mercoledì 30 settembre 2009

La Cina a 60 anni dalla rivoluzione

L'anniversario della fondazione della Repubblica popolare cinese viene accompagnata dalle notizie sul "nuovo colonialismo" cinese in Africa (vuol comprare l'intero petrolio nigeriano) e in Asia centrale (comprata la più grande miniera di rame in Afghanistan). Ma per capire il perché d'una rivoluzione bisogna andare indietro nel tempo. Visita al "Tempio del Cielo" (nel 2006).

Da tempo è chiuso per restauro, una delle maggiori meraviglie della città imperiale di Beijing, il Tempio del Cielo. La sua forma a cono rovesciato con tre progressive aureole è noto in ogni parte del mondo, essendo diventata una di quelle designer conception che attraversano il mondo globalizzato. È chiuso per la delicata manutenzione dei suoi legni e delle sue lacche, ma anche solo dall’esterno bisogna vederlo, ammirarne le perfette dimensioni e i colori forti e delicati nel contempo.


La sorpresa non è tanto il tempio, quanto tutto quello che vi sta attorno, la gente. Attorno v’è un parco straordinario, non tanto per via delle specie vegetali e della sua architettura, quanto per la fauna umana che lo popola. Migliaia di persone. Portici e piazzole sono animati da gente che canta, che balla, che gioca, che fa ginnastica al ritmo delle musiche più diverse, dal rock ai ritmi più ancestrali. Gente anziana, soprattutto, che dimostra quanto la vecchiaia non debba essere vissuta come una condanna, come un’uscita ingloriosa dalla vita pubblica, ma al contrario come una possibilità, finalmente liberata, di vivere nella serenità e nella calma i propri giorni, dando azio alla propria creatività e ai propri sentimenti più profondi.

La gentilezza della gente è squisita; c’è chi mi invita a giocare ad una sorta di pallacorda ravvicinata con una necessaria armonizzazione dei movimenti dei due partner; c’è chi mi allunga un libro di canti popolari per unirmi al coro; c’è chi semplicemente si mette in posa quando vede la mia macchina fotografica… C’è il pechinese urbano e c’è il contadino. Come tutte le grandi metropoli, anche Pechino è una città composita, fatta di etnie diversissime tra loro, che vanno dai coreani immigrati alla gente dell’ovest, musulmani che vivono a contatto col Pakistan, mongoli, cantonesi… Spesso si nota l’ignoranza dei cosiddetti “contadini”, che mirano solo all’ottenimento del proprio scopo, dimenticando completamente forme e politesse.

Il Tempo del Cielo mi accoglie da lontano maestoso e nel contempo slanciato in uno straordinario equilibrio architettonico, protetto da alte muraglie rosse che paiono non solo difesa dall’esterno, ma soprattutto protezione per impedire che i Cieli si disperdano sulla Terra. L’immagine deve lavorare non poco, trovando nella rappresentazione il senso della presenza reale. La gente attorno a questo tempio sembra acquisire una serenità e una pace che non sono quelle di una metropoli dove si lavora freneticamente, e dove la straordinaria cultura familiare cinese sembra lasciare il posto alle creature dell’individualismo comunista.

Certo, qui i giovani latitano, se non per qualche impiegato o operai che lavora qui. Ma qui si può vedere e ammirare, forse più che in una università, la millenaria cultura di un popolo, dai movimenti delle vecchiette dall’insospettabile agilità, dalla voce di un maturo cinquantenne che intona nenie improbabili (per me), dall’anziano che traccia per terra antichissimi ideogrammi come se stesse creando l’universo nominandolo, dal bambino che s’avvicina ad un fiore come se scoprisse un pianeta… Sì, possiamo criticare la ventata consumista che, dopo quella comunista, non risparmia nulla e nessuno al suo passaggio; ma nel contempo non possiamo non ammirare questa cultura e la sua disciplina sperando che non muoia.

martedì 29 settembre 2009

Manila sott'acqua a mani aperte

140 morti almeno nelle Filippine per l'inondazione susseguente al passaggio di Ketsana, terribile tempesta tropicale. Danni e allagamenti anche a Bukas Palad, baraccopoli della capitale Manila che ho visitato nel 2006. Reportage.

Bukas Palad, un nome che ormai tanti hanno cominciato a conoscere. Ultima a citare questa esperienza sociale promossa dai Focolari a Manila – ma con “filiazioni” anche a Tagaytay, a Cebu e a Davao –, è stata Raffaella Carrà, che ha voluto inserire questo progetto nel suo programma “Amore”. Così le adozioni a distanza sono state incrementate di 500 unità, che si aggiungono alle 880 già accese. Bukas Palad vuol dire “a mani aperte”. Ha 23 anni di attività alle spalle, in un quartiere poverissimo della capitale filippina, incastonato tra l’avveniristica Makati e le ville residenziali di tanti ricchi del paese. Una formula fortunata, perché ha permesso di coniugare l’arte di amare dei Focolari con il lavoro per la giustizia e per la libertà. Entro in un piccolo cortile dove un gruppo vociante di bambini sta scrivendo letterine ai genitori adottivi, sotto lo sguardo di alcuni educatori. Mamme e papà stanno aspettando il loro turno per ritirare degli aiuti. Mi presentano due fratellini – una bambina e un bambino – che la giornalista Rai inviata a riprendere l’esperienza di Bukas Palad ha voluto adottare. Sono bellissimi nella loro umanità ferita, figlia della morte (della madre) e dell’alcolismo (del padre).

La storia di Bukas Palad trova la sua origine in un appello che, appunto 23 anni fa, Chiara Lubich lanciò ai giovani del movimento: «Bisogna morire per la propria gente». Così alcuni giovani di Manila, accortisi per la prima volta che accanto a loro c’erano i poveri-tra-i-più-poveri, hanno cominciato con un doposcuola, con qualche pasto, con la riparazione di qualche baracca. Una famiglia ha offerto l’edificio che sto visitando, ora minacciato dai costruttori di grattacieli che vorrebbero cacciare dalla città tutti questi inutili poveri… Per contrastarli, si sta cercando di acquisire le terre circostanti, e così scongiurare una fine ancor più ingloriosa per le tremila persone che possono essere definite “abitanti” di Bukas Palad. Marvi … è una delle principali animatrici del centro. Per lavorarvi ha lasciato un buon lavoro all’università. «Ben presto ci siamo accorti – mi racconta – della necessità non solo di aiutare i bambini che venivano da noi, ma di risalire alle famiglie, perché altrimenti i nostri sforzi sarebbero irrimediabilmente naufragati, vanificando l’opera di risanamento umano dell’ambiente. Ad esempio, se una bambina viene da noi e si scopre che è tubercolosa, evidentemente non basta curarla, se non si cura anche il resto del nucleo familiare. È un’azione globale di risanamento, quella che intraprendiamo, che giunge fino a realizzare un progetto di housing, destinato a fornire delle vere case alla gente che a Bukas Palad cerca di emergere dal fango. Letteralmente dal fango. Per questo ora qui lavorano 77 persone, più decine di altri volontari saltuari. A capo dei singoli programmi, ora ci sono persone che sono state beneficiate da Bukas Palad, che perciò sanno meglio di chiunque altro che cosa bisogna fare. È la gente del quartiere che è stata aiutata ad aiutare ora a sua volta».

