lunedì 23 aprile 2012

Puerto El Triunfo, un caffè in mezzo al mare


Viaggio in Centroamerica/9 - Sul Pacifico, un tranquillo porticciolo salvadoregno che sprizza di colori e rumori. 

Quando il caldo è insopportabile, quale migliore idea di una gita sulla spiaggia? I miei amici di Usulután l’hanno avuta e così, all’alba del bollente mezzogiorno di queste parti, c’indirizziamo verso la vicina stazione turistica di Puerto El Triunfo, che sulla mia guida non merita nemmeno una citazione. Forse è un buon segno, non cadrò certo vittima dei tour operator.
Venti chilometri di una campagna potenzialmente ricca, ma assai disordinata, spesso e volentieri abbandonata: paradossalmente, in questi tempi di crisi internazionale il Salvador patisce di una forte crisi di maestranze agricole, al punto che è iniziata una forte immigrazione di contadini guatemaltechi, nicaraguensi e honduregni. S’attraversano borghi sporchi e bollenti, la gente staziona all’ombra degli alberi sull’uscio di casa o sui gradini di accesso, mentre i bambini come sempre occupano lo spazio e il tempo inarrestabili, e gli animali avanzano al ritmo della natura, cioè sono quasi fermi, senza contare che le strade sono buche con un po’ d’asfalto in mezzo.
D’improvviso, si fa un po’ d’animazione attorno alla macchina: s’avvicinano i ben noti nugoli di ragazzini che offrono le loro liquide mercanzie agli automobilisti in sacchetti sigillati triangolari, qualche botteguccia vende improbabili prodotti alimentari, cominciano ad apparire i posteggiatori, prima ancora che si vedano i parcheggi. Finché appare la stazione balneare: de tettoie, peraltro ampie, sorrette da piloni verde pisello e giallo limone, mentre le tavole hanno tovaglie di plastica rosse e blu, le panchine sono dipinte di lillà e un piccolo parco gioiche è dipinto d’arcobaleno. Ci sistemiamo attorno a un tavolo, scoprendo contestualmente che gli spazi sotto le due tettoie sono rigidamente suddivisi tra sette ristoranti, ognuno dei quali ha le sue televisioni al plasma sintonizzate su programmi vari, senza far economia di decibel. Vi lascio perciò intendere la qualità fonica delle conversazioni, seppur gioiose e anche impegnate, coi miei amici. C’è in ogni caso mucha alegria.
Una gitarella in barca nel braccio di Pacifico antistante El Triunfo è quel che ci vuole per rinfrescarsi un po’ e ammirare l’intricatissima vegetazione delle isolette dirimpettaie. E per sorbire un buon caffè salvadoregno in un ristorante galleggiante nel quale avemmo dovuto mangiare, freschi e tranquilli. Ma va bene così, e poco importa che la barca sia tutta un rattoppo, instabile e con i parasole sfilacciati dal vento. Si sta bene assieme.

mercoledì 18 aprile 2012

El Ramate, come un coccodrillo

Viaggio in Centroamerica/8 - Luoghi di passaggio, dove il dettaglio non è mai importante se separato dall'insieme.

Si va verso da Flores Tikal, alla scoperta del più affascinante sito maya guatemalteco. Viaggiamo su un Toyota collettivo, costa poco ed è gradevole. Il paesaggio si muove attorno al lago Petén Itza’, tanto che la suggestione pare suggerire le forme di una qualche costruzione maya al di sotto di una qualsiasi collina. La vegetazione s’infittisce e s’ispessisce, assumendo la conformazione del mistero naturale. D’improvviso, all’altezza di El Ramate, stazione turistica di un certo peso, soprattutto per i guatemaltechi, meno per gli stranieri, ecco una vista del lago Petén Itza’, il terzo del Paese, pacifico e solare. La silhouette del rilievo montuoso pare un coccodrillo addormentato.

Gli abitati che s’attraversano paiono piuttosto anonimi e precari, se non francamente brutti, se non fosse che palmizi e buganvillea, gli accecanti colori, rendono i villaggi se non altri pittoreschi, magari con il corollario di una bianca chiesetta in colonial posticcio, coi gradini immacolati che vengono sporcati al primo passaggio d’una scarpa. Non si può dire che da queste parti vi siano coltivazioni sistematiche. Qua e là, questo sì, si scorge qualche estancia, le cui coltivazioni e i cui allevamenti restano tuttavia avvolti nel mistero, a parte qualche cavallo un po’ addormentato e qualche mucca francamente addormentata. E non mancano, anche qui, le chiese protestanti: Monte degli Ulivi, Chiesa di Emmaus, Congregazione dei santi e dei profeti: i nomi più fantasiosi.

Anche le strutture del Parco nazionale di Tikal, che comincia qui, paiono messe proprio male, ridotte spesso a cemento scarnificato e a qualche tettoia di legno e paglia. Non è facile vivere da queste parti, e ancor meno doveva esserlo ai tempi dei maya. Ma la natura è così prorompente che una certa euforia sembra prendere il cuore, oltre che la mente e l’anima.

giovedì 12 aprile 2012

Suchitoto, colonial, color e calor


Viaggio in America Centrale/7 - Una cittadina che appare la più bella esperienza urbanistica del Salvador.

Dicono sia la città più bella e suggestiva dell’intero Salvador. Non faccio fatica a crederlo, visto il disastro urbanistico e naturalistico, la poca cura per l’architettura che i salvadoregni solitamente manifestano. Ed è effettivamente così. Suchitoto (che significa “il luogo degli uccelli e dei fiori”) è una città bella, suggestiva, gradevole, persino civettuola. Con un non so che di triste, però.

