mercoledì 29 febbraio 2012

Piazza Armerina, mosaici e degrado


Nella città da cui Mario Strzo ispirava il fratello Luigi, oggi si respira la gloria passata e il presente d'incertezza.

Il degrado urbano non è da poco, proporzionale alla bellezza dei luoghi. Percorrere le vie del centro storico porta sentimenti di sconforto e di esaltazione, soprattutto quando ci si rende conto che tale degrado è anche dovuto all’inefficienza della sovrintendenza. Così il vasto centro storico, centrato sulla mastodontica cattedrale, viene deturpato da infissi d’alluminio, garage senza alcuna logica architettonica, sopraelevazioni abusive d’edifici storici: un declino cominciato nel 1936, quando Enna fu preferita come provincia a Piazza Armerina, nonostante fosse più piccola e meno famosa: Mussolini volle punire la città che ospitava come vescovo mons. Mario Sturzo, fratello del più noto don Luigi, acerrimo e sottile nemico del fascismo, che da qui lo ispirava dall’alto del suo trono vescovile.

A Piazza Armerina sono le chiese che stupiscono: numerosissime, in massima parte abbandonate all’incuria, nonostante la pregevole fattura delle sue architetture barocche e la valenza artistica di quanto contengono. La ricchezza artistica di Piazza Armerina è incomparabile, come si ammira nelle sue numerose piaxxe e piazzette, a geometrie assurde, sempre in pendenza, sempre attraversate da scale e scalinate di pregevole concezione e fattura, anch’esse in abbandono, troppo spesso. Scorci sempre nuovi appaiono ogni volta che si gira un angolo, ogni volta che penetro in un portone, che riserva immancabilmente le sue sorprese: archi e archetti, misteriosi antri, scale attorcigliate, commistioni fantasmagoriche di pietra e vegetazione.

lunedì 20 febbraio 2012

I buchi e gli stipiti


Anche in Spagna chiudono i negozi, chi può emigra e gli altri s’arrangiano. La soluzione? A lungo termine, un nuovo umanesimo

In viaggio a Madrid per la presentazione di un libro, mi sono spinto fino a Salamanca, per contatti universitari. Un’occasione propizia per conoscere una delle più incantevoli città europee, un gioiello d’arte e d’accademia. Anche qui, come a Madrid, come a Roma e, in misura molto maggiore, ad Atene, sono stato colpito da un’insolita presenza nelle vie cittadine più centrali, anzi, un’assenza: qua e là appaiono infatti dei “buchi” che hanno tutta l’aria di non essere momentanei. Qua e là dei negozi, anche di qualità superiore, scompaiono infatti. Niente più luminarie, niente esposizioni d’opulenza più o meno elegante, niente più continuità nelle solitamente ininterrotte teorie dei luoghi del consumo. Talvolta qualche commerciante arabo o cinese viene in soccorso della difficoltà, e impianta la sua botteguccia senza decoro, ma il più delle volte l’abbandono, la polvere, le scritte a spray, le bollette infilate sotto la porta e rimaste inevase dicono che in quel luogo si è consumato il dramma di commercianti che non ce la fanno più a mantenere gli standard della ricca vita europea. Spettacolo triste, così simile a quanto avevamo visto nei Paesi dell’Est europeo alla caduta del muro, così come vediamo nei Paesi in rivoluzione del vicino mondo musulmano: Tunisia, Egitto, Siria, Iraq…

Anche quella che sta combattendo l’Europa è una guerra, economica ovviamente. Con risultati ancora incerti. Non basta mettere in atto misure di austerità, bisogna anche cambiare il nostro modello di sviluppo. Sugli stipiti delle porte di Salamanca ho scorto decine e decine di bigliettini attaccati con lo scotch: «Non buttare la tua roba vecchia, te la compro io»… «Hai bisogno di affidare i tuoi bambini a gente fidata?»… «Vendo un salotto di belle come nuovo»… «Pratico massaggi a domicilio»… Così. Ci si industria, ci s’arrangia. La flessibilità è già in atto qui a Salamanca, prima ancora delle misure di Rajoy. Prima della Fornero, ovviamente, anche da noi.

È l’ora di una maggiore giustizia distributiva: nel momento della crisi generalizzata, tocca dividere equamente quel po’ che resta. È l’ora di un’attenzione profonda alla miseria di chi non ce la fa più. È l’ora di un nuovo umanesimo che rimetta al centro l’uomo, e non il soldo. Qui a Salamanca, patria di umanesimo, tocca trovarne uno nuovo, di umanesimo. Il vecchio non basta più.

lunedì 6 febbraio 2012

Piazza Tahrir, il luogo della rivoluzione


Continua la transizione araba, alti e bassi, violenze e pacificazioni. Dall'esito della rivoluzione egiziana dipende il futuro del mondo arabo.