Edna Villaraza è madre di due figli, dolce e piena di energie, con le quali dirige il centro: «È la gente del quartiere che si mette in moto e diventa a sua volta fattore di sviluppo umano. Ma è un lavoro lungo, che richiede tempo. È per questo che abbiamo esitato prima di accettare le proposte della Rai, perché temevamo di fare un passo in avanti troppo rapido, di contravvenire cioè a quelle regole che sono state assolutamente fondamentali nello sviluppo di Bukas Palad: bisogna in effetti trovare le persone giuste e le energie adatte, bisogna che i bambini siano veramente seguiti e aiutati ad emergere e a rendersi autosufficienti. Ogni anno aumentiamo di sole 50 unità le nostre adozioni…». Edna mi conduce a visitare le aula della scuola materna che ogni giorno serve 250 bambini in età prescolare: «Bisogna prendere questi piccoli prima che vadano a scuola, prima che imparino troppe cose poco positive dalla vita. Anche le lezioni di catechismo sono una promozione umana, anche il raccontarsi le proprie esperienze di vita cristiana. E poi c’è la cura dei genitori: una volta a settimana debbono passare qui da noi per dirci come vanno le cose, per poterli eventualmente aiutare o redarguire, perché non hanno rispettato i patti stretti nel concedere l’adozione: uso di alcol, mancata frequenza della scuola, abbandono del lavoro…». Su una parete vedo la foto di un giovane uomo sorridente su un mucchio di spazzatura: «Quello è Tirso – mi spiega Edna –, un giovane di 22 anni che coi suoi fratelli abita sotto il ponte qui vicino. La notte escono per “fare le pattumiere”. Una delle sorelle era afflitta da epilessia grave, e per curarla Tirso aveva messo su una vera e propria azienda clandestina di riciclaggio dei rifiuti. Ora il giovane frequenta la scuola, la prima media, dopo che lo abbiamo raccomandato alla direttrice, che altrimenti non lo avrebbe accolto, per via dell’età».

Un’altra donna straordinaria, ben oltre la settantina, una pioniera di Bukas Palad: ecco Irene de Los Angeles. «Il progetto è andato avanti perché le persone aiutate sono cresciute – mi spiega –; l’altro giorno, ad esempio, mi ha salutato un uomo che avevo conosciuto da ragazzino, e che ha fatto carriera. Sua nonna era stata una delle prime ad essere aiutate, era malata di Tbc e al mercato ogni giorno vendeva due carote e qualche cipolla. Le avevo detto all’epoca: “Bukas Palad è vostra, dobbiamo lavorare insieme”. Questa è stata la grande intuizione suggerita da Chiara Lubich». Si volta, Irene, e scorge Serafim, un ragazzo nato nel quartiere, e ora in politica. «È stato il primo assunto da Bukas Palad». È figlio suo, di Irene, lo vedo, lo sento, ne ho la certezza. «Ricordo – prosegue Irene – quanti bambini abbiamo seguito, quasi tutti malati per malnutrizione. Cercavo di entrare nelle loro case, ma le mamme pudiche non volevano mostrare la loro miseria. Finché non trovavo questi bambini all’ospedale, e allora ne parlavo con le madri, che finalmente acconsentivano a farmi entrare da loro. Così cominciavo a insegnare loro come alimentare i loro figli. Serafim così è cresciuto bene». Irene, pur di famiglia ricca, aveva un papà che amava i poveri. All’università era stata eletta a capo di un club di studenti, e come primo atto del suo mandato aveva inserito nello statuto la finalità del progresso della società aiutando i più poveri… Prosegue: «Mi sono sentita trascinata da subito in quest’avventura, perché mi avrebbe portato ad applicare il Vangelo coi poveri tanto amati. Ho cercato subito di coinvolgere un gruppo di donne ricche. Tutte, nessuna esclusa, hanno aderito alla mia proposta». Tanti sono gli episodi che Irene mi racconta, come quella volta che un uomo che le chiese aiuto per arrivare alla fine del mese. Irene nel giro di qualche ora ricevette esattamente la cifra che aveva richiesto… «Anche oggi la stessa esperienza si ripete, perché la nostra banca è in cielo. Ed a noi è chiesto solo di vivere il Vangelo e poi di chiedere il necessario». Il suo motto? Quello insegnatele da Chiara stessa: »Lavorare come facchini e pregare come angeli».

All’ultimo piano dell’edificio a quattro livelli che ospita il centro propulsivo di Bukas Palad, alcune persone di varia età (impossibile distinguere gli animatori dai beneficiati) hanno imbastito per il sottoscritto un vero e proprio piccolo dramma teatrale sulla nascita e lo sviluppo di Bukas Palad. Gli improvvisati attori si muovono con straordinaria naturalezza: penso ai drammi che si celano dietro gli sguardi di ognuno di loro, ma anche alle enormi generosità che hanno fatto sì che, nella loro condanna inappellabile alla miseria, sia intervenuta una mano, una mano aperta, che ha cambiato la storia. Nel corso dello spettacolino, una ragazza racconta come, attraverso l’aiuto di Bukas Palad, la sua famiglia si sia riunita e tutti abbiano potuto studiare. E un’altra giovane, che invece viene da un quartiere ricco, racconta come si sia accorta a Bukas Palad che la ricchezza spirituale e umana di questa gente era quasi sempre superiore a quella che trovava tra i suoi amici ricchi. È arrivando qui, portata da un amica, che ha trovato la sua “vocazione professionale” di assistente sociale. Appare evidente come ognuno acquisti una sua serenità e una sua dignità. Sta qui il miracolo di Bukas Palad, dove le cose avanzano lentamente ma sicuramente, a garanzia che il tempo sarà galantuomo; spesso le Ong partono con grandi fondi e ingiustificate speranze, ma come estranee alla società che si vuole soccorrere. E così, dopo il boom iniziale, la crisi arriva, e tutto crolla.
Bukas Palad avanza da 23 anni. Lentamente. Sicuramente.

giovedì 24 settembre 2009

Obama ha viaggiato e ha capito il valore della reciprocità

Il discorso di Barack Obama alle Nazioni Unite dimostra come il presidente Usa abbia viaggiato e abbia capito quanto poco gradimento abbiano gli statunitensi abbiano nel mondo. Un buon punto di partenza per risalire la china non solo dell'apprezzamento per le indubbie doti del suo popolo, ma anche per cooperare al bene comune internazionale.

Chiunque abbia viaggiato nel mondo e nei mondi, ed è anche il mio caso, non ha potuto non rendersi conto negli ultimi decenni della progressiva caduta del tasso di gradimento degli statunitensi nel mondo, in quasi tutto il mondo. Contrariamente a quanto avveniva negli anni di Kennedy, ma anche di Nixon, ci sono intere regioni del globo praticamente vietate ai viaggiatori Usa: penso al Medio Oriente, penso ad alcuni Paesi africani, a parte dell'Estremo Oriente, persino a taluni Paesi centro e sudamericani.

Lo sa anche Barack Obama, che ieri all'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha pronunciato un discorso che con ogni probabilità resterà nella storia per aver segnato una svolta nell'atteggiamento Usa verso il mondo e verso chi la pensa diversamente da sé. Ha tracciato un "programma" per la comunità internazionale che non lascia dubbi sulle sue ambizioni pacificatrici: «Propongo quattro pilastri fondamentali per il futuro che vogliamo costruire per i nostri figli: la non proliferazione e il disarmo; la promozione della pace e della sicurezza; la conservazione del nostro pianeta; e un'economia globale che dia più opportunità a tutte le persone». Se parole come "non proliferazione" e "sicurezza" paiono dettate dall'incertezza di tante situazioni complesse e conflittuali (leggi Afghanistan, Iran, Somalia...), tutte le altre parole contenute in questo programma planetario sono indirizzate alla costruzione di un futuro migliore. Per far questo, «è giunto il tempo di abbattere questi muri», e cioè «le vecchie consuetudini e i vecchi argomenti».

