giovedì 28 aprile 2011

Huntsville, dove arrivò von Braun


La navetta Endeavour e lo Shuttle vanno in pensione. Visita alla città dove fu concepita la conquista Usa dello spazio.

In fondo è una piccola città della provincia statunitense, nel nord dell’Alabama,
sweet home, dolce casa, come recita una nota canzone. Eppure Huntsville ha una sua storia di enorme valore nel XX secolo, perché qui arrivò il più noto scienziato del nucleare negli anni Quaranta, che diventerà padre dell’atomica Usa, quel Wernher von Braun che era stato nazista ma che aveva abbandonato Hitler dopo essersi accorto della sua follia. Von Braun, cioè colui che seppe mettere in moto una virtuosa congrega di scienziati (virtuosa nel senso di creativa) che portò gli Stati Uniti a primeggiare in campo tecnologico, in particolare nel campo della ricerca spaziale. In questa città, che ancor oggi ha il più alto tasso di PhD, cioè di dottorati, degli Stati Uniti, sono stati inventati e costruiti – anche se poi venivano assemblati in altre sedi – tutti i principali razzi civili e militari fino agli anni Ottanta, persino quello che portò l’uomo sulla luna, lo straordinario Saturno V. Tutti con tecnologie che non conoscevano ancora la rivoluzione informatica e digitale, che rappresentavano capolavori di altissima ingegneria, coniugata con la straordinaria concretezza degli statunitensi. Poi arrivò l'informatica che cambiò anche il modo di andare nello spazio: Endeavour è una navicella tutta digitalizzata...

È un museo quello che si visita, un parco dove sono allineate le steli al dio della conquista, al dio del cielo raggiunto dalla terra. Sono steli bianche, atte a contenere propano e idrogeno liquido, propellenti per forzare la gravità terrestre e sfidare le stelle. I ragazzi e le ragazze in visita al museo assieme ai loro insegnanti paiono non interessarsene più di tanto, mentre si entusiasmano per una catapulta meccanica che li fa salire e scendere a rapidità elevatissima lungo una colonna d’acciaio. È il loro modo di interessarsi alla conquista del cielo, a partire da questa terra.

La lunga epopea della conquista dello spazio pare straordinariamente umana, soprattutto oggi, osservando in fondo il carattere artigianale di ognuno dei sei milioni di pezzi che contribuirono al completamento del Saturno V e dello Spacelab e delle navette Apollo. Geniali Stati Uniti, capaci delle massime punte di genio e delle convivialità più spinte. Giovanissimi professionisti della Nasa e di altri centri di ricerca, ingegneri e biologi e informatici. sono ovunque nella città. Qui esiste veramente la possibilità di crescere ancora giovani nelle proprie qualità professionali, ed esprimerle compiutamente. C’è brassage di razze, c’è libertà di espressione, c’è in qualche modo il senso del bene comune, l’identificazione in una bandiera, in un progetto, in una sfida. Qui stanno molto meglio di quanto non stiamo noi nella vecchissima Europa.

mercoledì 20 aprile 2011

La casa del figlio di Cristoforo Colombo



Santo Domingo, un trionfo di stile coloniale, ricco di vestigia che riportano indietro ai tempi della "scoperta".



Visita mattutina alla Casa di Colón, dove abitò il figlio di Cristoforo, Diego e della consorte, Doña María de Toledo. Una abitazione in stile gotico-Mudéjar, sul bordo della grande e asimmetrica Plaza España, abbacinata dal sole, mentre sullo sfondo sfilano i grandi bastimenti nel porto fluviale di Santo Domingo. Le due facciate, con sei arcate sovrapposte su due livelli, è di una perfezione totale, così come la pietra sapientemente restaurata trasmette il senso del tempo, della Spagna e dei Caraibi insieme, del mare e della terra, delle battaglie per la Conquista e quelle per la Giustizia.

La dimora, abitata per un secolo dalla famiglia Colón, venne poi abbandonata, e usata quindi come prigione, magazzino, discarica e infine cadde in rovina. Venne quindi restaurata in più riprese dagli anni Cinquanta. L’interno, apparentemente ricostruito con mobili e suppellettili d’epoca – alcuni dei quali sembrano essere realmente appartenuti alla famiglia Colón – trasmette un senso di eleganza, essenzialità ed esattezza delle scelte estetiche che la visita non può concentrarsi sul singolo pezzo d’arredamento, ma deve fare i conti con l’armonia dell’insieme.

