lunedì 27 gennaio 2014

Giornata della memoria a Kiev



Congiungendo la ricorrenza che ci riporta alla Shoah e la violenta contestazione ucraina, riporto le note di una visita a Babyn Yar, il dirupo dell’abominio, a Kiev (2009).

Mattinata capricciosa, che si diverte ad alternare ventate d’aria settentrionale, pungente non c’è che dire, a squarci assolati di luce pura. Mi sveglio di buon’ora. La città dorme ancora, è domenica, l’ideale per una passeggiata, come si dice, corroborante. Passo dinanzi ai capolavori dell’architettura sacra ucraina, che a tratti brillano soprannaturalmente, mentre l’Opera e la Porta d’oro paiono invece tristi e disertate. I caffè stentano ad aprire. Prendo un paio di stazioni di metropolitana, così simile a quella di Mosca, così ardita nello scendere in profondità con scale mobili che fanno paura, inusitate per le nostre città dell’Europa occidentale. La gente seduta sulle panchine di legno dei vagoni dorme ancora, ha lo sguardo perso di chi ha bevuto troppo o di chi, al contrario, ha dovuto sopportare coloro che il gomito l’hanno alzato troppo. Emergo dal sottosuolo ai piedi dell’antenna televisiva della tv nazionale ucraina, una delle più alte dell’Est europeo, è in ogni caso l’edificio più elevato di tutto il Paese. Brutta antenna senza alcun dubbio, e nemmeno tanto utile, come dicono gli abitanti di Kiev. La tivù la si vede sempre male.
La meta del mio peregrinare domenicale è un semplice candelabro di bronzo, quello ebraico a sette braccia, una menorah. È stato eretto a spese della comunità ebraica, sulla collinetta dove venne commesso uno degli atti più efferati della Shoah. I monumenti ufficiali il governo comunista ha voluto costruirli lontano da qui, senza nominare nemmeno il popolo ebraico. Da tempo volevo recarmi quassù, da quando m’era capitato d’ascoltare alla radio alcuni struggenti passaggi di una composizione sinfonica di cui al momento non conoscevo l’autore. Le note profonde dei violoncelli e dei contrabbassi s’alternavano alle voci d’un coro di sole voci maschili: tenori, controtenori e bassi. M’era sembrato di cogliere in quelle note qualcosa di simile al male assoluto e alla sofferenza dell’innocente. Inquietante. Sì, m’ero reso conto che quelle note mi portavano lentamente verso Oriente, nelle terre slave. Qualcosa mi diceva che Mussorskij, Rimsi-Korsakov, Silvestrov e Pärt non erano lontani. Il concerto finì, e lo speaker annunciò il nome della sinfonia e il suo autore: Babyn Yar di Vladimir Shostakovich. Mi recai quella sera stessa a comprare la registrazione della sinfonia, che trovai solo in una vecchissima edizione diretta proprio dall’autore. L’ascoltai per alcuni giorni, cercando di informarmi sulla tragedia che quella musica aveva voluto rappresentare, e di cui mi sovvenivo molto vagamente per un racconto che mio nonno Amos ne aveva fatto in una sera d’inverno particolarmente brumosa.