Tutta la regione, in effetti, è stata vittima di catastrofi naturali e umane negli ultimi decenni: si pensi ai devastanti terremoti del 1853 e del 2002, o alla recente guerra civile che da queste parti ha mietuto vittime in misura straordinariamente elevata: era una roccaforte dei guerrillero, tanto che l’esercito lanciò centinaia di violente offensive, spesso assai prolungate, nella regione, sia da terra che dal cielo. Una villetta sulla strada per Suchitoto accoglie gli ospiti con un’enorme bomba verde e gialla piantata al suolo a far da guardia al cancello. E nel cerro al di là della valle la guerriglia era riuscita a scavare una città sotterranea, sul modello dei vietcong di Chu Chi. Sono ferite in ogni caso difficilmente rimarginabili, anche perché provocarono una spaventosa emigrazione dalla città, che negli anni Novanta si ritrovò praticamente deserta e distrutta. L’ombra della gloria che fu: nel 1528 era stata la capitale del Paese.

Fu allora che la buona volontà e l’orgoglio di un manipolo di irriducibili abitanti della cittadina, sostenuti da qualche autorità salvadoregna e da istituzioni pubbliche e private internazionali, Unesco in testa, hanno fatto il miracolo di far rinascere la cittadina di Suchitoto. Con non poca fatica e molta testardaggine. E buon gusto. Hanno così invitato artisti salvadoregni e forestieri a occupare gratuitamente le case abbandonate, con l’impegno di abitarle e restaurarle usufruendo di pubblici contributi. La città è così rinata, sta ancora rinascendo, sull’esempio della chiesa – tutta bianca e deliziosamente colonial, del XIX secolo –, che poco alla volta ritrova i suoi colori e le sue energie spirituali, anche se tutti gli altari laterali sono teche vuote, prive di statue e decorazioni. Come i ristoranti che riescono di nuovo ad attirare l’attenzione degli avventori, apparecchiando tavole di cotone coloratissimo nei cortili verdeggianti, seppur ancor oggi deliziosamente cadenti. Come gli artisti che, nei saloni restaurati delle più belle dimore della città, allestiscono mostre di tutto riguardo.

Così Suchitoto rinasce nei colori delle sue case, così arditi e sfacciati da far pensare che il caso abbia guidato gli architetti comunali. Nulla di più falso, i colori sono voluti, e sono antichi, le associazioni cromatiche non sono state inventate di recente.

C’è infine un lago, a Suchitoto, un bacino idroelettrico che porta un po’ di frescura in un luogo che fa bollire corpi e cervelli. Ma non al punto da impedire d’apprezzare un pilone della luce dipinto di verde e di viola su un marciapiede con il gradino dipinto di giallo!

lunedì 2 aprile 2012

Copán Ruinas, la lentezza delle pietre

Viaggio in America Centrale/6 - In Honduras, un villaggio "colonial" dove la fretta pare messa al bando.
Curioso: il sito maya più straordinario e visitato dell’Honduras ha assunto il nome di Copán, mentre il borgo colonial attiguo al parco archeologico ha assunto già nel secolo scorso il nome di Copán Ruinas, cioè “Rovine di Copán”. Forse per incrementare la capacità turistica del sito, anzi certamente; ma a me piace pensare che questo nome sia stato attribuito al borgo per sottolinearne la dimensione tranquillizzante della storia, la sua lentezza.

A cominciare dal ponticello che segue l’ingresso del borgo, che è lastricato di sassi – non di lastre di pietra o di pietre ben scompaginate, senza cioè alcuna volontà equilibratrice –, e costringe ad un’andatura assolutamente a passo d’uomo. E non è che il ponte sia un’eccezione: tutto il paese è lastricato allo stesso modo. Chi conduce a più di cinque-dieci chilometri all’ora rischia seriamente di mandare a quel paese le sospensioni, se non addirittura i semiassi.

C’è poi la temperatura che detta legge, costantemente sui 35 gradi, che invita alla calma, alla pausa prolungata, alla siesta, al descanso: basta far due passi nel Parque Central, dove nessuno cammina tranne il sottoscritto, perché tutti sono seduti sulle panchine, sui bordi delle aiuole, sui tavolini, per terra. Qualche bancarella vende frutta, gelati o souvenir, ma i venditori non hanno nessuna intenzione di spendere un po’ del loro fiato per attirare i clienti.

Entro in un ristorante, dove mi servono frittelle di mais secche con una crema di avocado, una delizia, assieme ad una buona birra locale, Imperial si chiama. Un ristorante aperto, senza finestre, ricoperto di ogni sorta di targa, statuetta, dipinto, copricapo, strumento musicale… Un bailamme gradevolissimo. Tutto va lento, anche la musica… Fuori, un uomo sta caricando il suo cavallo, all’ombra ovviamente, con una tranquillità che sfiora la stasi. Nel ristorante d’improvviso trasmettono la telecronaca di Salvador-Honduras, decisiva per la qualificazione alle olimpiadi. I telecronisti paiono assatanati, mentre gli avventori del bar al contrario sembrano prendere con estrema filosofia anche i gol della nazionale avversaria.

Torno nel Parque Central, entro nella chiesa colonial. C’è una frescura appena accennata, c’è gente che prega. O che dorme? Poco importa. La preghiera può essere composta anche dei sonni del giusto!