Basta avere un po’ d’immaginazione e sostituire alle grandi navi da trasporto attraccate sui moli appena a ridosso della Casa di Colón dei galeoni lignei d’epoca, ed ecco che il miracolo della Conquista torna prepotente, un’epopea del genio umano. Ma non entriamo nel merito di chi ha conquistato chi. Diventeremmo ingiusti.

sabato 16 aprile 2011

Ouanamethe, la frontiera tra Terra e Marte


Il passaggio tra Haiti e la Repubblica Dominicana è uno choc. Nella stessa isola d'Hispaniola.


Dopo le quasi due ore di strada sterrata tra Savanetté – che mi accorgo, almeno sulla carta, essere a pochi chilometri dalla frontiera della Repubblica Dominicana –, dopo essere passati per un paesello chiamato Gens-de-Nantes, cioè “gente di Nantes” – l'amico deputato Larèche si precipita a spiegarmi che lì erano arrivati dei cittadini della città francese, appunto – giungiamo alla città capoluogo della regione di Ouanamethe (che la mia cartina chiama “Quanamethe”, con gran scandalo dei miei sei compagni di viaggio). Il nostro capo-accompagnatore, come già fatto in due-tre occasioni nel corso del tragitto, si ferma a parlare con uno sconosciuto che gli rimette una busta commerciale gialla, la stessa che gli avevano messo nelle mani gli altri interlocutori, dalla quale egli estrae un plichetto di documenti ricoperti di timbri, che l’onorevole consulta in pochi minuti, per poi sistemare la busta al di sopra dell’impolverato parasole.

Rispetto a Port-au-Prince e a Cap Haitien, Ouanamethe pare un piccolo e insignificante borgo di provincia, con poche decine di commerci e sparse bottegucce ambulanti, rare case a due livelli, pochissimi edifici pubblici, il solito distributore Total e un poliziotto che pare più indaffarato a conversare con le giovani passanti che a regolare il traffico. Al termine dell’abitato, d’improvviso si apre un vasto spazio sterrato, una terra di nessuno, su un limite del quale si ergono i muri bianchi e coronati da robuste spirali di filo spinato di una base dell’Onu. Alcuni grossi truck si riposano, anche se paiono ancora bollenti e impolverati di rosso. Poi, come spesso succede alle frontiere, d’improvviso si materializza l’inconfondibile incrostazione umana del “passaggio”, i pochi reali viaggiatori e i molti che vivono di questa rara specie umana.

Un ponte segna la frontiera, un ponte su un rigagnolo fetido e ridotto a una discarica. Brillano i cinque o sei elmetti celesti dei “caschi blu”, che qui sono uruguagi. Nella poverissima baracca della frontiera haitiana, il deputato ci mette il tempo di due strette di mano a farci apporre i tamponi del visto d’uscita. Non può però accompagnarci oltre il cancello che segna la frontiera, che pare la barriera di una villetta piccolo-borghese, scrostata e un po’ cigolante. Appena al di là, della gente indaffarata ci obbliga a compiere un’operazione poco consueta per una frontiera: lavarci le mani, per giunta da un rubinetto che lascia cadere poche gocce calde e marroni. Forse è il residuo di una profilassi anticolerica. Poi riusciamo a capire dove dobbiamo apporre il visto d’entrata, formalità sbrigata fortunatamente in pochi minuti di caos ordinato. E la frontiera si apre, la Repubblica Dominicana ci accoglie. E il mondo d’improvviso cambia. Nella stessa isola di Hispaniola, due mondi coesistono. Di qua la Terra, di là i marziani. O viceversa?

lunedì 11 aprile 2011

Straordinari nomi haitiani


Negozi e autobus a Port-au-Prince e in tutta l'isola caraibica dicono la fede di un popolo e la speranza di rinascita.