Da sottolineare in questo discorso è anche l'introduzione massiccia di un concetto, quello della reciprocità, certamente difficile da maneggiare ma altamente simbolico ed evocativo di una convivenza pacifica. «Dobbiamo entrare in una nuova era di impegno, basata su interessi reciproci e sul rispetto reciproco». O ancora: «Insieme dobbiamo costruire nuove coalizioni che colmino le vecchie divisioni, coalizioni di fedi e convinzioni diverse, tra Nord e Sud, tra Oriente e Occidente, tra neri, bianchi e "marroni" (meticci). E' la morte dell'unilateralismo, del "gendarme del mondo", così come della guerra fredda che minaccia di ricrearsi a vent'anni dalla caduta del muro di Berlino.

Infine, va dato atto all'Onu di essere ancora il solo luogo al mondo dove tutti i governanti possono esprimersi e ascoltarsi (non poca impressione facevano Gheddafi e Ahmadinejad durante il discorso di Obama), e anche lavorare assieme per il bene comune. L'Onu non è ancora l'autorità mondiale che ci si aspetta, capace realmente di orientare i grandi cambiamenti che l'umanità si trova a dover affrontare in questo inizio di XXI secolo. Ma resta indispensabile, al di là di tutti i Gqualcosa - G6, G8, G16, G20... - che pretendono di risolvere i problemi dell'umanità. Certo, il meccanismo Onu va rianimato - la denuncia dello strapotere del Consiglio di sicurezza e dei Paesi che hanno il potere di veto è una denuncia che ha molto di vero -, ma l'Onu e tutti gli organismi connessi è ancora indispensabile. Il discorso di Obama ha ridato fiato alle Nazioni unite. "Unite", un programma, speriamo in un prossimo futuro una realtà.


venerdì 18 settembre 2009

Il Ramadan e l'incontro tra civiltà

Una cena di "rottura del digiuno" organizzata dall'Istituto Tevere a Roma. Un'occasione di dialogo e approfondimento della necessità per l'uomo d'oggi di qualcosa di molto impopolare: la rinuncia. In questo caso al cibo. Il saluto portato a nome di "Città nuova" alla serata romana.

Per un puro caso, nel momento dell'apertura del Ramadan mi trovavo in Uzbekistan, a Samarcanda. Visitavo un luogo di culto islamico nella periferia della città, Khodja Abdi Darun, un luogo straordinario di meditazione e convivialità: una grande vasta ottagonale, quattro platani, una moschea maiolicata, un portico di legno antico, le cellette d'una madrasa. Mi sono intrattenuto con l'imam Sultan Murad, seduto sui tappeti pulitissimi che parevano decorare un salotto conviviale. Sono rimasto più di un'ora a conversare sulla vita e sulla morte, sulla Terra e sul Cielo, su tutto quanto è spirituale e umano e divino. Anche sul digiuno.

«Non basta il pane per far vivere l'uomo», mi ha accolto così. E mi ha parlato di grande e piccolo jihad, e mi ha cercato dio spiegare che col Ramadan impartiamo a conoscere e moderare i nostri appetiti fondamentali: fame e desiderio sessuale. «Così impariamo anche a disciplinare le nostre relazioni con gli altri», gli ho risposto. «E con Dio», ha precisato l'imam. «Il diguno è l'ascesi delle nostre necessità impellenti», ho aggiunto. «E' pure educazione dei nostri desideri più umani», ha precisato. E ha concluso così: «Col digiuno il credente dice anche con il corpo la sua fede in Dio».

Il mondo occidentale sta dimenticando il valore dell'ascesi e del digiuno, nell'opulenza del tutto e subito. Si vanno facendo strada, comunque, altre forme di digiuno, originali: il digiuno da tv, da telefonino, da Internet. Tutti tentativi encomiabili, tentativi di riscoperta dell'ascesi. Ma bisogna ritrovare il vero digiuno, perché l'oralità è quanto di più ancestrale esista nell'uomo. LA sua disciplina è un'enormericchezza per tutto il suo agire, il suo pensare, il suo pregare. Non possiamo che ringraziare perciò i nostri fratelli musulmani, perché ci ricordano quanto quest'ascesi di popolo sia costruttiva.

La vicinanza del dialogo, come quello di stasera, ci aiuterà anche nell'opera di integrazione, che tanti ostacoli ancora incontra, come testimoniano innumerevoli episodi, come l'ultimo, grave, di Pordenone, con l'uccisione di Sanaa. E ci aiuterà a capire che la violenza verso l'altro chiama sempre altra violenza verso l'altro. Mentre quella "dolce violenza" verso di sé, come il digiuno, può invece portare alla non-violenza verso l'altro. Soprattutto se il digiuno è comune, è comunitario, collettivo: in questo modo si riescono a limitare e canalizzare quelle forme di irascibilità che è propria di chi non si mette a dieta. Così la fraternità potrà farsi spazio tra gli uomini, e la reciprocità dell'amore porterà anche alla soluzione dei problemi più gravi che ci troviamo ad affrontare.

giovedì 17 settembre 2009

Sanaa, c'entra l'Islam?


La vicenda della giovane marocchina Sanaa DAfani, ammazzata a Pordenone dal papà perché voleva andare ad abitare col fidanzato italiano. Attenzione alle bucce di banana del facile antislamismo primario. I problemi sono soprattutto culturali e di integrazione, non religiosi. Intervista sulla condizione della donna nel mondo musulmano all'algerina Leila Aslaoui, apparsa sul mio libro "L'Islam che non fa paura", apparso per i tipi della San Paolo.


Da un articolo apparso sulla stampa algerina nel settembre 1994: «Il portavoce del governo algerino, Leila Aslaoui, 49 anni, ha dato le dimissioni lunedì. La signora Aslaoui aveva manifestato nelle sue dichiarazioni ostilità nei confronti degli integristi. L’annuncio delle dimissioni arriva meno di una settimana dopo la liberazione dei capi del Fis, Abassi Madani e Ali Belhadj. Le dimissioni dal governo sono una pratica rara nella vita politica algerina». L’Algeria non manca di donne coraggiose.


Per intervistare l’on. Leila Aslaoui, già ministro della Gioventù e dello sport, magistrato e da qualche tempo anche scrittrice, esco da Algeri verso il Club des pins, una località a est della capitale dove, in un quadro naturale eccezionale, tra pinete senza fine e spiagge bianchissime, è cresciuto negli anni il centro residenziale più esclusivo del paese, con l’Hotel Sheraton e un paio di zone riservate a politici e alti funzionari dello stato. A Staoueli, in eleganti ma non sfarzose palazzine, vivono centinaia di famiglie di notabili algerini, per lunghi anni qui ridotti in stato di “quasi-prigionia” per via del terrorismo.


È in una decorosa abitazione, ornata coi ricordi d’una intensa vita politica, che incontro Leila Aslaoui, una donna sottile, dalle occhiaie profonde, toccata direttamente dalla carneficina che si è scatenata sull’Algeria tra il 1993 e il 1998: suo marito Mohammed-Réda, dentista, è stato ucciso da quattro “barbuti” il 17 ottobre 1994 nel suo studio professionale, a coltellate. Madame Leila ha una forza vitale straordinaria, uno spirito indomito, una calma lucidità che le fa dire cose di un coraggio insospettabile: ciò le viene con tutta probabilità dall’aver guardato negli occhi l’orrore.
«Il potere è paranoico e il popolo è schizofrenico – attacca –. Il potere non ascolta il popolo, e questo crea delle separazioni spaventose, che non promettono nulla di buono: non c’è cultura politica e democratica, ma solo una grande ignoranza. La gente è impermeabile al potere, pensa che tutti siano corrotti e lontani dalla gente: è una litania, una disperazione latente. In questo contesto l’Islam dà un’identità e una sicurezza che altrimenti non esisterebbe».