M’avvicino accompagnato dalla corsa di rari mattinieri, tra cui noto una maggioranza di ragazze filiformi. Qualche vecchietto porta a spasso i suoi impertinenti cani, mentre due o tre giovanotti smaltiscono le loro sbornie notturne sulle panchine del parco, che stilla primavera da ogni foglia. Eppure nell’aria mi sembra di cogliere un insolito senso di rispetto, quasi una composta meditazione mattutina. Una preghiera che non riesce a trovare formule adeguate oltre al silenzio. Nessuna indicazione m’aiuta nella ricerca del luogo della strage; solo col contributo dei passanti riesco a individuare la collinetta di Bayn Yar e la menorah costruitasul suo culmine. Anzi, intuisco i sette bracci del candelabro ancor prima di vederli, perché una nenia votiva ebraica rompe il silenzio del parco e il sottofondo del traffico lontano, attutito dal fogliame. Non scorgo nessuno, la nenia è avvolta nelle frasche del bosco. Ma c’è, come c’è la memoria dei 34 mila trucidati in quel 29 settembre 1941, correva la festa di Michele e degli altri arcangeli, figure bibliche. I nazisti radunarono qui i 34 mila ebrei residenti a Kiev, e in 48 ore gli eliminarono tutti, uno alla volta, gettando poi i loro corpi nel burrone. Non contenti del misfatto, in questo bosco costruirono un vero e proprio campo di concentramento chiamato Syrets (dal nome del quartiere). Della vicenda si seppe all’estero solo dopo la fine della guerra. Qui furono trucidati anche rom, cristiani, partigiani e persino i calciatori della Dinamo Kiev che non avevano voluto perdere contro le squadre dell’esercito occupante.
Il modesto monumento appare ancora più modesto perché il piedistallo – gradini poco profondi e poco alti rivestiti di mattonelle dozzinali – è in stato pietoso. Ma sulle maioliche divelte dal freddo e dall’incuria spiccano decine e decine di lumini spenti, usati nottetempo da chissà chi. Sono 500 mila gli ebrei in Ucraina, la quarta comunità al mondo, mai dimenticarlo. Cerco poi il burrone. Mi pare di individuarlo in una ripida discesa erbosa che conduce ad un campo di calcio sterrato, tanto più che è proprio laggiù che scorgo una decina di giovanotti ebrei che salmodiano movendo aritmicamente il corpo: capisco che era quella l’origine del canto che avevo udito nell’avvicinarmi. Fotografo da distanza il gruppo, quando mi rendo conto che un rabbino avanza nel lungo viale che conduce alla metropolitana. Cammina a passo deciso, si volta a destra e a manca. Ai piedi della menorah non si prosterna, non impreca, non fa nulla salvo alzare gli occhi e abbassarli, come ripetendo gestualmente l’interrogativo insoluto di Giobbe. Mi scorge, mi fa cenno di avvicinarmi. Mi chiede da dove venga, che cosa mi abbia spinto quassù. Roma evoca nei suoi meandri cerebrali il ricordo d’una vecchia zia, che lo fa sorridere almeno un po’. Poi mi prende per un braccio, quasi strattonandomi, e mi fa: «Non è sul campo di calcio che hanno ammazzato i miei fratelli. Lì ne hanno solo seppellita una parte. Qui dietro, invece, lo vedi quel frascame, ecco dietro c’è il burrone, l’abisso». Effettivamente la vegetazione nascondeva il salto naturale, che però francamente appare assai modesto. Continua il rabbino: «I cadaveri che giacevano laggiù una volta trucidati divennero così tanti che il fosso stesso scomparve. Era 34 mila, un quartiere intero di Kiev». E si raccoglie di nuovo. Poi rialza e riabbassa lo sguardo, dicendomi: «È la sola forma di preghiera che riesce a calmarmi l’anima. Perché mi costringe a non dimenticare questa terra, guardando anche lassù, unico luogo dove cercare la speranza».

