hanno nemmeno
quel vecchiume sporco che caratterizza tanti templi buddhisti e conferisce loro
quell’aura misteriosa che fa parte del culto orientale. Ma la vista da quassù è
stupenda, nonostante le ceneri provenienti dall’Indonesia. E non può esserci
che ringraziamento, anche per l’esistenza di Pulau Penang.
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