martedì 21 maggio 2013

Le infinite conferenze, le conferenze infinite

Una delle scuse migliori per viaggiare è quella di partecipare a qualche conferenza. Ti pagano il viaggio, ti sorbisci qualche ora di noia e poi te ne vai in giro per il mondo. Scherzo, ma per tanti è così... Note sparse prese durante una conferenza svoltasi nella Città vuota, nel Paese di nessuno.



Conferenza. 
Convenzioni. 
I relatori che si elogiano reciprocamente, anche se reciprocamente non si sono ascoltati. 
Studenti che se la spassano con i loro tablet invece di contribuire al dibattito. 
L’elenco delle autorità da ringraziare che s’allunga intervento dopo intervento. 
I concetti astrusi che nessuno capisce ma che suscitano interesse falso ma sbandierato. 
I sonni e gli sbadigli da far uscire le mascelle dalla mandibola. 
Le locandine sempre uguali, scritte con caratteri a corpo minuscolo. 
I relatori che conversano tranquillamente tra di loro mentre il loro collega pronuncia il suo discorso. 
Le suonerie dei telefonini che urlano irriverenti nei momenti topici della conversazione. 
I microfoni che funzionano ad intermittenza, gracchianti e mutevoli. 
I powerpoint illeggibili che vogliono essere carini, ma che alla fine sono solo inutili. 
I pochi personaggi che sono veramente interessati e che pongono le domande giuste quando gli astanti hanno già pregustato la fuga per la fine della sessione. 
Il buffet assaltato dagli astanti con una furia che ha paragoni plausibili solo nell’assalto delle formiche ad un bocconcino prelibato. 
Gli sguardi assorti di certi astanti obbligati che riescono a dormire con le palpebre sollevate. 
Le luci penetranti accese in platea e la penombra del palco. I relatori che bevono tutta l’acqua delle bottiglie poste sulla cattedra. 
La profusione di titoli, professore di qua, eccellenza di là, commendatore di su e onorevole di giù. 
Gli anglicismi ad effetto, assolutamente inutili, traducibili in italiano al 120 per cento. 
Le battute sapienti che suscitano l’ilarità del pubblico. 
Il relatore che si ascolta con malcelata soddisfazione e quello che invece non si ascolta mai perché è inascoltabile. I circoli ermeneutici e i circoli ermetici. 
L’allarme antincendio che si scatena al culmine di una relazione particolarmente intensa. 
Il rettore compito che dà la parola ai relatori riprendendo la conclusione del relatore precedente pensando così di creare un fil rouge alla conferenza, tra interventi che in realtà sono incongrui e il più delle volte improvvisati. 
Gli accenni alle vicende personali che interessano solo chi li pronuncia. 
Gli applausi di forma (che scattano puntuali) e quelli di sostanza (che prorompono quando meno te l’aspetti). 
Signorinette che si fanno belle coi docenti, per fini accademici si spera. 
Studenti e studentesse cvhe partecipano al convegno solamente perché la loro firma è necessaria per avere l’attestato di frequenza. 
I professori che giungono trafelati e si piazzano rigorosamente ai margini dell’uditorio per poter continuare a lavorare al loro dossier. 
I giornalisti che mettono il naso tra le tende, girano la testa a destra e a manca, chiamano un relatore che si alza dal tavolo degli oratori, gli pongono due domande stupide e poi scappano via, «debbo correre in redazione», e poi li scopri al bar di fronte. 
