Diario da Piazza Maidan/4 - Giornata calma a Kiev, la frenesia della Crimea è lontana. Per cercare di capire la "rivoluzione della dignità" bisogna entrare in una chiesa ucraina...
Messa domenicale nella chiesa greco-cattolica di San Nicola,
appena sotto la stazione della metropolitana Arsenalna, che dicono conducesse a
tunnel segreti della presidenza, tra piazza Maidan e il Lavra. C’è nebbia,
pioviggina, l’umidità penetra nelle ossa. La chiesa è immersa nel grande parco
che scende verso il Dniepr, il fiume grande e largo e grasso d’acqua che fa
parte dell’identità stessa nazionale, di Kiev in particolare. La larga strada
asfaltata che porta alla chiesetta color giallo Maria Luigia è deserta, perché
non porta da nessuna parte, essendo ancora interrotta dalle barricate che
l’ostruiscono nei pressi dei palazzi del potere. Qui i ragazzi delle associazioni ortodosse radicali sono
venuti nei giorni scorsi in corteo pretendendo che la chiesetta fosse restituita
al popolo. In realtà lo è già, del popolo, perché appartiene allo Stato che
l’ha concessa in uso alla Chiesa greco-ortodossa, che tra l’altro soffre di
cronica mancanza di luoghi di culto, eredità delle catacombe sotto Stalin. I
beni ecclesiastici sono stati concessi dopo la caduta del muro di Berlino alle
Chiese ortodosse… Qui, tra l’altro, è passato Giovanni Paolo II, appena
arrivato a Kiev, per pregare sulla strada che dall’aeroporto arriva al centro
del potere. I ragazzi di Maidan erano invece scesi quaggiù perché accanto alla chiesa
si erge il monumento a ricordo dei 33 ragazzi ucraini che si sacrificarono fino
alla morte per difendere l’effimera indipendenza del Paese, era il 1918. Il
monumento, ben curato, non rende ragione del sangue giovane versato, ma ha un
potente potere evocativo in tutti i giovani di piazza Maidan, che hanno pagato
un tributo di sangue ancora maggiore, per la libertà e la giustizia. Per la
dignità.
Comincia la cerimonia. Abbondanti aspersioni di incenso con un
turibolo fornito di campanelle. Iconostasi che separa i preti dal popolo.
Fedeli che stanno in piedi, strettissimi. Cori potenti e delicati, evocatori di
grandi dolori e di indistruttibili speranze. Affreschi d’inizio secolo scorso,
ridipinti a causa d’un incendio di una dozzina d’anni fa, con figure angeliche
(ma barbute) che osservano i fedeli da ogni dove con la gloria promessa che
pare tanto distante dal presente incerto, senza un “padre” che dia sicurezza.
Molti dei ministri del nuovo governo sono greco-cattolici, a partire dal
premier Yatsenjuk, in massima parte provenienti dall’Ovest del Paese, troppi
per non infastidire Mosca e i filo-russi ucraini. Tra i fedeli c’è un certo
orgoglio nazionalista, più che evidente nei gesti e nelle parole, anche se
accompagnato da un velo d’inquietudine e di paura (vetero-comuniste forse). Che
succederà? Qualcuno guarda lo smartphone
che parla dei 15 mila soldati russi già in Ucraina, della guerra fredda tra Usa
e Russia, della risposta del parlamento ucraino riunito in seduta d’emergenza,
delle rivolte nell’Est del Paese… Gli alleluia ripetuti paiono evocazioni della
benedizione del Cielo, affinché si faccia benedizione anche della politica.
La chiesa si riempie, non c’è più un centimetro quadrato
disponibile, la preghiera è intensa. Le note dei canti e degli inni paiono
voler sublimare le preoccupazioni del presente, portando al cielo la preghiera
che i fedeli scrivono all’entrata su foglietti di carta. Le voci potenti ma
vagamente stridule dei quattro celebranti si risolvono immancabilmente
nell’armonia del coro, che trasforma ogni debolezza umana, ogni imperfezione,
così almeno sembra. Negli sguardi si legge la disillusione, mista alla speranza
d’un nuovo corso che non vuole morire. L’ingenuità di fronte alla menzogna
appare la vera cifra di questo passaggio storico dell’Ucraina. Tutti stanno in
piedi stoicamente, lungo la cerimonia che s’allunga col ritmo classico delle
Chiese d’Oriente, nelle ore. Il prete giovane, deciso e nel contempo mite, ha
il nome dell’arcangelo Michele, dice nell’omelia: «Serve perdono, serve
solidarietà, serve la forza di fronte all’avversità, bisogna sostenere i
giovani di piazza Maidan». E qualche lacrima spunta sui volti delle donne più
belle dell’Est dell’Europa, sangue misto scandinavo, slavo e chissà cosa d’altro,
miracolo del meticciato europeo. Dal battesimo della Rus’, origine della stessa
Russia – non solo di Mosca, non solo ortodossa, non solo uralica –, Kiev ha una
sorta di primazia sull’intero Est europeo, che lo zar Putin non vuole certo
perdere, a nessun prezzo.
L’ascolto è denso, profondo, sincero. C’è la volontà e c’è la
pietà. C’è forse l’amore. Per la patria ucraina, senza dubbio, per i ragazzi di
Maidan senza dubbio, per la
Chiesa ovviamente, per i nemici… non so, credo proprio di no.
Una fede cristiana in via di risoluzione escatologica, insomma, visto che la
rivoluzione appare quasi profetica. Escatologia che si esprime nel salmodiare
monotono della preghiera del prete, interminabile, che si risolve solo nel
momento dell’esasperazione dell’udito nella gloria della polifonia orientale.
Poca gente esce dalla chiesa, come sarebbe naturale da queste parti. Oggi ci si
sacrifica per i ragazzi di Maidan e perché “il Dio” illumini la mente e il
cuore dei potenti. Anche di Putin. Ho appreso a questa cerimonia una lezione
importante: non si può spiegare Maidan senza penetrare nell’anima religiosa di
questo popolo, così come si esprime nella liturgia della domenica. Anche gli
ortodossi-atei, forse la maggioranza del Paese, hanno una fede. Nazionalistica.
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