Leila Aslaoui apre il capitolo della memoria dolorosa: «Mio marito era una persona assai religiosa: perché l’hanno ucciso? Forse perché ero io a essere il bersaglio, ma non osavano attaccarmi in quanto ero una donna? È ingiusto che si facciano fuori coloro che lavorano per il popolo: mio marito lavorava in un quartiere difficile, un covo di fanatici. Gli avevo insegnato a sparare e aveva una pistola ufficialmente denunciata. Ma lui non voleva portarla con sé: “Non sono un violento – mi rispondeva –, e portare quest’arma mi metterebbe dalla parte della violenza”. Gli ho fatto notare che eravamo in guerra: ma lui ha affermato che non avrebbe mai ucciso qualcuno, e che se lo avesse fatto il rimorso lo avrebbe raggiunto ovunque. Se era scritto che doveva morire, sarebbe morto».

Madame Aslaoui sta per dare alle stampe una serie di novelle sulle donne algerine, sul velo imposto, sull’adozione vietata, sullo sfruttamento tollerato, sul divorzio ingiusto: sta aspettando l’accordo dell’editore, un po’ esitante perché il libro va indubbiamente controcorrente. «Sono profondamente credente – continua –. Sono musulmana anche se un po’ atipica. Non posso vivere senza Dio, che mi ha permesso di tener duro nella mia vita, nonostante tutte le prove che ho passato. Ma rispetto all’Islam, o per meglio dire, rispetto alle culture che si dicono musulmane ho un paio di problemi seri, che ho qualche timore a esprimere: il trattamento che esso riserva alla donna, in primo luogo. È scritto che gli uomini sono stati preferiti da Dio; perciò, anche se altri passaggi coranici affermano l’uguaglianza con le donne, negli obblighi e nei diritti la disparità di fatto esiste. Come musulmana non posso accettare queste disuguaglianze, come ad esempio avviene a proposito dei diritti all’eredità. Quando mi intrattengo con degli islamologi anche molto capaci, dico loro chiedendo lumi: “Una religione che afferma che, se le donne disobbediscono, l’uomo può punirle, rinchiuderle nelle loro stanze e persino bastonarle, io non l’accetto”. E questi signori mi rispondono: “Sì, ma attenzione, le percosse debbono essere leggere!”. Inaccettabile! Un imam marocchino e fondamentalista su una tivù europea ha avuto l’ardire di affermare che l’Islam ha sì detto che si può colpire la propria moglie quando è disobbediente, ma non bisogna che le percosse si vedano (questo fatto lo ha portato comunque a essere espulso nel 2004 dalla Francia). In quanto musulmana, e lo sono al 100 per cento, questa diversità di trattamento non mi stupisce; ma in quanto donna non posso accettare queste regole». Una pausa, poi riprende decisa: «Dicendo queste cose rischio che mi accusino di non essere musulmana; tuttavia rivendico il diritto, proprio in quanto una fedele, di dire che oggi tanti paesi islamici non assicurano sufficiente autonomia e libertà alle donne. È vero che possiamo occupare gli spazi pubblici e iscriverci all’università; ma è anche vero che oggi la condizione della donna, saudita o algerina ad esempio, se la prendiamo dal lato del codice della famiglia, non è tutelata: quando ad esempio a trent’anni ci si vuole sposare, il nostro codice prescrive che ci sia bisogno di un tutore di sesso maschile!».


Parliamo del velo? «Volentieri. Io dico e ridico, e forse mi sbaglio, che quando nel Corano è scritto che le donne del profeta vennero infastidite per strada, ciò accadde perché non erano abbastanza coperte. Dio disse allora al profeta che le sue donne dovevano coprirsi, ma non ci è dato di sapere se con uno scialle, un foulard o una mantellina. Ma non è mai stato detto che ci si debba vestire di nero, e tanto meno con uno scafandro come il burqa: la femminilità deve essere rivendicata dalle donne musulmane. In tutti i modi, all’epoca non vigevano prescrizioni strette come invece certe norme della shari’a prevedono. Ritengo che quel versetto del Corano volesse solo affermare che la donna deve vestirsi pudicamente, evitando tenute che possano essere provocatorie: e qui entrano in gioco la cultura e l’educazione, la capacità di affrontare la vita pubblica. C’è invece chi riduce il velo a un obbligo: se non lo metti non sei musulmana. Durante il periodo che ha preceduto il terrorismo, tanti mi dicevano che per essere vera musulmana dovevo mettere il velo, ma senza mai chiedermi se frequentassi la moschea, se dicessi le preghiere, se fossi onesta».
Leila Aslaoui non condanna certo le donne che portano il velo, ma talune storture che attraversano la società del suo paese. «Al tempo del terremoto del 2001 ho incontrato molte donne – mi dice –. D’improvviso ho scorto delle amiche che, addirittura mentre facevamo ginnastica in palestra, portavano il velo, cosa che non avevano mai fatto in precedenza. A mia esplicita domanda, mi hanno risposto che il terremoto era stato un frutto della collera di Dio perché le donne non si coprivano il capo! Si rende conto dell’ignominia di tale idea, di che fardello di colpevolezza si mette sulle spalle delle donne?». E sulle discussioni in Francia? «Chi entra nella repubblica laica francese – mi risponde – deve fondersi nella cultura di quel paese, ci mancherebbe. Eppure mi chiedo: la seconda o terza generazione d’immigrati, perché si rifugia nelle braccia dei fanatici, come mai dei giovani delle periferie urbane occidentali diventano kamikaze, perché tante ragazze portano il velo quando diventano maggiorenni? Vuol dire che l’integrazione è fallita. Ma il velo è un effetto, non è una causa. Bisogna porsi le domande giuste di fronte a questi problemi. Per esempio, perché c’è stata una violenza senza freni in Algeria? La violenza che si accanisce sui cadaveri della gente già morta è sintomo di una profondissima violenza dei cuori. Come siamo potuti arrivare a tanto? Perché assassinare delle religiose? Queste sono le domande che non ci si è posti, se non in ambienti ristretti. Per il velo è la stessa cosa: bisogna chiedersi perché queste donne hanno deciso di mettere il velo, e non tanto vietarlo!».

mercoledì 16 settembre 2009

Karachi dove si muore di fame

Una ventina di morti a Karachi durante una distribuzione di farina. La fame colpisce ancora in una città straordinaria e terribile. Reportage (era il 2005) in uno dei centri di Edhi Abdul Sattar, "Madre Teresa dei musulmani", dove quotidianamente si distribuiscono riso e farina.


