Val Badia, terra ladina, luogo d’orchi e di fate, piccole
leggende e grande storia, di santi (molti) e dannati (pochi). Capito alla messa
domenicale che le campane son già silenziose, la chiesa è piena e i fedeli sono
costretti a seguire la celebrazione dal camposanto che circonda la chiesa, un
giardino per lacrimanti, devoti e filosofi. Tombe curatissime, nessuna esclusa.
Leggo nomi che svelano un popolo: Palfrader, Castlunger o Kastulunger o ancora
Costalunga, Complojer-Rimcać, Kost,
Obijes, Ties, Pescoller dal Jablen… Un fiore fresco non manca mai su queste
tombe.
Mi ritrovo anch’io in questo piccolo camposanto che attornia
la chiesa parrocchiale, decorata a motivi barocchi teutonici ad opera dei bavaresi
Franz Singer e Mathhäus Günther che rende chiaro anche ciò che è oscuro. Bello anche
ciò che è sgradevole o dozzinale alla vista… Lo sguardo non può che spaziare
sui rilievi che attorniano la valle, che la creano, a 360 gradi. In dissolvenza
– due, tre, quattro livelli – s’ergono monti verdi e dolci, ricoperti di prati
pettinati e di boschi spazzolati, punteggiati qua e là di masi bruni e bianchi,
luoghi di lavoro più che altro, ma spesso anche di dimora. Un incanto, qualcuno
dice un presepio naturale. Uno spicchio di paradiso terrestre, afferma un
secondo valligiano, perché sì, in Paradiso, quello celeste, ci saranno proprio
questi prati e questi boschi, questi abitati così umani e così incantevoli,
almeno dall’esterno.
Mi diverto a percorrere con lo sguardo le creste dei rilievi,
ad uno ad uno, e poi passando dall’una all’altra là dove s’incrociano creando
geometrie che paiono perfette. Poi le vette rocciose, il Piz de Peres, Munt de
Senes, Croda del becco, eleganti e nel contempo ardite, atte ad incutere timore
e riverenza, anch’esse opera di una fantasia che supera ogni umana facoltà,
proprio per dare all’uomo la forza di superasi e di sfidare l’impossibile.
Ancora, lo sguardo passa senza soluzione di continuità all’abitato che circonda
la chiesa, legno e intonaco decorato, candido candido (non per niente, oltre
questi rilievi, si trova il borgo di San Candido!) e decorato da tocchi vivaci
a carattere essenzialmente floreale.
Lo sguardo dai masi, dai prati, dalle rocce, dalle decorazioni
floreali scende regolarmente alle tombe e ai fiori che le decorano, per poi
risalire e ridiscendere e risalire ancora. Tutto passa: l’uomo e la sua vita
più rapidamente dei masi, e i masi più rapidamente delle chiese, e le chiese
più dei boschi, e i boschi più delle rocce. Come conservare questo paradiso?
Come renderlo eterno, un paradiso eterno e non un effimero anticipo di
paradiso? Tra cent’anni le bellezze silvane e rurali saranno eliminate da un
immenso comprensorio di risalite meccaniche? Oppure i masi collasseranno perché
nessuno riterrà utile e profittevole continuare a falciare i prati attorno a
San Vigilio? O, chissà, tutta la cittadina sarà trasformata in un immenso
ClubMed, un resort di lusso
ipetecnologizzato? Difficile pensare il futuro di questo squarcio di paradiso
(o di Paradiso, con la maiuscola?). Mi consola solamente sapere – credere,
piuttosto – che i Kost, i Ties, i Kastlunger si stanno occupando della faccenda
dal loro paradiso reale. Che è qui, che è altrove, che è lassù e quaggiù. A San
Vigilio di Marebbe.
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