Nella città-Stato asiatica, la vita delle gente scorre come un grande fiume lavorativo, tutto impegno e guadagno. Ma c'è dell'altro, per fortuna.
Stupisce,
Singapore, per una quantità di motivi. A cominciare dall’estrema pulizia che
contraddistingue tutta la città, o quasi. C’è poi da registrare la qualità dei
servizi offerti dalla municipalità, che è anche amministrazione statale, come
il metro, che taluni qualificano come il migliore del mondo, forse non a caso. Singapore
colpisce pure per la cura di ogni elemento naturale: le strade contano tutte
sulla presenza di alberi, fiori ed arbusti, curatissimi, in particolare i rain tree, gli alberi della pioggia
ombrelliformi. Persino l’asfalto pare curatissimo, viene il sospetto che lo
spazzino di continuo, nelle larghe strade della città. Si nota pure la grande
differenza tra il centro della città – svettanti grattacieli mescolati alle
preservate e curatissime costruzioni coloniali – e i quartieri dormitorio della
periferia, anonime anche se curate e brulicanti di gente.
Osservando poi
la popolazione, si nota una profonda e inveterata mescolanza di razze, vissuta
in un’estrema naturalezza. Colpisce anche il fatto che nei trasporti pubblici o
per strada la gente di ogni età, ma ovviamente con una preponderanza giovanile,
sono intenti a consultare o a giocare coi propri smartphone o tablet: i
sorrisi sono praticamente inesistenti in pubblico. Scorgo solo una donna dai
tratti somatici indiani che ride: perché sta vedendo un film sul suo
telefonino! La gente sembra soddisfatta del proprio governo – esecutivo
composto da sempre dalla classe imprenditoriale che domina lo Stato, che
assicura servizi impeccabili e una grande sicurezza: dopo gi attentati degli
anni Novanta, l’intera popolazione ha collaborato attivamente allo sradicamento
del morbo terrorista, e ancor oggi ovunque appaiono cartelli che invitano alla
collaborazione nella lotta all’insicurezza, con numeri verde sempre disponibili
per le denunce anonime. Le ragazze appaiono anche qui le più influenzate dalla
vena consumista: non solo perché usano i loro smartphone con una costanza e una tenacia quasi ossessive, ma anche
perché paiono le fotocopie delle modelle di razza ed età indefinibile che
imperversano nell’immaginario collettivo pubblicitario. A gambe nude, in short
colorati, quasi tutte, ma senza scollatura. I ragazzi appaiono più trasandati e
in fondo poco interessati all’estetica, molto più all’informatica.
Basta poco per
accorgersi che la società è nei fatti divisa in tre: i ricchi, che non sono
pochi, che vivono al centro o nei quartieri residenziali, che usano l’auto – si
paga per entrare in centro con sofisticati modi di pagamento automatici –, che
si servono nelle boutique di lusso, che non hanno problemi di conto in banca,
che fanno studiare i propri figli nei collegi più esclusivi, quasi tutti
europei. C’è poi la classe media, o medio-bassa, che abita nei casermoni delle
periferie, soddisfatta di quanto viene offerto dal governo, integrata
perfettamente, con interessi culturali piuttosto limitati. E poi gli immigrati
– ormai superano il milione –, dediti ai lavori più umili, pagati comunque
correttamente ma senza diritti particolari; abitano nei quartieri più lontani
ed evidentemente inviano la massima parte dei loro guadagni a casa, nelle
Filippine, in India, nel Bangla Desh, in Indonesia.
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