lunedì 29 novembre 2010

Teotihuacán, piramidi per acchiappare il cielo

A Roma è stata inaugurata recentemente una mostra sulla civiltà mesoamericana. Visita del giugno 1998 sul sito archeologico messicano.

Non si tratta di magia, di fumose sensazioni new age, o di passeggere vague à l’âme. Salendo sotto il sole cocente i gradini consunti della piramide del sole, si avverte battere il cuore della gente di Teotihuacán, a duemila anni di distanza, o poco meno. Salivano verso il cielo, inquadrati dal rigido cerimoniale politico-religioso che li disponeva nel gradino corrispondente al loro grado nella gerarchia terrestre, specchio forse di quella celeste. Assistevano ai sacrifici cruenti di cuori umani offerti al Dio creatore, o a quelle divinità cosmologiche che appaiono oggi più come esseri intermedi tra Dio e la creatura, piuttosto che vere e proprie divinità. Una civiltà che suscita curiosità, anche perché per certi versi risulta moderna, scomparsa improvvisamente prima ancora del secondo millennio dopo Cristo. Perché? Non si sa. Si fanno solo ipotesi che appassionano il mondo accademico messicano.

Nel 1878, José Maria Velasco, pittore messicano di media fama e poca ispirazione, dipinse un quadro che segna in certo qual modo l’inizio della riscoperta del sito dove sorgeva “la città degli dei”, traduzione dell’ostico Teotihuacán. Piazzò il cavalletto sulla sommità della collinetta che nascondeva la Piramide della luna, e raffigurò realisticamente la via dei morti, la piramide del sole e le altre asperità della zona. Ancora non si immaginava cosa nascondeva quel paesaggio che alternava regolarità sospette e naturali protuberanze orografiche.

Appena una ventina d’anni prima, il barone Alexander von Humbolt, celebre e impenitente viaggiatore teutonico, aveva attirato l’attenzione degli avventurieri dell’epoca su quelle vestigia ricoperte di terra e vegetazione di cui la memoria si perdeva nella notte dei tempi, senza però che la fama fosse mai scomparsa completamente: tra gli altri, lo stesso Carlo V se ne era interessato tre secoli prima. Von Humbolt e Velasco marcarono così senza saperlo l’inizio di un selvaggio saccheggio, protrattosi fino a qualche decade addietro. Come per gli Etruschi qui da noi.

Fu Ramon Almaráz, appena oltre la metà del XIX secolo a intraprendere i primi scavi ufficiali, seguito da altri illustri personaggi, come il francese Désiré Charnay. Ma bisognerà attendere gli anni Sessanta del nostro secolo per veder tornare alla luce uno dei complessi architettonici più sconvolgenti che occhio umano possa ammirare.

Ecco allora qualche data, per fissare i punti di riferimento necessari a capire questa civiltà scomparsa. Gli studiosi sembrano essere arrivati alla conclusione che si debba risalire al secondo secolo prima di Cristo per trovare le origini contadine di Teotihuacán, con un rapido concentramento di popolazione sulle pendici delle montagne attorno al sito. Circa un secolo più tardi cominciò la costruzione delle due piramidi principali del complesso ora visibile; si trattava di un centro cerimoniale comunitario che permetteva alla società nascente di saldarsi più facilmente. La costruzione delle strutture principali della zona cultuale continuò ancora per un paio di secoli, ma le aggiunte si prolungarono fino al VI secolo, quando la civiltà teotihuacán raggiunse l’apogeo. Come in altre civiltà mesoamericane, si era infatti diffusa la tradizione di ricoprire gli edifici cultuali ormai caduti in disuso con altre costruzioni, simbolo della potenza dei regnanti del momento.

Nel frattempo la città si era espansa su una superficie di 22 chilometri quadrati, la società si era rigidamente strutturata e la sua influenza si era estesa in un raggio di circa mille chilometri attorno al centro principale. Fu in quest’epoca che la città divenne probabilmente la più grande del mondo, più ancora di Costantinopoli, essendo Roma ridotta a poca cosa dal crollo dell’impero.

Un elemento da sottolineare di questo sviluppo, impressionante per l’epoca, è la presenza di numerosi gruppi stranieri all’interno della città, provenienti dalle popolazioni zapotechi, maya, huaxtechi e da alcuni gruppi núhualt. Ma queste stesse presenze sembra non siano state senza colpa nel crollo della civiltà. L’apogeo, infatti, segnò nello stesso tempo l’inizio del rapido declino della città e della civiltà intera. Su quest’argomento le discussioni tra studiosi sono feroci, e non si è ancora giunti a una conclusione definitiva sulle ragioni di tale scomparsa. Sembra tuttavia che siano stati i problemi legati al sovrappopolamento e a una lunga carestia che abbiano determinato la fine di Teotihuacán nel giro di un paio di secoli. Assalti esterni e rivolte della popolazione travolsero il potere politico-religioso che reggeva la società, a favore delle città-satelliti che divennero più potenti della città-madre stessa, fino a soppiantarla completamente.