Edhi Home, o dove la disperazione si rifugia, dove l’abiezione e la déchéance raggiungono il livello più basso raggiungibile, lasciando l’uomo o la donna nella situazione di rinunciare alla vita o di affidarsi a mani pietose. È una sorta di luogo di primo soccorso – ma anche di ultimo, perché qui c’è pure l’obitorio –, da cui poi si viene indirizzati nei luoghi più indicati per affrontare le diverse emergenze dell’uno o dell’altro. Si arriva soli, di solito, la compagnia non è buona compagna del male, ma solo del bene. Mucchi di riso e farina ovunque, qui si sfama la gente che non ha nulla.
In un corridoio – i soliti corridoi dei luoghi di Edhi, che sembra voler con essi dare alle persone che si fanno analizzare il senso della provvisorietà, mentre la stanza diventa la soluzione, il sentimento di casa, di accoglienza, di stabilità – si allungano dapprima mocciosi che non avranno dodici anni: tutti alcolizzati o drogati, "fatti" comunque di qualcosa con cui hanno cercato di evadere dalla loro esistenza. C’è il ragazzino che si vende ai pedofili, tutto azzimato e coi capelli lustri, ma con uno sguardo dilatato che non riesce a posarsi su nulla. Il medico che ci accompagna sostiene che in quel piccolo corpo ci sono tutte le infezioni e le malattie contagiose che si conoscano. Entrea ed esce, non ha nessuno, non vuole restare nelle case di Edhi perché ama troppo la libertà. E c’è invece il ragzzetto con lo sguardo altrettanto perso, ma per via di una brutta crisi epilettica che l’ha colpito in mezzo alla strada, cioè nella sua casa.



Un altro ragazzetto fa lo spavaldo coi dottri, ma ha pochi giorni dinanzi a sé per una epatite che l’ha reso giallo e senza difese immunitarie. Un educatore lo apostrofa, vorrebbe che se la giocasse ancora la vita. Poi mi si rivolge: «Se sapessi quante miserie ha dovuto subire, penso che esulteresti nel sapere che è riuscito a raggiungere i 13 anni. Dio lo ama, è l’unica consolazione». C’è poi il pronto soccorso vero e proprio, cioè uno stanzone nel quale vengono ospitati in letti puliti tubercoilotici in crisi polmonare acuta, diabetici in coma glicemico, malati in attesa di essere trasferiti in qualche centro ospedaliero. Comunque gente sola o abbandonata, gente che non ha più nulla né nessuno. La solitudine di questa gente comincia a prendermi alla gola, e a convincermi che Edhi ha fatto la scelta giusta nella vita, soccorrendoli. Il mondo è un po’ più umano sapendo che ci sono luoghi come quelli che stiamo visitando in questi giorni.

Ma il peggio deve ancora arrivare. Chiusi con una grata guardata a vista da uomini armati che non farebbe piacere incontrare di notte in qualsivoglia città del mondo, ma che in fondo al cuore hanno un fortissimo senso della pietà umana, ecco cento e passa uomini maggiorenni, allineati sulle panchine in muratura di un lungo corridoio, che aspettano la loro dose di metadone, o di qualcosa di simile, che i medici di Edhi gli impartiscono nelle crisi di astinenza e nella disperazione della mancanza. Questi figuri hanno ancor meno degli altri: soffronto di solitudine e di mancanza. Di tutto. Inveiscono contro di noi, come bestie ferite in gabbia, oppure cercano di elemosinare una raccomandazione, chissà pure una bustina di qualcosa di forte. Uno di loro si alza minaccioso, ha un occhi mezzo di fuori. Una manganellata lo tramortisce sul cranio, ma si rialza e sputa sangue. Poi la stessa guardia che l’ha steso lo aiuta a risollevarsi e a riprendere il suo posto nella lunga teoria della abiezione infinita. Gli dice di sta buono, e questo gli stringe la mano guantata - questione di infezioni - come fosse quella del padre.

Una visita che non può non concludersi nel luogo dove la morte è sovrana. Apparentemente, perché anche in questo luogo che decreta la "fine del gioco" - parlo ovviamente dell’obitorio, uno dei due della città di Karachi - gli amici di Edhi ridanno dignità ai cadaveri, ripulendoli o ricomponendoli quando necessario, congelandoli in attesa di un riconoscimento e della susseguente sepoltura. Qui fu tenuto Daniel Pearl, il giornalista del Wall Street Journal ucciso da un gruppo impazzito di fondamentalisti indù mentre cercva segreti strani e poco chiari con un coraggio pari alla sua incoscienza. Bernard Henri-Lévi havoluto consacrargli un libro, un romanzo e un documento, qualcosa di poco chiaro e di molto ingannevole su una città e sulla sua gente. Entriamo nella cella frigorifera, non avevo mai visto tanti cadaveri assieme. Mi dicono che tuttavia sono pochi: ai tempi delle reciproche bombe sciite e sunnite, una seconda e una terza sala venivano trasformate in obitorio.



Chi vuole saperne di più, legga il libro: Lorenza Raponi e Michele Zanzucchi, "Metà di due rupie", San Paolo 2007, euro 14,00

martedì 15 settembre 2009

Ma io che c'entro?

Giulio Albanese, uno tra i giornalisti che meglio conoscono l'africa e il Terzo Mondo, dà alle stampe un libretto che parla di bene comune in tempo di crisi. Benedette provocazioni!

E' un missionario comboniano, e nel contempo è un grande giornalista, uno di quelli che sanno avere intuizioni rivoluzionarie. Sua è l'idea, in effetti, della "Misna", agenzia missionaria che ha saputo coniugare la severa professionalità dei giornalisti del desk con la partecipata capillarità della rete missionaria nel Sud del mondo. Giulio Albanese ora è editorialista per "Avvenire" e notista per "Il Messaggero di Sant'Antonio", oltre ad essere direttore delle riviste delel Pontificie Opere Missionarie. E proprio le sue brevi e "innocue" note sulla rivista di Padova sono state raccolte in questo libro che parrebbe un innocente discorrere su media, sviluppo e sottosviluppo, sfruttamento, globalizzazione. In realtà dietro le pennellate tracciate da albanese c'è una solidissima visione dell'ingiustizia che regola attualemnte le relazioni internazionali. In particolare Albanese stigmatizza lo sfruttamento d'un continente, come quello africano, che non è certo povero ma impoverito. Ma non c'è solo denuncia nel libro del missionario comboniano: c'è anche la ferma certezza che ogni atto compiuto da ogni uomo può contribuire alla "umanizzazione" della globalizzazione, e quindi all'avvicinamento a una qualche giustizia. Ma bisogna andare "oltre la notizia" per capire questa semplice, elementare e decisiva verità. Leggete queste pagine, e vi troverete dapprima più arrabbiati per la realtà dei fatti, poi più coscienti della stessa realtà, infine più desiderosi di cambiarla.
Giulio Albanese, "Ma io che c'entro? Il bene comune in tempo di crisi", Edizioni Messaggero Padova 2009, euro10,00

lunedì 14 settembre 2009

Lontani da qui

Ettore Mo dà alle stampe un altro suo libro, un viaggio insolito: nell'ordinario dolore che si incontra nelle periferie del mondo.

E' forse l'ultimo grande reporter italiano ancora vivo. Dopo la partenza di Terzani e Montanelli, solo le sue inchieste hanno quella altezza e quella forza dell'evidenza che sono proprie dei grandi giornalisti . In un momento assai critico per l'informazione, in cui le regole deontologiche non scritte che avevano retto la professione per decenni sono saltate per aria, e il gossip sembra essere diventato l'unica norma ancora da osservare, ecco che Mo ci riporta alla missione prima del giornalista: descrivere il vero, almeno quello che si ritiene sia il vero, al di là delle opinioni che pur vanno date, ma ben distinte dai fatti. E il vero, guarda caso, lo si ritrova quasi sempre nel dolore, in quello universale e in quello delle grandi tragedie della storia. Ma soprattutto nel dolore quotidiano della povera gente. Ettore Mo, grande reporter di guerra, rotto ad ogni paura e ad ogni rischio, sopravvissuto dell'informazione, cronista della Storia, ci ricorda questa semplice verità con le sue pagine essenziali, senza orpelli, senza troppi aggettivi. Una lezione di grande giornalismo raccontando piccole storie.
Ettore Mo, "Lontani da qui. Storie di ordinario dolore dalla periferia del mondo", Rizzoli 2009, euro 17,00

mercoledì 9 settembre 2009

La Venezia del festival rappresentata dal Civetta


Metafora della politica e della realtà rappresentata al Festival del cinema è un quadretto di Herri Met de Bles, al Museo Correz.