Lista di negozi, tradotti dal francese e, più raramente, dall’inglese, scritti sul mio taccuino tornando da Fondwa a Port-au-Prince: Tessuti Maria Maddalena; Mercato delle pulci Angelo Gabriele; Farmacia di Canaan; Cappella funeraria Pace di Dio; Cyber-Dio computer; Gloria a Dio prodotti alimentari; Lotto del Padre Abramo; Lotto La fede; Banca Visione divina; Lotto Uguaglianza; Avvocato Libertà; Foto San Pietro; Dentista La pazienza; Immagine di Dio, foto belle; Bevande Tutto è di Gesù; Affari Axel; Spiaggia Diaspora; Casa d’affari Annunciazione; Asilo Shekinah; Deposito Alleluia; Materiali Gesù alfa e omega; L’Eterno, prestiti per tutti; L’egoismo non è una qualità; Chincaglieria Fraternità; Un nuovo mondo, pompe funebri; La grazia di Dio, provviste alimentari; Deposito di legno Potenza di Dio; Hotel Talebani; Spiaggia Venesia Bellisimo; Acqua Miracolo; Deposito Immacolata Concezione; Villaggio della felicità; Panificio Shalom; Boutique Dio è più forte; Nel nome della Grande Sant’Anna; Piscina Josuè; Saponi Grazie Sant’Andrea; Benedizione alimentari; Deposito Aquila degli Ultimi Tempi; Servizio Principale Forza Divina; Negozio Il rispetto; Bevande la Volontà di Dio; San Tappo; Chincaglieria Adonai; Banca Vita eterna; Ristorante Adonai; Fornaio Figlio di Dio; Lotto Padre Eterno; Lotto Babbo Natale; Ovile del Buon Pastore Pneumatici… E trascrivo queste scritte tracciate sui parabrezza degli autobus: Dio è buono; Grazie Gesù; Salmo 23; Unione eterna; Dio vi ama; Dio che decide; Dio dirige; Cristo è la risposta; L’egoismo non è una qualità; Bontà e gioia; Oh My God!; Gesù Re; Saggezza di Dio; Cristo capace; Pieno potere; Cristo torna; Gesù dinanzi…

domenica 10 aprile 2011

Port-au-Prince, troppo


L'impatto con la capitale haitiana non lascia scampo.

Tornato finalmente a casa trafelato e madido di sudore, fatta una doccia liberatrice, mi accomodo su una poltrona del portico grande della casa degli oblati che mi ospita. Spira una leggera e fresca brezza, dopo un’indicibile catena di emozioni che hanno, come sempre ai tropici, coinvolto tutti e cinque i sensi. Cerco di farmi largo nella folla dei ricordi, delle immagini registrate dai neuroni del mio cervello, più che dalle schedine digitali della mia macchina fotografica, nella catena ininterrotta di emozioni che la giornata mi ha riservato. L’impatto della città, non posso negarlo, è stato imponente, straziante, direi impossibile da acquietare. Sì, Port-au-Prince mi ha buttato per aria le certezze della mia vita pacifica e in fondo bella. Troppa umanità straziata, troppa ingiustizia, troppi contrasti, troppo fango, troppa fogna, troppa puzza, troppi sorrisi, troppe strette di mano, troppe vergogne loro e mie, soprattutto mie. Troppo. Berlusconi direbbe “poveri cristi”, la Clinton “umanità che attende la nostra mano”. Ma qui sono troppi, c’è solo un solo, enorme Cristo abbandonato che grida, esteso come la metropoli haitiana, numeroso come il milione di persone che ancora non ha una casa in muratura o in legno ma solo un telo sopra la testa, indignato come le troppe donne violate dai maschi in calore nella promiscuità colpevole, angosciato come i disoccupati al 90 per cento della popolazione, sfigurato come il centro cittadino sconvolto dal sisma, spaventato come i bambini che piangono dinanzi al mio obiettivo, sfruttato come il mare di Ong che qui sfruttano l’emergenza. Troppo. La città dall’alto, nella placida sera tropicale sulla baia di Port-au-Prince, pare un’oasi di pace, ombreggiata dai palmizi che svettano dinanzi alla mia abitazione sulla collina residenziale. Osservo il monumento di Aristide, sgorbio architettonico e imperizia ingegneristica, e non posso non sovrapporre la bellezza della sera alla miriade di volti il cui sguardo ho incrociato quest’oggi, il più delle volte per elemosinare una foto, chiedendo un ok, un cenno di assenso, il più delle volte concesso dalla benevolenza dell’oggetto dell’immagine, che ha surclassato la benevolenza, o la condiscendenza, o la presunzione, o la codardia, o la curiosità, o la vergogna da scoop, o la inconfessata supponenza del giornalista che io sono, che pretendo di essere, un pur capace scribacchino che redige un libro in una settimana, mentre in una settimana Nadine, una donna scorta nella penombra di una tenda, non arriva a raggranellare per i suoi sei figli nemmeno cinque dollari vendendo banane e carbonella. Port-au-Prince s’avvia all’oscurità, e non posso non distendermi per la notte accanto alle ricchezze umane – umano-divine? – che oggi la Provvidenza mi ha dato d’incontrare. Mi sento fortunato. Anzi, benedetto. E quando, poco più tardi, comincia a piovere un acquazzone tropicale che pare il cielo caduto in terra ripenso alle tende dei terremotati. Abbiamo diritto di lasciare anche un solo bambino, una sola donna, un solo vecchio in balia dei terribili capricci del tempo? M’addormento nel fango.

sabato 9 aprile 2011

Atlanta, dove si vola


Il più grande aeroporto del mondo. Dove si impara anche la gentilezza.