Visitando la città degli dei, salendo e scendendo le migliaia di gradini di diverse dimensioni che ricoprono i diversi edifici, non solo quelli cultuali, e immaginando lo splendore che dovevano avere le diverse costruzioni rivestite di intonaci e di preziose decorazioni, non si può non meditare sulle alterne vicende dell’umana sorte. Il lungo e non ancora completato restauro del sito ha riproposto le ardite strutture architettoniche delle costruzioni – sempre legate ad elementi cultuali, e in particolare all’osservazione del sole e degli astri notturni – senza però poter riprodurre le decorazioni, di cui si possono però ammirare importanti vestigia nel locale museo o in quello Antropologico di Città del Messico. Ma Teotihuacán deve ancora svelare almeno la metà delle sue meraviglie, celate dalla terra con cui la natura e l’uomo – sembra che, per motivi di culto e superstizione, le varie strutture “obsolete” siano state volontariamente ricoperte dalla popolazione incapace ormai di erigerne altre più grandi – hanno nascosto tanta bellezza. Dall’alto delle piramidi del Sole e della Luna, anche un semplice sguardo da turista rivela movimenti che non possono essere naturali.

Ma già ora le statue ritrovate, le decorazioni ricostruite e le strutture urbanistiche ci presentano la duplice meraviglia di una civiltà scomparsa: una popolazione che, pur ignorando la metallurgia, era riuscita addirittura a deviare il corso di un grande fiume e ad erigere costruzioni di settanta metri di altezza, senza prescindere da una ricerca estetica che in alcuni casi lascia stupefatti, come dinanzi a certe maschere decorate di rara e moderna bellezza.

Teotihuacán manifesta con la sua stessa presenza la tensione “naturale” dell’uomo mesoamericano per la divinità. Sembra addirittura che in origine le popolazioni fossero monoteiste, con un grande pantheon di divinità intermedie legate alla natura, in particolare al sole e alla luna.

mercoledì 17 novembre 2010

Dublino, alla Trinity Old Library


La situazione finanziaria della Repubblica d'Irlanda è sotto attenta osservazione. Pare che si sia pensato troppo in grande... Visita ad un luogo sacro della cultura "irish", nel febbraio 2004.

Non è un luogo sacro e non vuole esserlo. Eppure qualcosa mi dice che in questa lunga galleria qualcosa di immortale si respira. The Trinity Old Library nasconde tesori di carta rivestita di cuoio antico, ma soprattutto ricchezze d’anima e di spirito accumulatesi nei secoli. Volumi ricoperti di polvere mille e mille volte, e poi amorevolmente spolverati con attenzione, come se anche quella polvere fosse altrettanto antica che la carta. E c’è pure del vero, perché negli interstizi delle pagine i secoli si sono depositati ed hanno fruttato. Cosa? Come? Quando? I misteri rimangono sepolti sotto i ripetuti e sempre nuovi strati di polvere: quelli confusi alla polvere da sparo, quegli altri invece misti alla polvere della siccità e della carestia, e ancora quelli frammisti ai coriandoli della raggiunta indipendenza.

Nella “lunga stanza” converso con Platone, Aristotele, Cicerone, Swift e Defoe, i cui busti fanno la guardia impettiti alle alcove lignee che custodiscono i secoli stampati, i secoli catalogati dal basso verso l’alto: a, b, c… e ancora aa, bb, cc… Ogni alcova ha la sua scala a pioli, che permette di accedere ai ripiani più alti, quelli alfabeticamente maturi. I pioli conservano le tracce delle ricerche degli scienziati e dei curiosi: a salire, paiono man mano meno consunti, portano le tracce della fame di sapere dei secoli che furono. Tutto è stato riverniciato più volte, anche di recente – pareti, scansie, volte, parquet salvo quei pioli che tracciano la discriminante della storia.

