E' morto colui che era monarca della Cambogia prima della carneficina dei khmer rossi. Ricordandolo con un testimone a Phnom Penh. (dicembre 2009)
È una città assai movimentata, Phnom Penh, ma nel contempo
più tranquilla di tanti altri centri dell’Estremo Oriente. Motorini e tuk tuk, tutto si paga, anche scattare
foto al mercato. Il palazzo reale è bello, pulito, asettico. Spicca – ma che ci
fa da queste parti, perbacco? – il padiglione à la française, regalo dell’imperatore Napoleone III. Una
delegazione vietnamita è in visita alla città, e rallenta ogni movimento. C’è
chi si lamenta ad alta voce dell’eccessiva vicinanza dell’attuale governo ai
vietnamiti comunisti, e chi sostiene, a voce invece sommessa, che ancora ci
troviamo in un regime che nei fatti è una pratica dittatura. Non c’è libertà di
stampa, né di opinione, tutto pare essere ancora sotto il controllo dei servizi
segreti, nemmeno tanto segreti, poi: l’economia s’è fermata da due o tre anni,
anche il turismo sta rallentando. Il commercio ancora funziona, ma c’è scarsissima
produzione locale, perché anche qui è la Cina a spandere le sue armate economiche. Nulla
di nuovo sotto il sole!
Al mercato c’è ressa, c’è puzza di pesce e di verdure
fermentate, c’è dozzinale mercanzia, ci sono donne, tante donne, quasi esclusivamente
donne. Come sempre, anche qui sono loro a essere il vero motore della società,
e il necessario collante sociale.
«Se la ricchezza sono i figli, la montagna della fiamma è la
suocera», mi dice seduto ai tavolini di un ristorantino immerso nel mercato un
uomo sulla sessantina che ha voglia di praticare il suo francese d’antan. Poi mi spiega che ciò significa
che è la parola della suocera quella che può dare fuoco alla montagna. «Da
sposati gli uomini vanno a vivere dalle suocere – mi dice l’uomo, affabile,
cortese, un po’ alterato forse solo perché emozionato di parlare con uno straniero
–. Ed è la suocera che comanda, è lei a cui bisogna versare tutto il denaro che
si guadagna. E se l’uomo non raccoglie abbastanza denaro, sono dolori! Non
avevo soldi per comprare la casa, e così mi sono deciso a cinquantacinque anni
ad allontanarmi da mia moglie, e ritirarmi a vivere da solo. In soli quattro
anni, con i miei modesti guadagni da professore sono riuscito a comprarmi un terreno
in città e a costruirvi una piccola casa, sufficiente per abitare degnamente. Eppure
sono stato e sono ancora fedele a mia moglie, perché dice il proverbio: “Le
foglie dell’albero debbono cadere lontano dal tronco”. Mia moglie, come tutte
le donne, è una vipera. Prima di sposarla era bella e gentile; dopo il
matrimonio s’è trasformata improvvisamente in una megera spietata e cinica».
Passiamo poi a parlare della dittatura – «ma devi
assolutamente tacere il mio nome, perché altrimenti mi tagliano la gola» –, che
al mio interlocutore appare ancora assolutamente reale. «Abbiamo cambiato il
conducente, ma il pullman è rimasto lo stesso – mi spiega –. Poco è cambiato
dai tempi di Pol Pot, e ancor oggi si uccide per il potere. Ora non c’è più ideologia
comunista, ma c’è l’ideologia del potere per il potere. Si è arrivati ad
uccidere la propria razza per il potere. Non sapevamo nulla di Pol Pot e delle
sue reali intenzioni. Solo più tardi abbiamo saputo di quel che era successo. Le
radici di questo governo sono ancora nei khmer rossi, , e c’è ancora servitù
nei confronti dei vicini vietnamiti comunisti. Il governo, comunque, si regge
sui brogli elettorali, qui non siamo in purgatorio, ma in inferno! Ha visto il
grattacielo in costruzione al centro? Tutti gli appartamenti sono stati già
venduti. A chi? Alla gente del governo e dell’esercito! Se vogliono, con una
firma possono vendere intere strade, interi caseggiati! E poi si parla di
libertà?».
Continua il mio interlocutore, un fiume in piena: «Ci sono
intieri quartieri vietnamiti in cui la popolazione non rispetta le leggi cambogiane.
Fanno quel che vogliono e rubano al nostro Paese. In ogni casa sono state nascoste
delle armi. Nel 1997 c’è stata una rivolta contro i vietnamiti, ci sono stati
incidenti: le autorità parlano di 4 o 5 morti, ma in realtà sono stati circa
300. I cadaveri sono stati visti galleggiare sul Mekong, chiusi in sacchi di
riso, e destinati a scomparire in mare».
Ripercorre poi la vicenda cambogiana dal colpo di Stato di
Lon Nol, all’improvvisa nascita dei khmer rossi – «erano pronti da tempo,
perché in una notte sono apparsi ovunque» –. E poi l’invito di Lon Nol ai vietnamiti
del Sud per combatterli, l’appello del principe Sihanouk, fuggito
prudenzialmente in Cina, a ritirarsi nella foresta per combattere il fedifrago
che l’aveva cacciato, l’arrivo dei khmer nelle città, le epurazioni, gli assassinii
sistematici di tutti quanti avevano studiato, degli “intellettuali”, i due milioni
di morti ammazzati e il milione morto di fame – «un chilo di riso doveva
sfamare circa 30 persone!» –, le famiglie smembrate. «Io stesso ho perso mio
padre, un professore, due sorelle e un fratello, uccisi sotto tortura. Mio padre
è morto per i colpi di bastone ricevuti, mio fratello ucciso da un colpo di
pistola alla tempia, le mie sorelle pugnalate al cuore. La mia famiglia aveva
la colpa di essere ricca. E tutto per colpa di Pol Pot, che era un uomo di
Sihanouk. È lui che ha dato l’ordine di iniziare la carneficina! Il colpo di
Stato di Lon Nol era stato “permesso”, se non “voluto”, sihamoni, dallo stesso principe. Il quale ora ci ha lasciato un figlio
come re, un ignavo, un incapace, un corrotto».
Riprendo la mia passeggiata nel mercato dopo aver salutato
il mio interlocutore, con il cuore un po’ più pesante di prima.
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