lunedì 19 settembre 2011

Copacabana, la benedizione e l’osservatorio


Viaggio in Bolivia/9 - Sul Lago Titicaca, dove il cielo si fonde coll'acqua, infuocandosi

È una perla del lago Titicaca, Copacabana. Per la sua posizione geografica, soprattutto. Costruita tra due incantevoli insenature, è custodita e protetta da due collinette rotondette ma impervie – a 3800 metri la più piccola salita è una montagna –: il Cerro Calvario, promontorio sul lago, e il Cerro Kopacafe, che dà verso la frontiera peruviana.

C’è aria di festa da queste parti, come sempre accade, o quasi, a motivo della Madonna: la Virgen de Candelaria (o de Copacabana), scolpita da Francisco Yupanqui, nipote dell’imperatore inca Tupac Tupanqui. È custodita in una cappella chiamata Camarín de la Virgen de Candelaria, e non è mai stata spostata, perché secondo una tradizionale profezia il suo allontanamento farebbe straripare il lago Titiaca. In questo periodo i peruviani aymara scendono da queste parti per far benedire le loro auto e i loro camion nuovi, decorati con ghirlande di carta e di fiori, facendoli aspergere dall’acqua benedetta dei francescani, e aspergendole essi stessi con quell’altra acqua benedetta, o piuttosto sacra, che risponde al nome di alcol. S’è creata una confusione notevole, anche perché la chiesa sta proprio di fronte al mercato domenicale. E i pur volenterosi poliziotti sembrano aggiungere confusione a confusione.

Una nota a parte merita la “cappella delle candele”, uno stretto e oscuro locale affumicato, attiguo alla chiesa, dove i boliviani offrono le loro candele alla Virgen, ceri di ogni grandezza e colore. Ma non soddisfatti dall’offerta votiva, sciolgono la cera per poi tracciare sui muri le loro domande a disegni, i loro desideri, una casa, un’auto, una guarigione, un matrimonio… Nell’oscurità della cappella ricchi e poveri sono tutti uguali, piccoli e grandi, aymara, quechua, bianchi e meticci.

Ma Copacabana è anche altro. Seguendo un cammino che dalla chiesa s’indirizza verso Sud, verso la collina di Cerro Kopacafe, si giunge a un sito chiamato Horca del Inca, l’osservatorio dell’inca, un misterioso luogo pre-incaico e incaico che conserva una sorta di porta, cioè due blocchi di pietra uniti da una traversina perpendicolare anch’essa di pietra che, secondo la tradizione, nel giorno del solstizio del 21 giugno, Capodanno aymara, viene completamente illuminata dai raggi del sole, all’alba, filtrando attraverso altre pietre forate o disposte in un modo che pare voluto. Al sito si giunge percorrendo un cammino che richiede una buona mezz’ora di marcia, che toglie il respiro e che lascia interdetti per l’alternanza tra lunghi lastroni di pietra levigata e scalini ora incisi nella roccia, ora costruiti con pietre di riporto.

Il vento soffia, mi porta via il cappello a larghe falde appena acquistato al mercato. Ma nel contempo sembra conservare il mistero e il sacro, l’armonia universale e il contrasto tra gli elementi della natura. E ci si lascia inebriare dalla luce e dal vento, dal fiato mozzato e dalla pace del cuore. Pronti a ridiscendere a valle, sul lungolago e sulla spiaggia, dove si beve e ci si gode il sole, si mangia e si espongono le auto appena benedette. La festa da queste parti pare una condizione di vita, assieme alla fatica.

giovedì 15 settembre 2011

La Paz, la città che non ha vie piane

Viaggio in Bolivia/8 Una città straordinaria, assolutamente unica. Dove si vive in altezza, lentamente

Pazza città, La Paz, anche se il suo nome non viene certo da “pazzia” ma da Nostra Señora de la Paz, la Madonna più venerata del posto. Pazza lo è, perché non si costruisce una metropoli in tali sfavorevoli condizioni di altezza e di clima, per giunta tutta in salita, o discesa, tra i 3300 metri della Zona Sur e i 4000 metri di El Alto. Pazza perché lungo le sue direttrici presenta un’incredibile varietà di tipologie di abitazione, dalla baracca al grattacielo, dalla chiesa colonial ai palazzi del potere di stile indefinito, dai musei graziosi e ben fatti a quelli che non dicono nulla. La Paz vive di commistioni tra etnie diverse che qui convivono con una certa serenità – anche se, sopra di essa, sull’altopiano, s’è creata negli ultimi 30 anni una’altra metropoli, El Alto appunto, che conta quasi un milione di abitanti, al 90 per cento di etnia aymara, la gente del lago –, nonostante la evidente differenza di razza. Si vedono ricchi professionisti d’origine india e vecchi dalla pelle bianca quasi alla miseria. Così va il mondo, anche a La Paz.

Girellare per la città non è comunque esercizio da poco: in primo luogo perché l’altitudine obbliga a una deambulazione lenta, ponderata, regolare; secondo, perché qui a La Paz non esiste una “cultura” dei marciapiedi, che immancabilmente sono stretti, sconnessi e pericolosamente esposti al traffico caotico della città; che per giunta, ed ecco la terza difficoltà, è composto da auto, pullman e pullmini che non hanno certo passato il bollino blu; infine, quarto motivo per una deambulazione complessa, c’è la mancanza di numerazione razionale nelle strade della città. Non ci sono indicazioni precise, e così quasi sempre bisogna arrangiarsi.

