Nell’Alta Val Badia i paeselli che contrappuntano la verde e
liscia superficie dei prati paiono aggrappati a rocce che non esistono,
inerpicati su pendii dove s’immaginano solo capre al pascolo, al punto che
paiono voler sfidare la legge di gravità. Le profonde vallate che si dipartono
dalla valle-madre paiono volerla imitare, o perlomeno accompagnare
mimeticamente.
Appena oltre l’origine della valle di Marebbe, Rina
s’arrampica sul costone erboso e boscoso con una caparbia che stupisce non
poco. Da Longega, l’incrocio tra le valli, alzando lo sguardo si nota solo la
punta di un campanile che pare voler sfidare ogni equilibrio: è piccolo, lo si
nota, ma pare immensamente alto. Quattrocento metri più in alto.
La gente di Rina è fatta come questo campani letto. Sta,
mantiene l’equilibrio, guarda su e guarda giù senza tema, rastrella su pendii
che paiono quasi verticali, porta al pascolo mucche che non soffrono certo di
vertigini, sfrutta ogni minimo scalino presente naturalmente sui prati e nei
boschi per organizzare la vita sociale. La gente di Rina è riuscita a trovare
il modo di realizzare persino un campetto di calcio!
Ed è proprio dal campetto di calcio che parte la strada
bianca che conduce alla malga di Rina, attraversando boschi che invitano a
raccogliere funghi e ad appostarsi per cogliere l’attimo fuggente del volo d’un
gallo cedrone, l’animale più mitico della zona. Sotto la malga, a un paio di
centinaio di metri di dislivello, gli amici Resi e Giovanni – ladini al 100 per
cento, lui indigeno, lei di Pedraces, venti chilometri più a nord nella Val
Badia – ci invitano nella loro di malga, una baita, un fienile piuttosto. È
recente, è stato costruito tre anni fa da Giovanni con la collaborazione dei
carpentieri della valle. Una piccola costruzione lignea – 5 metri per 8 – dove
stipare il fieno per le bestie e dove trascorrere qualche domenica tranquilla
senza lavoro. Il maso è ospitato in un pianoro poco più grande della
costruzione stessa, mentre la pendenza del prato è vertiginosa. Una terrazza,
da cui si possono osservare le montagne della Val Badia, ma con lo sguardo che
scivola felice oltre il confine austriaco, e verso le Dolomiti ampezzane, si
scorge la sagoma inconfondibile del Cristallo.
La grigliata è leggera e invitante, l’aria è tiepida, ma
quando il sole arriva si brucia di raggi diretti, prima che siano addomesticati
dallo smog. I sentimenti volano lontani, il ricordo emerge naturale, come se
risalisse dal fondo valle per venirsi a stabilire proprio qui, in questa
terrazza di terra sul declivio di terra. E il silenzio, signori, il silenzio.
Il vero sovrano della valle, un silenzio che parla e che sussurra, che grida e
che s’incapriccia, un silenzio che ha formato la gente del luogo, come Giovanni,
che distilla le sue parole come se ogni espressione verbale dovesse passare per
il filtro della verità, pena la vanità delle vanità. Il silenzio che, invece,
ha educato Resi alla leggerezza delle parole, che danzano dalla sua bocca alle
orecchie dell’ascoltatore come un minuetto dall’accento un po’ sincopato dei
ladini, ma gradevole come una musica leggera.
A Prè Rié – l’etimologia, dalle reminiscenze francofone non
estranee al ladino locale, parla di un prato solcato da lunghe canalette
parallele e verticali, atte a far scolare l’acqua oltre il prato, verso il
bosco, in modo da evitare che il terreno s’impaludisca – s’apprezza ogni
aspetto della vita, facendo attenzione che non scivoli giù per la valle.
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