Sale ducali delle Procuratie vecchie, nel museo Correz. Seguendo improbabili itinerari artistici, un quadro mi inchioda: le Tentazioni di Sant’Antonio, opera di un allievo dell’incommensurabile Bosch, forse Herri Met de Bles, detto il Civetta. Tonalità d’inferno coronano la figura ieratica del santo abate assillato dai simboli schizoidi della tentazione: corpi femminei ignudi e parati all’amore, corone di potere e di gloria, orizzonti sconfinati e cangianti, diavoli che vìolano tutti gli orifizi umani, occhi che vagano, difformi uccelli armaturati, fiamme tremebonde, fauni perversi, fantasmi scomposti. E ancora. Brandisce un crocifisso, il santo eremita. Come una spada, protesa nel vuoto dell’irreale reso reale proprio dal figlio dell’uomo condannato a pendere da una croce. La mostruosità della tentazione umana è proporzionale a quella inaudita del Dio sospeso tra cielo e terra. I chiodi scavano la carne, aguzzi come le tentazioni. Crocifisso dalla tentazione. Solo l’identificazione al crocifisso può risolvere il circolo vizioso, infernale, di tentazione e perfezione. La scomparsa della prima non contempla ma accompagna la semplice accettazione dell’irraggiungibile perfezione. E allora anche la carne ignuda riveste i panni dell’abbandonato, evidenziando la sua finitezza al confine con la grazia, la sua pesanteur che muta in gloria. A Venezia, naturellement!

giovedì 3 settembre 2009

A proposito delle flotte navali della Georgia e dell'Abkhazia

Si sta risvegliando il conflitto tra la Georgia di Saakashvili e la Russia di Putin-Medvedev. Oggetto della diatriba sono le acque territoriali abkhaze o georgiane nel Mar Nero.

Nulla di particolarmente grave, ancora, anche perché la flotta georgiana, poche navi, era stata quasi completamente distrutta nel conflitto dell'agosto 2008, e quella abkhaza è costituita da qualche motoscafo su cui sono state montate delle mitragliatrici. Guerre tra poveri? Sembrerebbe, se non fosse che nel Mar Nero si sta aprendo un ulteriore fronte di attrito, dovuto alla annunciata chiusura da parte dell'Ucraina della base navale russa di Sebastopol, in Crimea (che come si sa appartiene a Kiev). La Russia mantiene un tratto di costa sul Mar Nero, quella dove è situata tra le altre città Soci, città scelta per i giochi olimpici invernali (!?!) del 2014, che in realtà avverranno sulle montagne del Caucaso russo e abkhazo. Ma quel tratto di costa non sembra tra i più adatti ad ospitare una base militare russa, che taluni vorrebbero vedere proprio in Abkhazia. Riporto qualche nota sulla mia visita, nell'agosto 2008, al porto di Poti qualche giorno dopo il raid dei russi.

Poti, 23 agosto 2008. Le vedette colate a picco

Le pinete sul mare sono incantevoli, finché non vengono deturpate dallo sfruttamento edilizio della regione costiera. Uno sfruttamento che in alcuni centri, come qui a Kobuleti, raggiunge proporzioni scandalose. Alberghi pretenziosi, vuoti di questi tempi, s’alternano a cadaveri di colonie estive d’epoca sovietica, orrori di rovine di non si sa che tipo di edifici, casette tutte nuove pittate di colori assurdi: arancio, lilla, giallo canarino, verde pisello, con archi e colonne e porticati perfettamente inutili e kitsch. Ecco una Disneyland in formato georgiano, orribile. Ureki: c’è ottima sabbia alla magnetite, per cui qui convenivano i bambini rachitici dell’Unione sovietica. Supsa: attraversiamo l’oleodotto Baku-Tbilisi Ceyan, oggetto di tanti appetiti russi e occidentali: nessuna traccia di bombardamenti o di danni agli impianti che, assai giganteschi, costeggiano la strada costiera. Maltauka: una stupenda pineta devastata dal cemento della speculazione. Cemento che si sgretola due anni dopo essere stato eretto! Poti, finalmente. Della città portuale di Poti in questi giorni ne abbiamo sentito parlare in modo quasi esagerato, come se l’avvenire della Georgia e dell’intera umanità dipendessero dalla sorte di questo porto che, va detto, ha una grande importanza sia per la Georgia che per i suoi due compagni d’avventura transaucasica, Armenia e Azerbaijan. Avevamo visto ripetute le immagini delle banchine del porto percorse dagli enormi tank russi, mentre una piccola imbarcazione colava a picco. Il resto era fantasia, e su Poti di immaginazione ne è stata usata molto, soprattutto dai giornalisti georgiani.

Preparati da questo battage, non crediamo ai nostri occhi avvicinandoci alla città senza incontrare nessun posto di blocco, nessuna traccia di militari, né di un campo né dell’altro. C’è solo un gran deserto, una spettrale vacuità del traffico automobilistico. Tutto è calmo, placido, come il mare, come l’afa, come le mucche che pascolano sul bordo della strada, o che si riposano sul caldo asfalto, incuranti di ogni passaggio d’automobili: la fanno da padrone. Arriviamo all’orrido monumento al “marinaio sconosciuto”, stilema bronzeo su cui incombono tre enormi mani-onde di gesso. Stupefacente. E così giungiamo al porto commerciale. I guardiani non hanno nessuna difficoltà a mostrarci i danni dell’intervento russo; anzi, lo fanno quasi potessero in questo modo influenzare la mia penna nel descrivere in modo orrido i russi. In realtà, debbo dirlo, i danni alla struttura commerciale è quasi nullo, tanto che, come mi confessano gli stessi guardiani, non si è mai smesso di lavorare. Anche i vagoni ferroviari qui non hanno mai cessato di raccogliere la merce. Certo, ora sono bloccati lungo i binari senza meta possibile… In realtà gli scontri a fuoco si sono limitati a cinque minuti di bombardamento aereo, con dodici ordigni scoppiati, qualche camion distrutto, qualche ferito e, forse, un paio di morti nella locale stazione elettrica. Il resto è tutto da verificare… Poi i russi si sono limitati a perlustrare le banchine e la stazione, anche se troppo a lungo per il parere della comunità internazionale.

