Diario da Piazza
Maidan/2 - Fa sera e fa freddo. Ma le migliaia di giovani rivoluzionari non hanno abbandonato le loro tende. Un mausoleo a cielo aperto, ormai.
Quando si osservano dal vivo scene già viste in tv o sul
computer, si prova la strana sensazione di vedere cose già conosciute ma si
capisce nello stesso tempo che non si è capito assolutamente nulla scorgendo
qualche fuggitiva immagine sugli schermi. Sarà che i cinque sensi vengono tutti
messi in moto, e non solo la vista e l’udito, sarà che la visuale spazia a 360
gradi e non è limitata dal rettangolo digitale; fatto sta che l’impressione è
di quelle che rimangono. Provo sensazioni simili a quelle provate a Piazza
Tahrir, o nella scuola di Beslan, o ancora in Kosovo. Dove il sangue è stato
versato, dove la guerra ha imperversato, la Storia s’è fatta.
Arrivo a Piazza Maidan che la sera è già scesa. Fa freddo,
siamo sotto lo zero. Nelle strade del potere, a ridosso della piazza, si vive
in un’atmosfera surreale di silenzio, quasi assenti le macchine, di poliziotti
non c’è nemmeno l’ombra. Dinanzi alla Banca centrale e al Palazzo del governo
staziona un soldatino e poco oltre brucia il fuoco acceso nei bidoni di lamiera
dalle originali milizie, espressione dei giovani di Piazza Maidan. S’ascoltano
le notizie provenienti dalla Crimea, le mosse di Putin e dell’esiliato
Yanukovich vengono ancora tenute in grande considerazione, non si dimenticano
facilmente cento morti. Scendo verso la piazza.
Ecco i luoghi dove sono stati ammazzati i primi giovani,
colpiti dai cecchini appostati sui tetti degli edifici del governo più che
dalle forze dell’ordine. Ovunque lumini accesi e fiori deposti, a delimitare in
qualche modo le barricate costituite da ogni sorta di suppellettili, frigo in
disuso, sacchi di pietrisco, neve congelata, travi di legno, blocchi di
cemento, stracci, vecchie valigie, mobilio riciclato, pneumatici in quantità.
Le tende dei giovani di Maidan sono ben rizzate, ognuna con la propria stufa,
con la propria protezione, con mobilio sommario.
Qui i giovani sono installati da novembre, da qui hanno con la
loro determinazione portato alla caduta del presidente, ed hanno messo in
discussione l’accordo col grande fratello di Mosca. Davide contro Golia,
indubbiamente, il mito biblico resiste e raddoppia. Ancora una volta. C’è
ingenuità, certamente, c’è il rischio di colpi di coda dell’avversario, le
elezioni del 25 maggio, promesse dal nuovo presidente ad interim, Turcinov,
amico di lunga data della Tymoshenko appena liberata, non sono vinte perché il
Paese è comunque e in ogni caso spaccato in due. La memoria delle altre
rivoluzioni, ultima quella di Yushenko del 2004, è presente ed in qualche modo
potrebbe scoraggiare i giovani di Maidan, visto che è fallita, o quasi; ma al
contrario questa folla non sembra decisa a mollare d’un centimetro,
fertilizzata dal sangue dei martiri.
Martiri che appaiono sulle foto affisse in mille modi in ogni
angolo della piazza e dei dintorni, anche se si concentrano nei luoghi precisi
in cui quei dati giovani sono stati ammazzati dai cecchini o dalle forze di
polizia. Ad onorare la loro memoria ora non ci sono solo i giovani ma il
popolo, le famiglie, i papà che vengono dalla campagna e che vogliono mostrare
ai loro piccoli le foto dei martiri, perché l’Ucraina forgia la sua identità
sui martiri.
Fa freddo, ci si trattiene attorno ai falò, si bevono bevande
calde offerte dai Cavalieri di Malta, dalla Croce Rossa, da volontari d’ogni
genere. Scorgo una donnetta anziana che versa dal suo thermos una bevanda
lattiginosa che va a ruba tra i giovanetti della piazza, c’è dell’alcol in
quell’intruglio. Si sta, nel luogo della battaglia, nel luogo della vittoria. Al
centro della piazza, su un palco, s’alternano senza soluzione di continuità, le
testimonianze relative ai morti, ma anche vengono trasmessi i telegiornali, e
un militante della Crimea si issa fino al microfono invocando più volte il nome
della penisola nel Mar Nero chiedendo alla folla di ripeterlo, in un mantra
salvifico, e forse anche scaramantico. Si dice che i russi stiano per intervenire
laggiù, c’è timore diffuso. E determinazione.
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