La bellezza dell'ambiente non riesce a nascondere il dramma della popolazione locale vittima di una grave inondazione
Nel cuore dell’isola indonesiana di Bali, piuttosto decentrato verso Nord a dire il vero, tra vulcani e valli che ripidissime scendono al mare, tre laghi vulcanici sono attrazione non solo e non tanto per i visitatori stranieri, quanto per il turismo locale. L’accesso infatti non è dei più agevoli e la struttura turistica lascia a desiderare. Bisogna accontentarsi, meglio così. I laghi Tamblingen, Buyan e Bratan e Bedugul hanno un che di familiare e di semplice che vien proprio voglia di praticarli un po’. Scelgo il primo, il più piccolo, il meno accessibile, il meno frequentato. E penso di non sbagliarmi, non solo per il suo accreditamento geografico: il lago Tamblingan.
Vi si arriva
percorrendo una di quelle stradine asfaltate ripidissime – spesso e volentieri
oltre il 20 per cento – a cui il viaggiatore balinese fa presto il callo. Ed è
una buona preparazione, quella di scendere in tre chilometri i circa 300 metri di dislivello
che separano la costa della montagna dallo specchio d’acqua. La vegetazione è
lussureggiante, i chiodi di garofano stesi ad essiccare profumano l’aria, i
tempietti sono tutti cinti dal drappo rituale e con offerte fresche fresche
dinanzi a loro, l’incenso acceso, i fiori arancione e qualche frutto.
Una sorta di
cooperativa riunisce coloro che lavorano nel parco naturale del lago. È con
loro e solo con loro che ci si può avventurare nelle foreste e nello specchio
d’acqua. Non nego una certa iniziale ritrosia ad accettare tale imposizione, ma
non c’è nulla da fare e le facce buone e sorridenti dei ragazzi mi fanno
accettare di buon grado. Arit, questo il nome del mio accompagnatore, mi
porterà in un breve cammino nella foresta di un’ora circa, per poi tornare
insieme con una delle canoe tipiche della zona. Il tutto per una dozzina di
dollari. È piccolo, Arit, pare un adolescente, anche se ha 24 anni ed una
figlia. Parla un inglese stentato, senza vocali, ma ci si capirà sempre meglio
nel corso della convivenza. Che nella foresta permette di ammirare una
vegetazione esuberante, che segmenta la luce per poi moltiplicarla, rilanciandola,
raffinandola. Alberi giganteschi si ergono maestosi trascinando con sé verso
l’alto piante parassite di dimensioni più che ragguardevoli. Prati di felci si
divertono a solleticare il gusto estetico di chi li fende, come uno specchio
d’acqua, creando flessuosi cerchi concentrici. La foresta, insomma. Dopo 40
minuti, ecco l’avvisaglia del tempio che è la nostra meta, il Pura Dalem Gubug:
d’improvviso nella boscaglia appaiono inusitati una dozzina di ombrelli bianchi
e gialli, i colori sacri (anche) da queste parti. Visione divertente, oltre che
insolita. E poi il tempio, modesto e a pelo d’acqua: fino ad un mese fa era
inondato per via delle grandi piogge di febbraio e marzo. È in questi frangenti
che Arit mi racconta il dramma della sua famiglia: da tre mesi vivono sotto delle
tende portate dalla protezione civile indonesiana, dopo un mese trascorso
semplicemente nella foresta, perché il villaggio è stato anch’esso invaso dalle
acque: Tamblingan non è ancora praticabile.
Ma si riparte,
verso la pagoda a undici livelli, modesta ma ben tenuta, che s’erge su un
promontorio al centro del lago di Tamblingen. Elegante, bella, protetta da due
ombrelli bianchi ad Occidente e da due gialli ad Oriente. Una breve sosta, il
tempo per Arit di raccontarmi della sua famiglia, povera al limite della
miseria. Poi scendiamo il promontorio verso la pagaia, doppia pagaia in realtà,
che ci porterà a destinazione. Al comando c’è una giovane donna, una dei 32
abitanti di Tamblingan. In mezz’ora di grande calma attraversiamo il lago,
dirigendoci proprio verso il villaggio di Arit che si fregia di un tempio a suo
modo imponente, ora un’isola ma non sempre lo è, con tre pagode a undici
livelli che impressionano non poco. E, alla loro ombra, ecco le case del
villaggio, un informe conglomerato di legno, bambù, plastica e lamiera, brutto
e precario. Dietro di esso, sotto i primi alberi, spiccano i colori sgargianti
ed elettrici delle tende della protezione civile, nelle quali l’intero
villaggio s’è trasferito: ordinato e a suo modo pulito. Ci sono tante gabbie di
uccelli multicolori, che rallegrano l’aria e l’ambiente, e qualche vecchio e
qualche giovane, e la madre e la figlia di Arit, e una loro dolcissima amica, e
suo fratello che sogna una moto, mentre la moglie di Arit è al lavoro, non si
capisce dove. A Tamblingan la vita scorre in fondo come prima, in mezzo alla
natura. E forse i letti da campo della protezione civile indonesiana sono più
comodi di quelli vetusti che i 32 abitanti avevano nelle loro case in riva al
lago. Tornando verso l’auto m’accorgo che i campi, tutti i campi, sono
coltivati a fiori. Per le offerte votive.
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