I realtori che cominciano la loro prolusione dicendo: «Con un titolo come questo potrei parlare per tre ore di seguito». 
Quelli che invece dicono: «Sarò brevissimo» e dopo venti minuti sono ancora al preambolo. 
Quelli che aprono venti parentesi nel loro discorso e riescono a non chiuderne nemmeno una. 
Quelli che parlano con le mani e balbettano con la bocca. Quelli che citano tutti coloro che li hanno preceduti e attendono l’inchino leggero del loro capo in segno di riconoscenza. 
Quelli che presentano un libro che non hanno mai letto e che sfogliano per la prima volta seduta stante, citando il primo passo che capita sotto i loro occhi. 
Quelli che hanno bevuto troppo al buffet e che cominciano a scherzare pesantemente senza dir nulla d’interessante. 
Quelli che fanno i disegnini geometrici sul blocco d’appunti del convegno mentre gli altri relatori stanno parlando. 
E il dialogo che tutti vorrebbero centrale, ampio, ma che si trova ad essere aperto solo a pochi minuti dalla tassativa chiusura del convegno. 
Gli spettatori che siedono esclusivamente accanto alle belle donne, e quelli che cercano un buon partito alle conferenze. 
Quelli che inciampano sui gradini che salgono al palco e quelli che, invece di girare attorno al palco per salire i gradini, fanno gli sportivi e cercano di salirvi con un balzo da saltatore professionista, restando sempre a mezza altezza. 
Quelli che dicono di continuo «e quant’altro» e «un attimino» e «non so se mi spiego». Coloro che ticchettano durante l’intera conferenza. 
Coloro invece che vedono le figurine sul loro tablet all’ultimo grido. 
Quelli che nella loro conferenza citano i loro ultimi dieci-volumi-dieci, pubblicati negli ultimi due anni. 
L’aria condizionata che trasforma una città temperata in una Siberia fuori luogo. 
O, al contrario, un’aria condizionata che invece di rinfrescare riscalda e spunta vento bollente sugli astanti. 
Quelli che parlano sfiorando con le dita il microfono, provocando un sinistro sfrigolio. 
Gli spettatori che leggono il mondo sempre e comunque come fosse diviso in destra e sinistra, bloccandosi ogni volta che si presenta qualche argomento di centro. 
Quelli che prima della conferenza cercano nel vocabolario tre o quattro paroloni desueti per stupire gli astanti. 
Quelli che fanno i conferenzieri di professione e quelli che vorrebbero esserlo. 
Quelli che leggono il giornale nascondendosi dietro gli spettatori della fila dinanzi a loro. 
Coloro che citano sempre l’ultimo papa e quelli che invece ne citano quattro o cinque. 
Quelli che giocano a tetris e nel contempo riescono a seguire il discorso del relatore di turno. 
Il bellimbusto che scatta foto a tutti i relatori piazzandosi per 20 o 30 secondi, lunghissimi, tra pubblico e palco. 
Il collezionista di badge da congressi e quello che raccoglie le ricevute dei boarding pass
Chi, nel pubblico, scuote costantemente la testa in segno di assenso e quello che al contrario sindaca a mezza voce ogni parola pronunciata sul palco. 
Quelli che contano in tasca i soldi contanti contenuti nella busta ricevuta dall’organizzatore.
Quelli che, come il sottoscritto, cercano di far passare il tempo di una conferenza scrivendo fesserie sul prossimo e su sé stesso, come quelle che state leggendo…