Perso tra tapis roulant, valigie che spariscono, corridoi senza fine e metropolitane che la Concorde-Porte d’Italie fa ridere i polli, mi chiedo perché mai mi sia lasciato convincere a volare con la compagnia che ha sede ad Atlanta, con notte allegata in un Holyday Inn discretamente dozzinale, che sa di fumo rancido, di caffè pura arabica e di moquette polverosa. Molto meglio sarebbe stato fare rotta su Madrid e pi filare dritto verso Santo Domingo con gli ispanici. Ma l’istinto del viaggiatore mi suggerisce di non prendermela, di accettare gli inconvenienti e di cercare di cogliere il meglio dalle inattese lungaggini a cui vengo sottoposto, corvée a cui in realtà tutti i viaggiatori si sottopongono. Nella infinita coda per il ontrollo del passaporto, in realtà mi rendo conto che i più indisciplinati e maleducati, insofferenti e incapaci di non fregare il posto a chi li precede sono proprio gli italiani, tutti quanti dei piccoli Berlusconi strafottenti e superficiali o piccole Santanché abbronzate da lampada e ritoccate dai chirurghi. Che figura che ci fa il Bel Paese! È una città nella città, l’aeroporto di Atlanta. Si tratta di il più vasto scalo aereo del mondo, qualcosa come cento milioni di passeggeri all’anno! Avvicinandosi a terra per l’atterraggio, si ha l’impressione di scorgere un’impressionante ed enorme lisca di pesce – i tanti terminal dello scalo, almeno sette, ognuno dei quali conta decine e decine di attracchi – a cui si sono attaccati un’infinità di pescetti parassiti, cioè gli aerei. La lisca di pesce si stende avendo sullo sfondo la skyline della città di Martin Luther King, nemmeno tanto lontana dall’aeroporto. Anche dal basso, a livello della terra e non del cielo, dell’uomo e della donna e non degli uccelli e degli angeli, la mastodonticità del sito colpisce e stordisce. Ci metto due ore a passare tutti i controlli, a recuperare per due volte le valigie, a sincerarmi di avere il visto per ritornare, a trovare lo shuttle dell’hotel, dove finalmente ritrovo un po’ d’umanità, cioè l’autista, un enorme uomo nero sulla settantina che se la ronfa beatamente, senza degnarsi di uno sguardo per chi vorrebbe essere trasferito rapidamente all’albergo. Atterro esausto su un enorme letto bianco fornito di sei cuscini, che non uso. La mattina, la colazione mi riporta nella grandeur alla statunitense, fatta di dimensioni fisiche e non morali o intellettuali. Forse mi sento disposto meglio nei confronti del genere umano, e così scopro che la città aeroportuale è popolata da una folla di inservienti che sono proprio al servizio dei viaggiatori, con humour, gentilezza e disponibilità. Le dimensioni dello scalo non si rimpiccioliscono, ma si umanizzano. E così in pochi minuti riesco a sbrigare le formalità per la partenza. Nel lungo rullaggio passiamo sopra autostrade a dieci corsie, in fila indiana, ventitré aerei con la voglia di rullare sulle piste e lasciar qualche chilo di caucciù sulle rugosità del cemento e dell’asfalto. Ovunque centinaia di auto, pullman e mezzi di manovra o di soccorso si danno da fare, guidati immancabilmente da uomini e donne ben in carne e dalla pelle nera. M’accorgo che le piste sono decine (proprio ieri sera leggevo su Usa Today che si ripetono in modo inquietante i casi di controllori di volo che si addormentano sul posto di lavoro), mentre circumnavighiamo isole di servizio enormi e brulicanti di attività. Le file di luci, accese anche in pieno giorno, paiono abbondanti come alla festa del patrono… Poi il decollo, il mio hotel, le macchinine che rimpiccioliscono, il brillio degli enormi parcheggi, distese di villette monofamiliari che disegnano geroglifici rastremati, laghi e piscine che sfavillano impertinenti. E il cielo.