E tuttavia La Paz prende il cuore, mostra la vivacità che viene dalla diversità, evidenzia la reale democrazia del Paese pur nella sua giovinezza e, in fondo, nella sua precarietà istituzionale. Nel corso del mio breve soggiorno, tre giorni appena, assisto in effetti a tre manifestazioni, modeste nel numero – più o meno duecento persone – ma rumorose e decise, al cuore delle quali si trovano donne aymara con i loro cappellini a bombetta in bilico sulla testa, la loro mole cospicua, le loro voce improvvisamente potente (qui si parla sempre piano, quasi sottovoce). E tutto ciò a due passi dal Parlamento, dove si muove la fauna umana tipica del potere, dei portaborse, delle segretarie dai tailleur attillati e scollati, appena un po’. Nei mercati che invadono gran parte della città, soprattutto nel centro, la propensione femminile al commercio s’evidenzia in tutta la sua forza: un venditore su tre è maschio, le altre due sono signore e signorine di tutte le età molto impegnate nella loro missione commerciale, assolutamente iscritta nel loro Dna.

E poi a La Paz ogni via scoscesa (cioè tutte) ha delle presenze misteriose, a cominciare dalla sagoma impressionante dell’Illimani, la mitica montagna che supera i seimila metri, e presente ovunque come una protezione e una minaccia. C’è poi lo sfondo delle pareti del canyon “foderate” di casette in mattoni senza intonaco, o di baracche, o invece di abitazioni più dignitose in alcuni quartieri più residenziali: gradini abitativi senza fine. Ed è misterioso pure l’equilibrio delle sue diverse presenze umane, dei colori della pelle, delle fogge vestimentarie. A La Paz la banalità della piana non esisterà mai. Tutto deve essere più difficile, ma anche più appassionante. Non è antica, La Paz. Come Potosí e Lima, è stata fondata dagli spagnoli per i loro commerci, in particolare quello dell’argento che, estratto dal Cerro Rico di Potosí, finiva nei galeoni ormeggiati nel porto di Lima: La Paz era il principale luogo di transito di tanta ricca mercanzia. E poi si diceva che il Rio Choqueyapu, che costituisce la spina dorsale della città, fosse ricco d’oro, ma non era vero. Ma il capitano Mendoza, che la fondò nel 1548, non se ne diede a male e ne diventò il primo sindaco: seppe tenere assieme la popolazione spagnola, quasi esclusivamente maschile, e quella indigena, dando ben presto origine a una città molto meticcia. E turbolenta, visto che ha ospitato dopo l’indipendenza del 1825 quasi duecento governi!

Non c’è molto da vedere di artistico a La Paz: una cattedrale neoclassica, una chiesa di san Francesco in buono stile coloniale e mestizo, qualche museo – interessante e insolito quello sulla coca; ricco e intrigante quello sull’etnologia e il folklore; imperdibile e ben assortito quello di archeologia, con buoni reperti dalla città pre-incaica di Tiwanaku –, soprattutto immensi mercati, talvolta turistici, talaltra invece “autentici”. Non c’è molto da vedere, è vero, ma La Paz ti conquista con la sua vitalità economica e culturale, con la sua anima una e molteplice, che sembra lasciar spazio a chiunque, in una democrazia partecipativa che pare ancorarsi lontano nel tempo, molto lontano.

mercoledì 7 settembre 2011

Ascoli Piceno, la notte e il giorno, la bellezza


Breve toccata e fuga in una città che è come un salotto, in cui si sorbisce l'Anisetta e si ammirano le pietre antiche.

I salotti pubblici, quelli autentici, si valutano la notte e all’alba. Una questione di luce. Ad Ascoli l’oscurità addormenta un un festival di marmi e pietre e stemmi e colonne. Il bell'imbusto che deambula al braccio della sua donna proprio di fronte al mio punto d'osservazione mi sembri provi addirittura momenti d’imbarazzo nel volgere lo sguardo alla bellezza dell’amata, al suo profilo giusto, alle sue labbra disegnate da Fidia e unte di brillìo, alla fronte che ricorda la perfezione della geometria, allo sguardo che investiga le intenzioni dell’amato. E ritrova quelle labbra, quella fronte, quegli sguardi sulle scanalature del marmo, sulla lucentezza delle pavimentazioni delle piazze, sui cornicioni delle dimore signorili. C’è quasi un velo di gelosia nel trio: lui, lei, la città.

Il desco pacifica le vampe del fresco e dell’oscurità sotto volte ornate del candore appassionato della patronne, che gode della serenità degli avventori e della messa in moto delle loro papille, sollecitate dalle ricette della nonna, della terra e della fantasia. E così la follia di Nietzsche rivive come genialità, il Petit traité des grande vertus del Comte-Sponville diventa il Petit traité des grandes beautés. Si vorrebbe dilatare il rempo e ridurre lo spazio alla fusione.

L’Ascoli Piceno dell’operosa normalità l’ho solo immaginata tra un tramonto e un’alba. L’ho vista popolata di eteree fate e di svelti cavalieri. Nulla di più reale di un sogno ad occhi aperti. Grazie a Dio.