martedì 14 maggio 2013

La Città Nuova di Rodi, il lato bello del ventennio

Viaggio nell'isola di Rodi/6 - Ovvero, della capacità tutta italiana di stupire

Di fronte alla magnificenza offerta dalla città di Rodi, non sono nemmeno tentato di visitare la Nuova Rodi, quella che il Fascio edificò a partire dagli anni Venti con profusione di mezzi e di ingegno, per un’avventura coloniale che non fu drammatica e spietata come altre, Francia e Inghilterra in testa, ma che comunque ebbe i suoi traumi. Certo, in giro per l’isola quando accenno al fatto che sono italiano la gente s’illumina, letteralmente, e si apre con trasporto e sincerità. Evidentemente qui i coloni hanno mostrato i lati più gradevoli e apprezzabili della nostra italica natura. La generosità, la magnanimità, la condivisione. E così, complice un cambiamento di programma, mi ritrovo a trascorrere un paio d’ore battute da un impetuoso vento del Nord attorno al porto di Mandráki, costruito in prolungamento del vecchio porto di Rodi. E passo di sorpresa in sorpresa, veramente, scoprendo che talvolta anche il nuovo, o perlomeno il moderno o il recente, fanno strabuzzare gli occhi e sobbalzare il cuore.
A cominciare dalla Néa Agorá, che maestosa segna la fine delle antichità (la celebre ed originalissima Porta San Paolo) e l’inizio della novità (o della modernità), offrendo accoglienza e non poca sicurezza ai tanti commerci della zona, protetti così dalle intemperie e dalle incursioni d’ogni genere grazie al suo gradevole ed alberato grande cortile. Continuando sul lungomare, si alternano edifici amministrativi sfacciatamente nei dettami del Littorio ed altri che invece integrano stili diversi in un neoclassicismo talvolta gradevole. Per giungere alla vasta chiesa già cattolica ed ora ortodossa dedicata a San Evangelísmos, dalle vigorose reminiscenze romaniche nel suo classico impiantito.
È proprio a quest’altezza che si ritiene – almeno secondo alcune teorie – che fosse situato il celeberrimo e misconosciuto Colosso di Rodi, una delle sette meraviglie del mondo, una statua del dio Elio eretta nel 292 a.C., ma rimasta in piedi solo 65 anni prima di essere distrutta da un terremoto. Ora, al posto dei piedi e dei polpacci della gigantesca statua, sono state erette dal Fascio due colonne – eleganti, non c’è che dire – che in coppa portano due copie uguali, bronzee, di un cervo, il simbolo di Rodi. Che si stagliano nitide sullo sfondo dei possenti bastioni della Fortezza di Ágios Nikólaos e dei tre (ex) mulini a vento cilindrici che segnano il passaggio tra i due porti della città.
Ma non è finita: si avanza evitando i flutti che invadono la sede stradale per fiancheggiare una costruzione che pare un Giano bifronte: dal lato marino sembra un palazzo della Serenissima, mentre dal lato della terraferma ammicca invece ad uno stile più rinascimentale. È il vecchio Palazzo Vescovile. E infine, a chiudere la prospettiva cittadina sul mare, ecco tre edifici uno più originale dell’altro, oggi locali alla moda: una sorta di Pantheon e due graziose basse costruzioni marinare, ingentilite  da frontoni decorati a stucchi. Poi il mare Egeo, e quindi lo Ionio, quindi l’Adriatico e infine l’Italia. Finché sono queste le tracce dell’italica cultura nel mondo c’è da star tranquilli. Anzi, c’è di che rallegrarsi!

mercoledì 8 maggio 2013

Khallitéa, ciottolato e aperture paradisiache



Viaggio nell'isola di Rodi/5 - Le terme degli italiani tanto amati

Sorprendono, non c’è che dire. Pare di entrare in un film, e non a caso: qui sono stati girati non pochi lungometraggi, tra cui I cannoni di Navarone, con Anthony Quinn. Ci si chiede come mai il genio italico abbia continuato a funzionare anche sotto la dittatura mussoliniana, durante la colonizzazione: la costruzione delle terme fu affidata a un grande architetto dell’epoca, Pietro Lombardi, che iniziò i lavori nel 1928. Anche qui alle Terme di Khallitéa, in questo lembo di costa alle porte della città fortificata di Rodi. Vi giungo che i pazzi orari dei musei e dei luoghi di pubblico interesse della Grecia hanno deciso di cacciare tutti fuori. Alle quattro del pomeriggio. Ma tant’è, mi decido ad una breve corsa per ammirare quest’opera di architettura che, ancora una volta, risolleva il livello della considerazione degli italiani nel mondo: il padiglione moresco a cupola, le palme del cortile interno, l’ambulacro, le fontane…
Già l’imponente entrata, tutta giocata sulle linee rette dei muri e delle decorazioni e su quelle curve della cupola moresca – bianco e grigio sul blu intenso di uno scorcio di mare – racconta una visione del mondo e delle cose: l’architettura è fatta per riconciliare l’uomo con la natura, senza privilegiare né l’uno né l’altra. L’armonia delle forme create tende a fondersi nell’armonia delle forme increate, senza che il deambulante debba accorgersene per forza. Basta che il cuore e gli occhi e la mente si riempiano e subito dopo si svuotino per ricomporsi di nuovo e svuotarsi di nuovo. In fondo l’architetto riempie e svuota, e null’altro. È quanto si sperimenta nel passeggiare sui pavimenti in ciottolato (non acciottolato!) a mosaico tipico delle isole dell’Egeo, a decorazioni marine, animali e vegetali, in una sorta di galleria circolare che dà su scogli e mare e palmizi, ogni apertura ad arco un quadro vivo e mobile, ogni muro l’attesa della sorpresa che segue, promessa. E poi la sapiente arte botanica e paesaggistica, e le colonnine a tortiglione, le acque calde e le piscine azzurre e blu, i moli e i bersò. E tutto pare trasformare quest’angolo di Rodi non in un francobollo d’Italia, ma in un abbraccio alla bellezza universale.