mercoledì 22 gennaio 2014

Anse Caffard, schiavi a mare



In Martinica, un memoriale ricorda la morte di 46 schiavi nello schianto di un veliero contro gli scogli

La punta rocciosa che delimita a Ovest la baia di Diamant, protendendosi verso quel Rocher du Diamant che è uno dei maggiori paradisi subacquei dell’intera Martinica, è stato testimone di un fatto di cronaca emblematico dell’intera politica schiavista dei nostri bravi Paesi europei colonizzatori. In effetti l’8 aprile 1830, verso mezzogiorno, un veliero fa strane manovre nei pressi dello Scoglio del Diamante, dinanzi alla baia chiamata Anse Caffard. Alle 5 del pomeriggio getta l’ancora nella pericolosissima baia. Un abitante, François Dizac, che gestiva la proprietà del conte di Latournelle, si rende conto del pericolo che corre la nave, ma un’onda anomala gli impedisce di avvicinarsi al veliero con la sua piroga. Cerca di segnalare comunque il pericolo, anche se il comandante sembra ignorare ogni avvertimento. Alle 23 dei sinistri scricchiolii si fanno udire nella notte. Dizac si reca coi suoi schiavi sulla spiaggia e scopre sugli scogli i resti del veliero, una visione orribile, perché decine di persone sono morti o feriti. 46 morti e 86 sopravvissuti, tutti africani, tutti schiavi. Una tragedia dello schiavismo, dunque.
A ricordo della drammatica vicenda, recentemente è stato eretto una sorta di memoriale estremamente evocativo e impressionante nelle sue dimensioni. Si tratta di 15 enormi statue di schiavi di cui dalla terra emerge solo il busto e il capo, realizzati in pietra bianca, che guardano verso il mare in direzione del Cap 110, il luogo più evocativo della stagione schiavista, perché da lì partivano i poveri africani catturati per fungere da maestranze gratuite o quasi oltre l’Atlantico. Guardano innanzi, con gli occhi vuoti di chi ha subito l’abominio, ma anche con la testarda volontà di reagire all’assurdità. Di fronte al sito, che non cesso di fotografare per il grande pathos che da esso emana, così come per l’enorme forza dei colori di queste terre e di questi mari, che il bianco delle statue sottolinea in modo particolare. Anche in questo luogo, ignorato da tutte le guide turistiche, ma estremamente atto a spiegare l’ingiustizia storica di tanta, troppa Europa, non si può non sperare che tutti coloro che continuano a fare il bagno in questi mari troppo spesso colorati di sangue possano visitare questo luogo. Una questione di coscienza.

giovedì 16 gennaio 2014

Jardin de Balata, l’euforia della natura



Martinica, un orto botanico che risveglia ricordi d'arte

Nella lunga tournée caraibica ho potuto visitare tre o quattro giardini botanici, in particolare a Dominica e a St Lucia. Spettacoli straordinari di una natura semplicemente troppo esuberante per essere piegata al volere paesaggistico dell’architetto-botanico di turno; quindi giardini che “trattengono” l’eccesso della natura per renderne possibile una più profonda comprensione e ammirazione. Non è con eccessivo entusiasmo che mi appresto quindi a visitare il “carissimo” (15 euro) Jardin de Balata, nel cuore della Martinica, più che pubblicizzato in ogni dépliant turistico. M’aspetto quindi qualcosa “di plastica”, a uso e consumo dei turisti di crociera, o qualcosa di simile. E mi devo ricredere.
Sin dalla prima immagine che ammiro protetto dalla tettoia del centro informativo: una dozzina di colibrì che becchettano in una minuscola mangiatoia. Ho l’impressione che il luogo sia abitato dalla grazia. Piove, poco male, non c’è quasi nessuno e le foglie rilucono d’umidità. Giro lo sguardo e mi trovo un ciuffo di palme perfettamente potate e pettinate che paiono una miniatura ottomana. Un altro sguardo e trovo un bosco di ibiscus assolutamente simile a un dipinto di Monet. Ancora qualche passo e le bromeliacee che spuntano dai propri stessi tronchi, rosse gialle verdi, danno il senso dei giorni della creazione, quasi un dipinto di Klimt. Perdo mezz’ora a fotografare i palmizi che mi rimandano alla perfezione dei paesaggi di un Giorgione, oppure, perché no, alle copertine degli album degli Yes, quelli di Roger Dean. I bambù di tutte le taglie invitano all’elasticità ma nella esattezza estetica di un Piero della Francesca, nientemeno, persino le prospettive vengono ingannate dalla bellezza.
Mi dedico persino a una passeggiata sugli alberi, percorrendo passerelle mobili e ondeggianti che danno paura ed entusiasmo nel contempo, ed ho l’impressione di tuffarmi in quadri e visioni di un Corot e di un Tintoretto congiunti! Follie mentali, ma certamente frutto della grande vena artistica di colui che ha dato origine a questi giardini perfetti, Jean-Philippe Thoze, che si definiva un coloriste de la nature, un compositeur botanique! Meno male che s’è dato da fare, a Balata.

venerdì 10 gennaio 2014

Saint-Pierre, la moderna Pompei



Martinica. L'antica capitale spazzata via da una terribile eruzione vulcanica della Montagne Pelée, nel 1902. Una città che alterna rovine a edifici rinnovati.

