martedì 22 luglio 2014

Aeroporto di Paro, pare che sia il secondo più pericoloso al mondo


Viaggio in Nepal e Bhutan/12 e ultimo - Lascio una terra fantastica, difficile, colorata. Ne valeva la pena

In Bhutan non esiste altra valle che possa ospitare degli aerei della taglia di un A320, non di un Boeing 777. Non esiste altro spazio pianeggiante, o spianabile, di due chilometri di lunghezza. È nella valle di Paro, ad una settantina di chilometri da Thimphu, la capitale del piccolo regno himalayano. Ma c’è un ma. La valle è estremamente ventosa e i due chilometri che ospitano la pista muoiono in due montagne che obbligano il pilota a una doppia virata che, se in partenza è ancora difficile ma fattibile, in atterraggio richiedere perizia e maestria: non è ammesso errore. Senza poi parlare dell’altra decina di virate necessarie per raggiungere quota e velocità adatte al landing. In compenso, sull’aerodromo infonde la sua sicurezza il grande e bellissimo Rimpung Pung Dzong, il centro amministrativo e religioso della regione più occidentale del Paese.
Stamattina levataccia per essere alle 6 all’aeroporto, due ore prima del volo per Kathmandu. Fa freddo e le nuvole sono basse. Formalità rapidissime, accompagnate dagli inevitabili sorrisi di tutti, dico tutti, gli addetti ai voli e alle frontiere. Poi, verso le 7 e mezzo, m’accorgo che in effetti nessun volo sta partendo, né alcun aereo atterra. Chiedo informazioni, effettivamente la nebbia copre la visuale della delicata partenza, per cui è vietato ogni volo prima che il cielo non si liberi delle nuvole. E non è per niente sicuro che ciò accada rapidamente. C’è solo da attendere con pazienza. Tanto più che le gentilissime addette offrono ai passeggeri in attesa tè, caffè e pastorelle. Non ci sono linee invalicabili, sembra di essere nel proprio ufficio, ci si muove con libertà, si possono lasciare i propri bagagli incustoditi senza timore alcuno. Par di essere in un altro mondo. Anzi, siamo in un altro mondo.

martedì 15 luglio 2014

Drukgyel Dzong, dove è cominciata la storia del Bhutan



Viaggio in Nepal e Bhutan/11 - Un'altra fortificazione militare e votiva nel Paese più felice del mondo. Questa volta in rovina. Scavando nei secoli

Nel 1644 i bhutanesi riuscirono a liberarsi dagli invasori tibetani, finalmente! L’unità del Paese era possibile. Per commemorare l’evento, il Zhabdrung Ngawang Nangyal, cioè il lama leader spirituale e politico più influente, decise di far costruire, proprio sulla via del Tibet dalla cui occupazione ci si liberava, uno dzong, tempio e fortificazione assieme, che testimoniasse la vittoria (gyel) del Bhutan (Druk). Scelse la via che porta al Tremo La, il passo che dà sul Tibet, e poi al massiccio Jumolhari. Ma la costruzione non aveva solo finalità commemorative: qui in effetti si riuscì a rintuzzare l’attacco che gli indemoniati tibetani sferrarono contro i bhutanesi sperando di ottenere una decisiva penetrazione nel terreno perso. Lo stratagemma di costruire una falsa entrata allo dzong, che s’apriva su un vasto cortile chiuso, permise di intrappolare gran parte degli assalitori, tra cui il loro capo, e di decimarli, mettendo gli assalitori sopravvissuti in fuga.
Più forte dei tibetani, però, è stato il fuoco, che nel 1951 ha distrutto lo dzong. Finora non sono stati trovati i fondi necessari per restaurarlo e così la fortificazione giace come una memoria della caducità degli uomini e del loro presunto potere. Attorno allo dzong è cresciuto un modestissimo abitato, per giunta assai disordinato, che vive del trekking: qui la strada più o meno carrozzabile finisce, poi fino al confine col Tibet, e molto più in là, c’è solo montagna. Un bel sentiero lastricato conduce a quel che resta dello dzong, le cui mura, abbarbicate sulla roccia viva a picco sul cammino, fanno forse più impressione nello stato attuale che se fossero nello stato originario. Pare che una enorme massa nera incomba sulla valle. L’ingresso, quello vero, non quello fittizio, è un budello a scalinata che eleva fino alla spianata dinanzi all’utse (torre) e poi al lhakhang (tempio). Si vedono ancora le travi bruciate infisse ai muri che, senza più l’intonacatura bianca, appaiono quello che sono, cioè terra pressata e seccata secondo il tradizionale metodo locale. Solo le mura perimetrali e quelle degli edifici più elevati sono in pietra.
M’aggiro tra le rovine in cerca di qualcosa, non so nemmeno io cosa, però. E mi par di trovare, più che nello splendore dei templi tutti d’oro, la natura più vera del buddhismo, quello che cerca il nulla…

