Pura Ulum Danu, sullo specchio d'acqua balinese di Batur, testimonia la fede fanciullesca e profonda delle popolazioni locali
Il lago Batur,
a Bali, è naturale senza esserlo, perché s’è creato in seguito alla tremenda
eruzione del vulcano Gunung Batur, nella notte dei tempi. Ha la forma di una
semiluna: sulla riva orientale è lussureggiante ed esuberante in ogni sua
espressione – si tratta delle pendici del vulcano Gunung Abang, più calmo del
suo confratello –, mentre sulla riva occidentale, che porta invece alla cima
del Gunung Penulisan – ogni giorno e ogni notte manifesta in qualche modo la
sua esuberanza che sale dalle profondità della Terra – è brullo, arido, lavico.
Eh sì, non è che un’enorme colata di lava che la vegetazione fatica non poco a
ricoprire. Tre paesetti sopravvivono alla base del vulcano, sulla riva del
lago; gli abitanti vivono di pesca e di quel po’ di turismo che viene dallo stesso
vulcano. Una strada asfaltata corre lungo il lago, tracciata sul terreno senza
tanti scrupoli, e quindi si rivela un continuo saliscendi in brevissimi spazi e
senza porre attenzione alle pendenze. Se poi si considera la proverbiale usanza
balinese di tracciare sedi stradali strettissime, ecco che ci si può fare
un’idea dei rischi che si corrono su questa stradina. In fondo al lago, in
fondo a questa strada e in fondo al paesino di Sonh, sorge, addossato
all’esuberante vegetazione dei primi contrafforti del vulcano Abang, un tempio
che non ha particolari meriti né artistici né storici, ma che risulta assai
venerato, non solo dagli abitanti locali, ma da tutti i balinesi del Nord.
Prova ne sia il fatto che anche oggi interi villaggi si sono spostati fin
quassù (o quaggiù) con ogni mezzo (di preferenza i camion verdi Isuzu, scelti
perché molto stretti) per celebrare coi propri sacerdoti i riti del villaggio.
È così che,
arrivato a destinazione, capito nel bel mezzo di una celebrazione indù che
ricorda alla divinità la fertilità necessaria dei loro campi. Mi cingono col
tradizionale sarong, raccomandandomi
di non accedere al tempi principale per rispetto cultuale. Ma tant’è, i canti,
le musiche, le orazioni sono così insistenti e invitanti che non riesco a
trattenermi e, seppur con rispetto e adeguata circospezione, penetro nel
recinto sacro. Circa 300 persone sono sedute per terra alle spalle degli
officianti vestiti di bianco dal turbante alle babucce, in file regolari, ma
con una certa anarchia sui bordi. Qualcuno si accorge dell’intrusione, ma
inequivocabilmente mi sorride, tutti mi sorridono, tutti paiono essere grati
della mia presenza. Forse solo i sacerdoti si direbbero scontenti…. I riti si
susseguono: campanelle suonano di continuo invitando a compiere gesti
coordinati con le mani: una di queste preghiere delle dita mi colpisce
particolarmente, quello di sollevare le mani giunte sopra il capo, lasciando
sporgere oltre le estremità delle dita un petalo di fiore, solo uno.
Il sole
finalmente fa capolino al di sopra del vulcano, cadendo dall’alto quasi a
perpendicolo su queste mani e questi petali, conferendo alla scena qualcosa di
magico, o piuttosto di divino. Ma è l’ora delle processioni e delle aspersioni:
donne, uomini e bambini portano e depongono le loro offerte su uno degli altari
del tempio, di preferenza su quello che giace alla base della alta pagoda a
undici livelli, elegantissima ed ardita, mentre i preti in bianco aspergono
abbondantemente di acqua benedetta il capo dei presenti, molti dei quali, non
so per che motivo, hanno la testa coperta da foulard rossi. E la fine della
cerimonia fatalmente s’avvicina; la gente si solleva guardandosi intorno
gioiosissima, in una sorta di abbraccio collettivo che mi commuove non poco,
anche perché il primo ad esservi coinvolto è il sottoscritto, col quale non
pochi desiderano farsi fotografare. I fedeli escono, consumano un frugale pasto
a base di riso, fagioli e pesce, a quanto ne capisco, e poi risalgono
diligentemente sui loro camion verdi senza la minima recriminazione, nonostante
li attendano quattro ore abbondanti di traballamenti vari e la visita ad altri
due santuari lungo il cammino di ritorno. E io riprendo la “mia” Toyota Avanza
e li seguo lungo la strada della lava, felice della cerimonia appena conclusa
ma anche e soprattutto per aver potuto conoscere qualche brano della vera
cultura balinese non ancora toccata, se non di striscio, dal demone del
turismo. Nel tempio alla chiusura del lago.
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