giovedì 2 maggio 2013

Afándou, cioè nascosto



Viaggio nell'isola di Rodi/4 - Un  villaggio che s'è dovuto spostare dietro la collina per sopravvivere alle invasioni arabe.

Era un villaggio nascosto, invisibile dal mare, coperto com’era da una lunga collina che impediva ai pirati arabi, che da qualche tempo avevano preso la cattiva abitudine di attaccare e saccheggiare i villaggi greci visibili sulla costa di Rodi, inermi o quasi. Una storia lunga: l’insediamento romano era situato sulla costa,e così rimase pure all’inizio del periodo bizantino, mentre poi fu trasferito all’interno dopo le prime scorribande arabe guidate da Muawija, nel VII secolo, a partire dal 654, e fino all’ultima incursione di Harun al-Rashid nell’808. Afándou vuol dire proprio “nascosto”.
Fatto sta che solo di recente la magnifica costa di Afándouinizia ad essere sfruttata per il turismo e per il divertimento degli abitanti del luogo che, dicono, solo in pochissimi sanno nuotare. Anche a distanza di tanti secoli la storia non perdona, lascia strascichi che non ti aspetteresti. Eppure, passeggiando sulla spiaggia di sabbia e ciottoli bianchi, si sarebbe potuto immaginare che il paese avesse sfruttato ben prima il suo patrimonio naturale. Ma forse sono state le vicine stazioni turistiche a scoraggiare i tentativi locali di sfruttamento della balneazione.
A qualche centinaio di metri dalla spiaggia, quando ancor l’odore della salsedine fa sentire i suoi benefici effetti, la piccola chiesa chiamata Katolikon, unica vestigia del villaggio originario – una costruzione riedificata nel XII secolo sulle rovine della precedente basilica del V secolo –, testimonia la grande precarietà della vita passata dagli abitanti di Afándou, ma anche la loro fede che in qualche modo voleva sfidare i mori e il loro culto maomettano. Entro nell’edificio di culto e ne apprezzo i pur non esaltanti affreschi, mentre nei candelabri come al solito brillano le candeline di cera bruna che durano lo spazio di un sospiro appena più lungo o d’una preghiera che si fa orazione del cuore. Dalla vicina taverna arrivano le grida, i rumori e soprattutto la musica della festa, quelle melodie un po’ arabeggianti e in ogni caso mediterranee che saltellano, che piroettano con ritmi sincopati, ripetitivi, monotoni eppure sempre nuovi: è domenica e i greci per demonizzare la crisi che attanaglia il Paese intero non esitano a banchettare senza badare a spese, almeno le feste vanno festeggiate come si deve! Dopo il culto, l’altra musa da senso alla prima. Almeno lo si spera, qui ad Afándou, che di dolori ne ha conosciuti non pochi.