La capitale indonesiana non è una città facile: ha anche le sue bellezze, in parte ereditate dai coloni olandesi. La grandezza della città sta tuttavia nella natura conciliante della sua gente.
Non è una
città in cui spontaneamente viene la voglia di viverci. 20 milioni di persone
concentrate in una metropoli convulsa non costituiscono quella che si potrebbe
definire una prospettiva allettante. A più riprese mi tocca assaggiare il traffic jam, la marmellata del traffico,
anche se sostanzialmente la mia visita si svolge in un fine settimana.
Improvvisamente ci si ferma e non si riparte che 5, 10, 20 minuti più tardi,
senza peraltro capire il perché di quella sosta, magari dovuta semplicemente a
due o tre tassì che tardano a lasciare i propri clienti, o un minimo incidente,
o ancora un semaforo rotto. Agli incroci, prima della ripartenza al verde, si
formano nugoli di motorette scoppiettanti che poco alla volta, centimetro dopo
centimetro, guadagnano terreno, invadendo pericolosamente la sede stradale e
talvolta addirittura anticipando il semaforo, sciamando in tutte le direzioni.
D’altronde lo stesso tracciato delle strade non sembra essere proprio razionale:
l’ex aeroporto, ad esempio, è stato chiuso e trasformato in un’enorme quartiere
residenziale e commerciale. Nella pista-strada a sei corsi per direzione si
sfreccia per qualche chilometro, per poi frenare bruscamente al termine del
“rullaggio” per l’inevitabile ingorgo provocato dalle sei corsie che diventano
tre e poi una sola.
La città ha
origini lontane, e ha conosciuto una forte colonizzazione olandese: porto
fiorente della dinastia locale indù Pajajaran, nel 1522 divenne colonia
portoghese, prima che il santo musulmano Sunan Gunungjati cinque anni più tardi
li cacciasse (il nome della città, “città vittoriosa”, risale a quel periodo). Solo
all’inizio del XVII secolo arrivarono gli olandesi che, dopo acerrime lotte con
i britannici, presero stabile possesso del luogo nel 1619, ribattezzando la
città Batavia. Un dominio che durò fino al 1942, con l’occupazione giapponese,
e che poi portò la città a diventare capitale dell’Indonesia libera, nel 1950. Forse
anche per questa lunga dominazione olandese è costruita lungo una serie di canali
che servono a regolare il deflusso delle acque nella stagione delle piogge, sapendo
che comunque, ogni tre o quattro anni, la città viene invasa per il 70-80 per
cento della sua superficie : finora nessuna opera idraulica è riuscita a risolvere
il problema.
Anche qui a
Jakarta i mall, cioè i centri
commerciali sconfinati, stanno cambiando il panorama urbano. Ne visito solo
uno, chiamato Manga Dua, che impressiona per le sue sconfinate dimensioni, ma
che mi pare manifestare una delle note caratteristiche di questo popolo: lungo
le scale mobili del centro c’è posto per chiunque, per i ricchi e per i meno
ricchi. In un Paese che non è ancora al top dell’esplosione neo-liberista
asiatica e mondiale, ma che comunque può contare su una crescita dell’economia
del 6,8 per cento, questi centri commerciali sono uno spaccato di una
rivoluzione più soft che altrove.
Ma la gente di
Jakarta appare gentile, ovunque o quasi. La lingua ha un incedere quasi
sincopato: una delle spiegazioni è che il plurale non esiste come forma autonoma,
per cui la soluzione escogitata dai linguisti nei secoli è stata quella di
ripetere semplicemente due volte il singolare! La parlata è quindi simpatica e
leggermente comica, quasi balbettante. Così come appare insolita la
conformazione del vecchio centro della città, la vecchia Kota, che alterna
costruzioni in stile coloniale olandese ad altre in uno stile più locale e ad
altre ancora più moderne, in una precarietà dell’insieme che lascia perplessi:
ci sono sacche di povertà spaventose accanto a esplosioni di ricchezza, direi
addirittura di opulenza.
Ne ho una
prova visitando il porto e i suoi immediati dintorni. Accanto a belli ed
eleganti pescherecci di legno di ragguardevoli dimensioni, la miseria più cruda
fa capolino con la gente che vive negli interstizi dello scalo. Mentre più
tardi, accanto allo stesso porto, s’allunga accanto alla spiaggia un quartiere
residenziale di ville spaventosamente lussuose: marmi di Carrara e vetri fumé,
cemento ardito e giardini lussureggianti, in cui il kitsch più stupido fiancheggia la migliore architettura
contemporanea. Poi una highway e
quindi, quasi senza soluzione di continuità, ecco lo slum più esteso di
Jakarta, forse mezzo milione di persone, in condizioni igieniche che dire
precarie è eufemistico, elettricità mancante o rubata, ma con le antenne
satellitari bene in mostra, mentre nessuno sembra far economia d’un cellulare.
Poi, di nuovo, la ricchezza sfacciata di un enorme campo da golf su cui corrono
le macchinette bianche dei ricconi, inseguite da decine di portaborse vestiti di
bianco che molto probabilmente vengono proprio dallo slum attiguo. Terribili contraddizioni
che si fa fatica ad accettare: come il viadotto che collega la zona
residenziale al campo da golf, sopraelevato rispetto allo slum che sembra voler
ignorare, più che disdegnare.
La città di
Jakarta è quindi un intricatissimo dedalo di enormi viadotti e svincoli,
stradine tortuose, canali puzzolenti, mercati e mercatoni che sorgono un po’
ovunque senza apparente logica, frotte di Apecar che fungono da mini-tassì (qui
li chiamano badjaj, mentre in
Thailandia li chiamano tuk-tuk),
piccole e medie moschee dalle orride cupole di metallo i cui muezzin fanno a
gara nel salmodiare più forte dando vita a un concerto che solo a tratti
diventa una polifonia involontaria, altrimenti aggiungendo del caos fonico al
caos viario, università laiche e altre religiose…
Ma mi piace
concludere questa breve descrizione di Jakarta percorrendo i corridoi che sanno
di vecchiume del Museo Wayang, il museo della marionetta, che sembra in qualche
modo sintetizzare le tradizioni coloniali e quelle indigene. Una serie di bacheche
scarsamente illuminate e fornite di etichette solo in lingua indonesiana, per
la disperazione dei turisti stranieri, ospitano una collezione articolata e
stupenda di marionette sia locali che europee; quelle locali (purwa) sono una sorta di ricamatissime
pelli di bufalo trattate e forate in modo da dar vita a incredibili spettacoli
di ombre cinesi. Forse qui si può capire quel qualcosa di positivo che certo
colonialismo ha portato: l’incontro e non lo scontro tra le civiltà. E allora
anche Jakarta, almeno per qualche istante, m’appare un luogo degno d’essere
visitato, se non addirittura vissuto.
Nessun commento:
Posta un commento