Viaggio a Creta/1 - Sin dalle prime pietre, dai primi scogli, dai primi cieli e dai primi mari, l'isola si svela.
Agía
Triáda, Santa Trinità, un monastero a cinque chilometri dall’aerodromo, come si
dice in greco. Lo trovo facilmente, è massiccio, non pare avere al suo interno
straordinarie bellezze. Eppure i gatti che mi si strofinano alle caviglie
paiono invitarmi ad aver fiducia. Ed è così che penetro sotto il portale
evidentemente di fattura veneziana (sono opera dei fratelli Geremia e Benedicto
Zangarolo, veneziani convertitisi all’ortodossia), così come la chiesa che
tradisce gli stilemi del rinascimento veneziano del XVII secolo: semicolonne,
finto frontone e finto cornicione. Deambulare nel cortile del monastero a
scoprire dettagli più o meno insignificanti, più o meno artistici, mi spinge a
pensare che non è possibile capire l’isola di Creta e la sua storia senza
viaggiare, almeno metaforicamente, nelle vicende della Chiesa greco-ortodossa,
che di dolori e di incertezze ne ha patiti non pochi. Noto degli alberi che
offrono limoni, aranci e cedri che pendono dagli stessi rami. Qualcuno lo
considera un miracolo, chissà…
Con un collega
ci siamo dati appuntamento all’aeroporto di Chaniá, La Canea nell’isola
di Creta, per poi recarci a un congresso in quel di Réthimno, più ad Oriente.
Ma tra i nostri due voli intercorrono tre ore, tre lunghe ore di aeroporto,
infinitamente noiose. Ho però affittato una macchinetta per i nostri
spostamenti, e quindi decido di andare un po’ a zonzo senza allontanarmi troppo
dall’aeroporto restando nella penisola di Akrotiri che, all’atterraggio, m’è
sembrata un cumulo di pietre qua e là ingentilito dai filari degli olivi.
Riparto, sulla
montagna c’è un altro monastero, quello di Gouvernéto. La strada s’inerpica,
viene abbandonata anche dai radi ulivi della penisola, s’intrufola in una
stretta gola che pare non avere uscita. Finché non giungo ad un verde ripiano
su cui si erge un altro parallelepipedo, come una fortezza, questa volta un po’
sommario e in restauro. Oggi i monaci sono rinchiusi in ritiro, tutto è chiuso.
Non mi resta che salire un po’ più in alto, fino ad una sorta di valico. Ed è
lì che scopro un’altra verità di Creta: non è possibile capirla senza guardarla
dall’alto, con la sua eterna commistione e separazione tra pietra ed acqua.
Riprendo
l’auto e in una ventina di minuti scendo al mare, al paesello di Tersanás, una stretta
spiaggia, qualche barchetta attraccata al modesto molo, un ristorantino,
qualche casetta. Scendo dall’auto, faccio quattro passi per sgranchirmi le
gambe, mi siedo ad annusare l’odore del mare sotto un ulivo. C’è pace, c’è
serenità, s’è l’acqua. Impossibile capire Creta senza tener conto non solo che
è un’isola, non solo che vive in gran parte sul mare e del mare, ma che l’acqua
stessa è il simbolo della sua natura liquida, che avvolge e penetra l’altra sua
natura, quella solida della pietra. Non c’è contraddizione.
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