lunedì 15 ottobre 2012

L'ambiguità del principe Sihanouk



E' morto colui che era monarca della Cambogia prima della carneficina dei khmer rossi. Ricordandolo con un testimone a Phnom Penh. (dicembre 2009)

È una città assai movimentata, Phnom Penh, ma nel contempo più tranquilla di tanti altri centri dell’Estremo Oriente. Motorini e tuk tuk, tutto si paga, anche scattare foto al mercato. Il palazzo reale è bello, pulito, asettico. Spicca – ma che ci fa da queste parti, perbacco? – il padiglione à la française, regalo dell’imperatore Napoleone III. Una delegazione vietnamita è in visita alla città, e rallenta ogni movimento. C’è chi si lamenta ad alta voce dell’eccessiva vicinanza dell’attuale governo ai vietnamiti comunisti, e chi sostiene, a voce invece sommessa, che ancora ci troviamo in un regime che nei fatti è una pratica dittatura. Non c’è libertà di stampa, né di opinione, tutto pare essere ancora sotto il controllo dei servizi segreti, nemmeno tanto segreti, poi: l’economia s’è fermata da due o tre anni, anche il turismo sta rallentando. Il commercio ancora funziona, ma c’è scarsissima produzione locale, perché anche qui è la Cina a spandere le sue armate economiche. Nulla di nuovo sotto il sole!
Al mercato c’è ressa, c’è puzza di pesce e di verdure fermentate, c’è dozzinale mercanzia, ci sono donne, tante donne, quasi esclusivamente donne. Come sempre, anche qui sono loro a essere il vero motore della società, e il necessario collante sociale.
«Se la ricchezza sono i figli, la montagna della fiamma è la suocera», mi dice seduto ai tavolini di un ristorantino immerso nel mercato un uomo sulla sessantina che ha voglia di praticare il suo francese d’antan. Poi mi spiega che ciò significa che è la parola della suocera quella che può dare fuoco alla montagna. «Da sposati gli uomini vanno a vivere dalle suocere – mi dice l’uomo, affabile, cortese, un po’ alterato forse solo perché emozionato di parlare con uno straniero –. Ed è la suocera che comanda, è lei a cui bisogna versare tutto il denaro che si guadagna. E se l’uomo non raccoglie abbastanza denaro, sono dolori! Non avevo soldi per comprare la casa, e così mi sono deciso a cinquantacinque anni ad allontanarmi da mia moglie, e ritirarmi a vivere da solo. In soli quattro anni, con i miei modesti guadagni da professore sono riuscito a comprarmi un terreno in città e a costruirvi una piccola casa, sufficiente per abitare degnamente. Eppure sono stato e sono ancora fedele a mia moglie, perché dice il proverbio: “Le foglie dell’albero debbono cadere lontano dal tronco”. Mia moglie, come tutte le donne, è una vipera. Prima di sposarla era bella e gentile; dopo il matrimonio s’è trasformata improvvisamente in una megera spietata e cinica».
Passiamo poi a parlare della dittatura – «ma devi assolutamente tacere il mio nome, perché altrimenti mi tagliano la gola» –, che al mio interlocutore appare ancora assolutamente reale. «Abbiamo cambiato il conducente, ma il pullman è rimasto lo stesso – mi spiega –. Poco è cambiato dai tempi di Pol Pot, e ancor oggi si uccide per il potere. Ora non c’è più ideologia comunista, ma c’è l’ideologia del potere per il potere. Si è arrivati ad uccidere la propria razza per il potere. Non sapevamo nulla di Pol Pot e delle sue reali intenzioni. Solo più tardi abbiamo saputo di quel che era successo. Le radici di questo governo sono ancora nei khmer rossi, , e c’è ancora servitù nei confronti dei vicini vietnamiti comunisti. Il governo, comunque, si regge sui brogli elettorali, qui non siamo in purgatorio, ma in inferno! Ha visto il grattacielo in costruzione al centro? Tutti gli appartamenti sono stati già venduti. A chi? Alla gente del governo e dell’esercito! Se vogliono, con una firma possono vendere intere strade, interi caseggiati! E poi si parla di libertà?».
Continua il mio interlocutore, un fiume in piena: «Ci sono intieri quartieri vietnamiti in cui la popolazione non rispetta le leggi cambogiane. Fanno quel che vogliono e rubano al nostro Paese. In ogni casa sono state nascoste delle armi. Nel 1997 c’è stata una rivolta contro i vietnamiti, ci sono stati incidenti: le autorità parlano di 4 o 5 morti, ma in realtà sono stati circa 300. I cadaveri sono stati visti galleggiare sul Mekong, chiusi in sacchi di riso, e destinati a scomparire in mare».
Ripercorre poi la vicenda cambogiana dal colpo di Stato di Lon Nol, all’improvvisa nascita dei khmer rossi – «erano pronti da tempo, perché in una notte sono apparsi ovunque» –. E poi l’invito di Lon Nol ai vietnamiti del Sud per combatterli, l’appello del principe Sihanouk, fuggito prudenzialmente in Cina, a ritirarsi nella foresta per combattere il fedifrago che l’aveva cacciato, l’arrivo dei khmer nelle città, le epurazioni, gli assassinii sistematici di tutti quanti avevano studiato, degli “intellettuali”, i due milioni di morti ammazzati e il milione morto di fame – «un chilo di riso doveva sfamare circa 30 persone!» –, le famiglie smembrate. «Io stesso ho perso mio padre, un professore, due sorelle e un fratello, uccisi sotto tortura. Mio padre è morto per i colpi di bastone ricevuti, mio fratello ucciso da un colpo di pistola alla tempia, le mie sorelle pugnalate al cuore. La mia famiglia aveva la colpa di essere ricca. E tutto per colpa di Pol Pot, che era un uomo di Sihanouk. È lui che ha dato l’ordine di iniziare la carneficina! Il colpo di Stato di Lon Nol era stato “permesso”, se non “voluto”, sihamoni, dallo stesso principe. Il quale ora ci ha lasciato un figlio come re, un ignavo, un incapace, un corrotto».
Riprendo la mia passeggiata nel mercato dopo aver salutato il mio interlocutore, con il cuore un po’ più pesante di prima.

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