Grazie ad un lungo periplo attraverso i campi che separano il porto commerciale da quello militare, incrociamo solo cani e gabbiani, mentre un’impressionante quantità di edifici paiono colpiti da una guerra immane: sono solo vittime delle guerre precedenti e dell’incuria. Alcuni sono ancora abitati, come dimostrano le interminabili corde con la biancheria stesa ad asciugare. Finché giungiamo alla postazione della guardia costiera, accolti a braccia aperte dalle guardie costiere, una decina di uomini, che dicono di aver visto finora solo qualche giornalista georgiano, ma nessuno straniero (mi vengono in mente certi articoli e certe trasmissioni evidentemente false…). Qui i danni si vedono: sono stati messi fuori uso gli impianti radar, sul molo i segni dei cingolati sono evidenti e nei bacini cinque navi sono state affondate. Navi, o per meglio dire tre motoscafi e due vedette della guardia costiera. I magazzini sono stati saccheggiati, qualche mezzo stradale è stato reso inutilizzabile. Ci sono anche altri scafi affondati, ma sembrano piuttosto delle carcasse del mare arrugginite che dei natanti! Lo smarrimento delle guardie è totale, così come la loro incapacità di reagire: non toccano nulla, fumano e bevono. Raccolgo un bossolo russo per terra, nessuno aveva pensato di metterlo da parte. Me lo porto via come souvenir. Senza vedere un solo militare, russo o georgiano che sia, ci avviamo verso Senaki, dove ha sede la più grande base militare georgiana, che sappiamo occupata dai russi. Solo al ponte d’accesso a Poti, da Nord, c’è una postazione: stanno pure scavando delle trincee, forse staranno a lungo da queste parti. Gli occupanti, comunque, si sono fatti discreti. Si sono ben mimetizzati per non spaventare la gente e non essere visti dai giornalisti come il sottoscritto. Ma sotto l’occhio vigile del grande fratello, attento come mai a non irritare i georgiani e a non scatenare inutili reazioni, nello stesso tempo i russi stanno irridendo i georgiani, con una presenza-assenza che alla fine può irritare e creare un infinito malessere. Risultato? Le strade sono vuote, la gente è come tramortita e non ne vuole sapere, in fondo, di tornare alla normalità. Preferisce rintanarsi nelle proprie case, guardare la tivù e leccarsi le ferite. È più facile far così che rimboccarsi le maniche e far qualcosa di utile per la collettività. Mentre il deserto umano si è impossessato della Georgia.

mercoledì 2 settembre 2009

Una giornata a Beslan

Cinque anni fa, dal primo al 3 settembre 2004, avvenne uno dei più cruenti attentati che il Caucaso settentrionale abbia mai conosciuto: 334 vittime, in massima parte bambini. Il racconto di una visita sui luoghi della vicenda, svoltasi nel 2007. Le "donne di Beslan" e la verità distorta sui fatti della Scuola n° 1.

Beslan, o del mistero della morte innocente. Dal viale alberato che si perde nella campagna di mais si scorge il vecchio cimitero dal colore della morte. D’improvviso appare una distesa di granito rosso protetto da un grande albero. Avanzo nel sole abbacinante, avendo come sfondo da un lato il mare di lapidi, inquietante per le foto infantili che mostrano, e dall’altro la campagna verdissima, grassa come ovunque nel Caucaso: la gente di Beslan è contadina, qui si produce vodka.
L’albero a protezione delle tombe muta all’avvicinarsi, rivelando un tronco massiccio composto dalle statue delle madri di Beslan che sollevano al cielo, come rami terribilmente terreni e come angeli leggeri e celesti, i loro bambini. Il memoriale di bronzo, alto una dozzina di metri, svetta naturale e innaturale, con le sue intricate fronde che segmentano il Cielo, quasi a significare lo sgomento che anche lassù s’è provato il 3 settembre 2004: 334 tombe. Benvenuti a Beslan.
Sotto la protezione dell’albero ci s’avventura in una delle più spaventose passeggiate esistenti sulla terra, quelle che toccano l’abominio. Provo le stesse sensazioni conosciute ad Auschwitz e Dachau, ma anche a Srebrenica, o al memoriale degli armeni a Yerevan. Tombe singole e a grappolo per le vittime della stessa famiglia – fino a cinque ne conto –; su ognuna le foto a colori di volti di piccoli angeli, di adolescenti imberbi in abito da nozze o con la maglietta del Milan, in posa o spontanei, sorridenti o impettiti. Qualche donna si aggira per i viali, si ferma a una tomba e poi a un’altra. Sono pochi i segni religiosi, quasi tutti cristiani, a testimonianza di una città che si risvegliava dal comunismo lentamente, senza manifestare trasporti mistici e nemmeno culturali.

“Scuola n° 1”. Il piazzale, poco più d’un prato, come un corridoio tra città e ferrovia. Qui bambini, insegnanti, bidelli e accompagnatori furono sorpresi dall’arrivo dei terroristi ingusci e ceceni, che li circondarono in pochi secondi, spingendoli poi nei locali della scuola, in particolare nella palestra che dà sul cortile. I luoghi visti e rivisti mille volte in tivù ora assumono un tutt’altro aspetto, un tutt’altro odore, una tutt’altra consistenza.
La palestra è diventata un memoriale in sé, con le foto plastificate delle vittime divise per categorie e per classi, con una grande croce ortodossa infilata nel cratere principale creatosi sul pavimento per l’impatto degli ordigni, bandiere e stendardi, orsacchiotti e pupazzi d’ogni genere deposti dai piccoli visitatori, qualche foto rovinata di quei giorni, fiori d’ogni tipo, travi bruciate del soffitto (ora ricoperto di plexiglass), qualche quaderno, qualche messaggio pietoso. E molte bottigliette d’acqua: la sete era stato il tormento principale per i bambini in quei giorni, e l’acqua è perciò diventata il segno del ricordo amoroso per coloro che hanno perso la vita a Beslan. Si riconosce una bandiera arcobaleno della pace, portata da gente di Carrara.
Mi avventuro per un cunicolo oscuro e mi ritrovo a deambulare senza meta apparente, seguendo i corridoi, entrando in un’aula o in un laboratorio, salendo scale profanate, sostando dinanzi ad un quaderno, sfogliando un libro di matematica, togliendo la polvere da un ritratto di Einstein, scoprendo tra i calcinacci un disco di canti popolari, guardando la tappezzeria dell’ufficio del direttore che era stata appena cambiata. Dappertutto fori di proiettili, vetri in frantumi, mobili resi scheletri osceni, controsoffiti che pendono come brandelli di carne abbrustolita, muri sventrati che mostrano la trama di legno e paglia. Nulla s’è salvato dalla distruzione in quei tre giorni d’inferno, ad opera dei terroristi ma anche (e soprattutto) delle forze speciali intervenute con una determinazione non inferiore a quella dei terroristi.
Non c’è più un solo proiettile, una sola traccia organica, qualcosa che possa essere utile alla ricerca della verità: tutto è stato asportato, tranne ciò che era inutile. Ma resta l’essenziale. Resta ora solo, appunto, l’inutile, metafora della vita dei bimbi secondo coloro che hanno sparato e ucciso; restano buchi, vuoti e mancanze, cioè quanto il Dio morto in croce ha svelato.