Davanti alla moschea Omar Makram, che dà su Midan Tahrir, Piazza Tahrir, proprio di fronte al Museo egizio, c’è un assembramento di gente vociante. Un uomo di statura modesta avanza tra la folla, scortato da una dozzina di ener-gumeni. È Amr Mussa, già presidente della Lega araba, ora candidato alla pre-sidenza del Nuovo Egitto. Come Mussa, tutti i candidati stanno cercando di intercettare il voto dei musulmani, dopo che le elezioni legislative hanno dato risultati sorprendenti: gli attesi Fratelli musulmani (partito islamico “modera-to”) hanno sfiorato il 40 per cento, mentre gli inattesi salafiti (radicali) s’avvicinano al 25. I liberali si sono fermati al 15. Non mancano le accuse di brogli e d’inganno perpetrato ai danni degli analfabeti, che in Egitto sarebbero la metà della popolazione. Sconfitta degli aneliti di libertà del popolo?
C’è sempre gente a Piazza Tahrir da quel 25 gennaio 2011 in cui una manife-stazione s’era d’improvviso radunata per protestare contro Mubarak e la man-canza di libertà. Come un vaso colmo che versa il suo contenuto tutt’attorno a sé. Certo, gli entusiasmi si sono raffreddati, dopo i gravi incidenti sotto della torre tv Maspero, il 9 ottobre scorso: 27 morti e centinaia di feriti. Ormai le proteste si concentrano sull’esercito, onnipresente nella società egiziana.
Due o tre gruppi di giovani e meno giovani scoppiano in grida di protesta, sventolano bandiere e stendardi, qualche ritratto dei martiri di piazza Tahrir (si parla ormai di 800 morti e 5 mila feriti). Un venditore di magliette a tema rivoluzionario, parla un po’ d’italiano, non si preoccupa: qui ormai la protesta è normale. «Abbiamo imparato a parlare». A essere liberi? «Vedremo».
In un angolo della piazza un palazzo è ingabbiato in strisce di plastica verde. Accanto, un muro di cubi di cemento d’un metro di diametro è stato eretto dalle autorità per evitare le infiltrazioni dei contestatori. Non tutti sanno che quel palazzo bruciato il 16 dicembre 2011 forse per caso o forse per dolo, ha mandato in un fumo il simbolo stesso del tentativo europeo di conciliare Islam e modernità: era l’Accademia scientifica d’Egitto, fondata da Napoleone nel 1798, ricca di 200 mila volumi di enorme valore scientifico, un pezzo della sto-ria del Paese.
Sono andato alla ricerca della gente di Piazza Tahrir, quella della prima ora, quella che ha rischiato sulla propria pelle. E l’ho trovata. Ramy Boulos (26) è un copto cristiano, cattolico, ingegnere medico. Da qualche mese ha scelto di lasciare la professione per dedicarsi alla difesa dei diritti umani. Ora lavora per l’Egyptian Center for woman rights, per la difesa dei diritti delle donne. Lui a Piazza Tahrir c’era già il 25 gennaio. La vigilia aveva manifestato su Fa-cebook la sua frustrazione per lo stallo in cui versava la libertà all’egiziana. Poi il 25, consultando il suo smartphone, ha sentito dei primi incidenti. «Ho intui-to che qualcosa di grande stava succedendo, e mi sono precipitato sul posto». Non sa bene quali siano state le ragioni dello scoppio: «Credo che ad accomu-narci tutti fosse il desiderio di una vita migliore. Gli slogan chiedevano pace, libertà e giustizia sociale, la sintesi delle rivendicazioni». Non è chiaro nem-meno chi abbia iniziato: «Nessuno può dirlo. Ma so che ci guardavamo in mo-do diverso dal solito, più libero e più fiducioso». Social network? «Sono i no-stri strumenti di aggregazione e battaglia. Abbiamo cominciato a pubblicare video, interviste, paragonando le dichiarazioni dei capi dell’esercito e il loro effettivo comportamento».
Ahmad el Bohy (30) è anche lui ingegnere, un libero professionista. È musul-mano sufi, ha due figli. Se Ramy s’era beccato sulla testa una pietra che l’aveva ferito non gravemente, Ahmad, anch’egli un rivoluzionario della prima ora, il 26 gennaio 2011 s’è beccato due delle famigerate pallottole di gomma tirate dai soldati egiziani sulla folla ad altezza d’uomo, provocando tra l’altro centi-naia di casi di cecità. Ahmad è stato colpito solo su braccio destro e la spalla sinistra. «In realtà noi manifestanti non volevamo attaccare la polizia e l’esercito, ma solo resistere. Così come loro non avrebbero voluto picchiarci, ma farci sgomberare. Non ci sono riusciti. E la folla ha manifestato non solo un grande coraggio, ma anche una intelligenza tattica che ha fatto infuriare le forze dell’ordine, che si sono viste derise dai nostri stratagemmi». Il futuro per Ahmad è chiaro: «Abbiamo pagato col sangue il nostro avvenire. In Egitto non lo si sparge di frequente e quando scorre trasmette una forza ancestrale. La libertà l’abbiamo sperimentata, ormai non la lasceremo più. Nemmeno a chi vuole imporre la tradizione islamica a tutta la popolazione».