Era il 1902, mese di maggio, giorno 8. C’erano le elezioni in Martinica e i politici al potere temevano che nella regione della capitale Saint-Pierre la gente se ne andasse senza ottemperare al primo diritto-dovere del cittadino: votare. Eppure il vulcano conosciuto come Montagne Pelée, ombra nera sopra la città, da qualche settimana dava segni inquietanti di un’attività magmatica e tellurica imponente: cenere e lapilli venivano eruttati da giorni, senza che arrivassero sulla capitale, distante una dozzina di chilometri in linea d’aria dalla cima del vulcano. La gente era spaventata assai, c’erano stati decine di casi di avvelenamento da morsi di vipere, qualcuno c’era pure restato, a memoria d’uomo non ce n’erano stati di così rtavvicinati in precedenza. E poi, che dire di quelle turbe di animali della foresta che scendevano a valle e poi si dirigevano a Sud, con non poco strepito, polvere sollevata al passaggio e trambusto? Alla fine accadde, alle 8 di mattina: il vulcano riversò la sua onda d’urto di cenere, lapilli incandescenti e gas che portò la morte praticamente a tutta la popolazione di Saint-Pierre, che non ebbe nemmeno il tempo di pensare ad una qualche fuga. Pochi minuti furono sufficienti per togliere la vita alla capitale. I danni materiali furono enormi – il fuoco invase tutta la città –, ma minori di quelli umani. Sopravvissero, almeno sembra, solo tre uomini. Uno di essi, di nome Cyparis, era un prigioniero, seppellito in una cella d’isolamento che si rivelò salvatrice per lui.
Visitare a più di un secolo di distanza Saint-Pierre è operazione di memoria, non di archeologia. Si tratta di trovare le tracce della vita che fu spazzata via e poi confrontarle con la vita attuale, circa un quinto di quella che ferveva su questa costa caraibica della Martinica prima dell’eruzione. L’esercizio richiede una certa elasticità, ma merita, perché ci si accorge nell’oggi un po’ sbrindellato e nostalgico che, comunque, Saint-Pierre non è morta l’8 maggio 1902. È il teatro che impressiona più d’ogni altra rovina, sia per le sue dimensioni, sia perché è rimasta solo la pietra mentre il legno s’è volatilizzato in cenere. Le enormi scalinate d’accesso paiono così più che sproporzionate, paiono portare alla stupenda parete di vegetazione che s’erge immediatamente a ritroso del teatro, quasi verticale, pettinata alla sommità da un ciuffo di palme e di banani incantevoli. Se poi s’immaginano le bouganville che accompagnano la scalinata, si può capire la straordinaria forza evocativa di queste scalinate. E poi le prigioni attigue, dove si salvò Cyparus, gli avamposti dell’esercito francese, gli alloggi della gente comune, le cappelle, i ponti, i mercati, la borsa valori, il cimitero… Ogni luogo vive sostanzialmente dei gradini di accesso a questi resti privati della loro componente lignea, quindi della loro parte vitale. La base è rimasta, sottolineata da quei gradini che portano al nulla, che discendono dal nulla di rovine, dal redde rationem del fuoco. Fors’anche dal fuoco eterno, per coloro che non diedero ascolto asgli esperti per allertare la popolazione e permettere a tanta gente di mettersi in salvo.
Passeggio ancora, senza sosta, nel caldo umido, tra uno scroscio di pioggia e l’altro, tra un brillìo di sole e l’altro, tra un pensiero fumoso e uno di speranza, tra un buco e l’altro nell’abitato. L’eruzione della Montagne Pelée ha portato l’arte del buco, della mancanza, del nulla in questa città commerciante e vitale della Martinica coloniale. La kenosis ha fatto il suo ingresso portando il vuoto. Che ora i nuovi “sampietrini” stanno cercando di colmare. Con non pochi vuoti!