Quasi tutto è rimasto com’era in quel 4 settembre del 2004, dopo che soccorritori e forze speciali avevano portato via le ultime vittime, in tutto 334 stando agli ultimi accertamenti, come mi conferma il vice-capo dell’amministrazione della regione, Khasbi Koniev. È stata avanzata la proposta di radere al suolo la scuola e costruire al suo posto una chiesa. Ma, come ci spiega Koniev, la decisione non è per niente pacifica: «Alcuni vogliono che tutto rimanga così com’è, che non si tocchi niente: altri dicono invece che si deve preservare dalla distruzione solo la palestra; e poi c’è chi vuole rimuovere le macerie e costruire una chiesa». E chi una moschea. Bella Dzugkaeva – due figli sopravvissuti ai tre giorni di sequestro – mi spiega che, abitando davanti alla scuola, per lei e i suoi è insostenibile avere davanti agli occhi tutti i giorni e a tutte le ore quella drammatica visione, quasi un quadro ossessionante: «Ci vorrebbe un memoriale, penso una chiesa. In quei giorni chi era dentro la scuola ha pregato, così come noi che eravamo fuori dalla scuola: ci siamo messi in ginocchio. Durante tutta la vita eravamo stati atei, ma in quei momenti ci siamo rivolti verso Dio», mi confida. Le famiglie che si affacciano sul suo stesso cortile hanno accompagnato al cimitero in quei giorni 34 bare. «Per un anno non abbiamo sentito ridere e schiamazzare nel cortile. Adesso siamo felici quando sentiamo di nuovo le grida dei bambini che giocano». La vita a Beslan ormai è divisa tra un “prima” e un “dopo”: ma da quest’anno si sente di nuovo la musica nei locali nella cittadina.
Per Bella Dzugkaeva il lavoro da terminare è quello di portare chi ha sofferto per quel trauma terribile a credere che nel mondo il bene esiste: «Cerchiamo di convincerli che, nonostante tutto quello che è successo, le persone buone sono molto più numerose delle cattive». Ricorda che, mentre assisteva il figlio maggiore ricoverato in ospedale a Mosca, «una donna anziana, povera, che non ci conosceva, ci ha portato mele e uova sode… Un gesto che ci ha molto toccato, perché quella donna ha dato tutto quello che aveva».
Khasbi Koniev ricorda anche la solidarietà internazionale, i Paesi che hanno ospitato gruppi di bambini di Beslan, Italia in testa. «Un’organizzazione italiana ci ha regalato 600 biciclette, una per ogni bambino sopravvissuto al sequestro», aggiunge. Quest’anno hanno terminato la scuola una cinquantina di ragazzi e ragazze che erano stati ostaggio durante quei tre giorni. Koniev sottolinea il caso di Diana Murtazova, costretta su una sedia a rotelle dopo la tragedia e sottoposta a una lunga serie di interventi chirurgici, costretta a studiare a casa tra una cura e un’altra: anche lei ha finito la scuola con gran merito.
Che la polemica sia ancora aperta sulla verità dei fatti di Beslan, Khasbi Koniev non lo nasconde: «C’è chi dice che le indagini non siano state compiute in modo esauriente e corretto e che non tutti i colpevoli siano stati tirati in ballo». E aggiunge che sono soprattutto le “Madri di Beslan” a volere una risposta esauriente ai loro tanti perché.

Le "madri di Beslan". Di tutto ciò parlo più a lungo con Ella Kessaeva, anima della organizzazione “Voce di Beslan”, appunto tra le più attive “Madri di Beslan”. In un ufficio improvvisato dentro la sua abitazione prepara il materiale per una nuova seduta in tribunale, contro l’amnistia concessa ai poliziotti dell’Inguscezia che, secondo loro, hanno la colpa di aver lasciato passare il gruppo dei terroristi. «Le cause le perdiamo immancabilmente, perché qui in Russia non c’è giustizia nei tribunali». Anche questa volta perderanno.
Ma Ella Kessaeva parla con la serenità di chi è convinta di quello che fa: non a caso era amica di quella Anna Politkovskaja che è stata uccisa nell’ottobre 2006 a Mosca, con tutta probabilità anche per le sue coraggiose inchieste sulle menzogne di Beslan. Parla con cognizione di causa, Ella, perché aveva una figlia nella scuola, sopravvissuta per miracolo al massacro. Mentre le due donne che lavorano ora con lei hanno storie più tragiche: Svetlana Narghieva ha perso una figlia in quei giorni ed Emma Tagaeva ha perso il marito e due figli, cioè tutta la sua famiglia.
Ella Kessaeva sostiene che le autorità non hanno detto tutta la verità sull’assedio e sull’intervento degli agenti speciali. Per confermare le sue accuse fa riferimento alla relazione presentata da Yuri Savelev, deputato del Parlamento russo e membro della Commissione parlamentare d’inchiesta su Beslan, che al termine dei suoi lavori ha rifiutato di firmare la relazione ufficiale, proponendone una alternativa. Il principale punto di contrasto tra la versione ufficiale e quest’ultima consiste nel fatto che Savelev attribuisce l’origine delle prime esplosioni, quelle che hanno scatenato l’assalto finale, non allo scoppio di un ordigno dei terroristi ma al fuoco dei lanciagranate appostati sui tetti dei palazzi di fronte alla scuola. Sarebbero perciò pochi i morti attribuibili all’azione dei terroristi rispetto a quelli provocati dall’attacco finale degli agenti russi.
Ella Kessaeva ora pensa che sarà possibile portare il caso al tribunale di Strasburgo, per far prevalere finalmente la verità. Ma intanto, anche lei si mostra grata della solidarietà internazionale provocata dalla tragedia di Beslan: «Siamo riconoscenti all’Italia che ha reagito per prima all’orrore: non dimenticheremo la fiaccolata di Roma di quelle ore, e il fatto che per primi gli italiani hanno invitato i nostri bambini in vacanza da loro».

Un tocco d’Italia. I funzionari del ministero degli Esteri insistono perché visiti un ulteriore segno della solidarietà italiana, un padiglione di pediatria costruito dalla Protezione civile italiana, col contributo dell’ospedale di Macerata, all’indomani dell’emozione della strage di Beslan e il desiderio tutto italico di offrire ai bambini sopravvissuti e feriti la possibilità di riprendersi, di curarsi, di riabilitarsi dagli handicap di cui soffrivano all’indomani della strage.
Il pediatrico è inserito in un grande parco alberato, in cui prendono posto una decina di padiglioni che dire fatiscenti è poco. Il contrasto col padiglione colorato costruito dagli italiani colpisce. È come un doposcuola, un parco giochi per i bambini, che qui usufruiscono di cure rese anch’esse simili a giochi. Con 380 mila euro, mi spiega Tamerlan Zaseev, funzionario del ministero degli Esteri che non poco s’è dato da fare per la sua realizzazione, per superare le innumerevoli frizioni tra le amministrazioni italiana e osseta, per trovare trucchi atti a risparmiare senza snaturare il progetto. Indubbiamente va fiero di quanto ha fatto per questo reparto.
Ma non è tutto. In uno dei padiglioni più fatiscenti – controsoffitti cadenti, fili scoperti, sporcizia inveterata, cattivo gusto imperante, porte di sicurezza chiuse a chiave, scale come vere barriere architettoniche, vetri rotti e sporchi, porte raschiate e mai pitturate, intonaci con le bolle con la scabbia con la lebbra, macchinari vecchi di cinquant’anni –, la nostra Protezione civile ha riadattato un reparto su due piani. Pare di entrare in un altro mondo, un mondo di soli e lune, fiori e praterie. Un vero miracolo di attenzione ai piccoli. Entro in qualche stanza, dove intere famiglie si trasferiscono col loro bambino malato – pronta accoglienza, interesse per la sindrome del piccolo, lacrime, preghiere, abbracci –, e ci si rende conto che con poco, con pochissimo si può fare del bene, cambiare una bruttura in una bellezza, l’inutile in utile, la morte in vita. Di nuovo, come sempre, più di sempre.
Tamerlan mi segnala anche altri contributi arrivati dall’Italia dopo Beslan: Maria Pia Fanfani e il suo “Sempre insieme per la pace”, con la Fondazione Olivetti (giocattoli, camioncini…); Protezione civile (ospedale pediatrico di Vladikavkaz con 26 posti letto, biciclette per i bambini sopravvissuti, equipaggiamenti medici, riparazione del laboratorio di encefalografia ed elettrotomografia dell’ospedale di Beslan, 30 bimbi in Italia per le vacanze di Natale); Regione Veneto (fondi); Ennio Bordato di Trento e la sua associazione (30 bimbi e 30 genitori per due mesi in Italia); Università di Padova (psicologi a Beslan); COPAM del sen. Provera (borse di studio). Qui degli italiani, prima del dramma di Beslan, ci si ricordava in primo luogo per il loro passaggio disperato, persi nella steppa durante la fase finale della Seconda guerra mondiale… Ora è un’altra cosa.