Il silenzio è assoluto, o quasi. I libri assorbono i suoni, e così il legno e i tappeti. Persino l’arpa gaelica più antica che si conosca – datata al 1014, e secondo la leggenda apparteneva a Brian Boru, allora re d’Irlanda – tace; anzi assorbe fonemi e decibel per sublimarli nel quasi-silenzio di ogni biblioteca-come-si-deve. Non sono sopportabili nemmeno i clic delle macchine fotografiche, nemmeno i più impercettibili perché digitali: la tecnologia sembra venire rifiutata da carta e cornucopia e pergamena e papiro…

Il senso del tempo si dilata in questa galleria dove la cultura si eterna nei legni, ma ancor più nei marmi dei busti illustri. Ma dove pure la caducità delle umane sorti si spande a dismisura, ricordando che la polvere è retaggio non solo delle cose, ma anche dell’uomo. Così è della Old Library, il gioiello di una Dublino oltremodo fiera dei suoi antichi scrigni. Rari.

martedì 9 novembre 2010

Belém, la ricchezza e il debito


Il Portogallo vive una profonda crisi economica. Il presidente cinese Hu Jintao si offre di coprire i buchi "acquistando" il debito del Paese. Ma le ricchezze di Belém non sono certo in vendita. Visita del 2004.

Bisogna far astrazione dal ponte una volta dedicato a Salazar, ed ora al 25 aprile, giorno della sua caduta dal potere. Bisogna dimenticare l’obbrobrio del monumentale sgabello al Cristo Re e le silhouette drammatiche delle raffinerie al di là del Tago. Poi ci si può mettere ad immaginare le caravelle salpare verso nuovi mondi e nuovi mercati, inviate da quei regnanti che possedevano lo spirito commerciale nel sangue. Come Manuel I, a cui si devono quei capolavori d’arte manuelina, appunto, che hanno fatto di Belém un incantevole porto verso l’oceano, un viatico e nel contempo uno scongiuro. Di marmo e d’oro.

Osservo passare barche a vela sospinte dalla robusta brezza invernale e petroliere sospinte dalla forza dei motori scoppiettanti dalla loggia rinascimentale della Torre di Belém, fatta costruire da Manuel I tra il 1515 e il 1521. Sono certo che il diportista domenicale e il pilota professionista guardano entrami in direzione della torre; o, meglio, della statua della Vergine con bambino, meglio conosciuta come Nostra Signora del felice rientro in patria, simbolo di protezione per i marinai che intraprendono brevo o lunghi viaggi. La statua è rivolta verso il mare. E all’epoca della costruzione della torre era pure in mezzo ai flutti, perché l’argine distava almeno cento metri più di quanto non faccia quest’oggi.

La loggia è quanto di più elegante si possa immaginare in una costruzione peraltro difensiva, grazie alle eleganti arcate ispirate all’architettura italiana dell’epoca. Oggi la luce è cristallina e limpida, il sole bacia la pietra bianca della torre trasformandola in slancio verticale verso l’azzurro intenso del cielo invernale. I raggi del sole riescono quasi a penetrare gli spessi muri di pietra, e ad illuminare l’angusta scala a chiocciola che lega tra loro i quattro livelli superiori della torre, dando rilievo alla consunzione dei secoli e degli innumerevoli passi che hanno fatto leva su questi gradini ormai irrimediabilmente scavati e deformati. Una volta erano i passi di soldati, animati dallo spirito di conquista territoriale, mentre oggi sono passi di spensierati turisti animati dallo spirito di conquista fotografico, e nulla più. Ma allora imperava la guerra, ora impera il denaro; o forse allora imperava il denaro e ora la guerra. Chissà.

Gradini invece imperiali sono quelli che permettono di accedere ai diversi edifici che compongono l’altro immenso capolavoro dell’arte manuelina, il Mosteiro dos Jerónimos, edificato dal nostro solito monarca Manuel I intorno al 1501, appena rientrate le caravelle conquistatrici di Vasco de Gama. Un trionfo di perizia architettonica e scultorea, di ardimento prospettico e di audacia decorativa. Il chiostro. Ah, il chiostro di João de Castilho, i suoi archi e le sue balaustre in pietra traforata e con intagli preziosi! Verrebbe da trattenervisi senza limiti dìorari e di timing draconiani da turisti onnivori! Ma bisognerebbe ritrovarsi in solitudine, a meditare sulla fallacia dell’umana ricchezza, sulla sete di conquista che mai scompare, nonostante la profondità dell’animo umano che, arrivato alla più sovrumana intimità si volge alla più sovrumana esteriorità.

Se il chiostro invita alla verticalità verso il basso, verso l’intimità, la chiesa invece spinge alla verticalità verso l’alto, verso il Dio che sta nei cieli. Che sta da qualche parte oltre le volte della navata che viene sorretta da quei palmizi che sono le colonne ottagonali, esili ma decoratissime. Uno spazio sapientemente distribuito dalla luce che filtra colorata dalle vetrate policrome.