lunedì 7 luglio 2014

Changi Pünsel Podrang, il più grande del mondo

Viaggio in Nepal e Bhutan/10 - Una enorme statua del Buddha che svetta sulla capitale Thimphu


È alto 51 metri, tutti di bronzo. E nel basamento sono ospitati 100 mila statuette dello stesso Buddha alte 8 pollici e altre 25 mila alte 12 pollici. Sono questi i numeri del Buddha Dordenma, che dovrebbe essere il più grande al mondo. È stato voluto nel sito del Changi Pünsel Podrang da Trizin Tserin Rinpoche, un grande leader spirituale, ed è quasi terminato, dopo una dozzina d’anni di lavoro. La statua (fusa in Cina e poi trasportata fin qui a pezzi) si trova a picco sulla capitale Thimphu. La statua è visibile da tutta la città e anche oltre. Pare aver preso esempio dal Cristo Redentore di Rio de Janeiro o dalla enorme croce fatta costruire dai cristiani sopra Skopije, capitale della Macedonia.

Inutile dirlo, fa veramente impressione arrivandovi per i tornanti della strada che parte da Thimphu, immersa com’è in un bosco attraversato in ogni direzione adlle sventolanti bandiere-preghiere buddhiste dei cinque colori degli elementi naturali. La statua è ormai completata e liberata dalle impalcature, mentre il basamento è da completare, anche se l’esterno è interamente ricoperto di piccole mattonelle dorate. Dinanzi, un enorme piazzale nel quale, si dice, si svolgeranno le cerimonie più suggestive della tradizione bhutanese, a cominciare da certe manifestazioni dello tsechu di Thimphu, il festival di musiche e danze che fa la gioia di esteti e fotografi. Tutto si svolgerà sotto lo sguardo altamente misericordioso del Buddha.

mercoledì 2 luglio 2014

Punakha Dzong, dove s’è fatto il Bhutan

Viaggio in Nepal e Bhutan/9 - Nell'antica capitale del regno himalayano, uno dei più fantastici luoghi del Paese



Nel grande tempio all’interno dell’ancor più grande dzong di Punakha, un centinaio di monaci di tutte le età sta recitando un ossessivo mantra sotto gli occhi del Buddha, anzi, di tre Buddha. Ma anche dal Zhabdrung Ngawang Namgyal, che viene considerato l’unificatore del Bhutan, il padre della patria in qualche sorta, e che completò lo dzong, il palazzo-tempio fortificato, nel 1637, installandovi la bellezza di 600 monaci. Quelli di oggi hanno atteggiamenti assai diversi – c’è il giovanissimo, quasi un bambino, che scherza col compagnetto accanto a lui, l’adolescente che pare stia sollevando il mondo, il lama che sembra stia solo a contare le offerte dei fedeli –, ma tutti danno l’impressione di una grande fierezza, quella di far parte del piccolo-grande Bhutan himalayano.

Maestoso è questo dzong di Punakha, detto anche “Palazzo della grande felicità”. Non a caso Punakha è stata la prima capitale del Regno del Bhutan, nel 1907, proprio per la ricchissima storia che l’ha contrassegnata sin dalla fondazione. Qui a Punakha s’è fatto il Bhutan e forse si continua a farlo, più che nella nuova capitale Thimphu. Lo dzong si erge in posizione straordinaria, alla confluenza dei due fiumi della regione, il Mo Chhu e il Pho Chhu, che danno poi vita al Punak Tsang Chhu. I suoi muri straordinariamente alti e spessi (perimetro di 180 metri su 72), le sue decorazioni lignee preziose e raffinate, i suoi sapienti spazi, il suo primo cotile ombreggiato da un secolare albero di fichi, le sue scalinate d’accesso quasi verticale ai ballatoi finemente decorati, dai pavimenti giallini… Qui il Bhutan si esprime nella sua grandiosa bellezza tradizionale…