Il moderno monumento alle scoperte, poderosa costruzione voluta da Salazar nel 1960, per celebrare i 500 anni della morte di Enrico il navigatore, non stona più di tanto sulle rive del Tago, all’altezza del monastero. Magellano, Vasco de Gama, Cabral, Colombo, issati sulla declinante prua di una caravella immaginaria ci stanno bene, con lo sguardo fisso verso quell’oceano che avevano sfidato come si intraprende una coraggiosa discesa nell’intimo dell’anima, o come si scala la via al cielo, terrificante di ascensioni verticali. Forse hanno intrapreso l’infinita orizzontalità dell’oceano perché incapaci di scendere nell’intimo o di ascendere al soglio divino. Eroismi, al plurale.

mercoledì 3 novembre 2010

Milano, col sole e con la pioggia


Mentre si moltiplicano le accuse alla metropoli lombarda per l'inquinamento che l'assedia, breve visita nella città di Ambrogio.

È bella o non è bella Milano? Dipende dal sole. Se c’è e lo smog è spazzato via dal vento, la città rifulge di storia ed arte, se invece imperano nebbia e umidità il lato grigio della metropoli opprime le aspirazioni estetiche.

Milano versione n° 1 l’incontro in un fantastico mattino d’ottobre, uscendo dalla bocca della metropolitana al Castello Sforzesco. Persino i dipendenti Cobas dell’Atm in sciopero paiono allegri e pacifici nella loro manifestazione, e le loro bandiere gialle e rosse paiono vessilli medievali sullo sfondo di uno dei più bei manieri dell’architettura italica. Dapprima circuisco il castello, lo circumnavigo, osservando i poligoni di luce e d’ombra che si alternano nel fossato – les duves, direbbero i francesi – attorno alle possenti mura della costruzione degli Sforza, cole le gigantesche vetrate del piano nobile protette da altrettanto robuste inferriate. I due ampi cortili rossi di mattoni e verdi di erba, paiono persino allegri, illuminati dal sole come sono quest’oggi, ingentiliti nelle aperture e nelle chiusure, umanizzati nelle dimensioni, persino gradevoli negli acciottolati peraltro così sgradevoli alla deambulazione. Sono qui, in realtà, per rendere omaggio, direi per contemplare, l’ultima scultura michelangiolesca, quella Pietà Rondanini che ha fatto della sua imperfezione il culmine della perfezione. Dal vero è ancor più affascinante che nelle minuziose fotografie in bianco e nero che l’hanno denudata e rivestita di luce. Il percorso d’entrata e d’uscita – lunghissimi corridoi, scale interne anguste e scure, saloni affrescati come se fossero tappezzati di geometrie pazze e sobrie nel contempo – sembra un trattato di protologia e d’escatologia, affidando socì alla scultura del Buonarroti l’onere e l’onore del presente, del “già e non ancora”.

Come non concludere la visita al Parco Sempione che esalta il Castello Sforzesco alla Triennale di Milano, fascista nella sua architettura lineare, del miglior fascismo intellettuale. La libreria baciata dal sole filtrante è un invito alla cultura lenta e contemplativa, mentre il caffè inondato dai raggi è un’irrefrenabile istigazione alla conversazione d’arte e di libri, di uomini e di eventi, mentre la coppa di Rosso della Valtellina assume tutti i colori della tavolozza degli Sforza.

Tutt’altra Milano, ma sempre luminosa, è quella che scorgo percorrendo i quattro chilometri di via Padova, via che diventa cinese e filippina, maghrebina e sub sahariana. Ma con misura, nonostante qualche delitto, nonostante l’insofferenza di qualche leghista. Massaggi a 20 euro e barbieri a 4 euro s’alternano a negozietti aperti 24 ore su 24 dove puoi trovare di tutto, proprio di tutto. Mentre il vecchio galoppatoio è stato trasformato in parco d’arte e cultura che anche gli immigrati riescono a capire: la natura e le arti visive riescono ad affratellare. Fino a Piazzale Loreto, rotonda ricca di storia patria e di insignificanza architettonica. Fuggo a sud, verso Porta Venezia, e poi nel breve quartiere di via Mozart, campionario eccelso di art nouveau, dalle ville della buona società e dei nuovi ricchi, dalle terrazze pensili che paiono boschi innalzati alla dea della luce. Ammirare nella Villa Necchi Campiglio i paesaggi – grafismi bianchi e ocra e solcati e striati e rossi e verdi e neri e segmentati – del Tullio Pericoli appare congrua elevazioni della straordinaria cura del quartiere intero.

Gli ultimi raggi di sole della giornata mi trovano a Sant’Ambrogio, il gioiello, la storia che si fa pietra e forme, l’anima della Chiesa ambrogina, l’orgoglio della milanesità industriosa e sobria, ma elegante fino al parossismo dell’estetica pura. Toglie il fiato penetrare attraverso l’ingresso a sud, scorgere i due campanili – dei … e dei … – e il frontone a tetti scoscesi, il grande portico materno nelle forme e paterno nell’austerità. Pochi gradini per scendere dalla sede stradale al portico e poi alla basilica, e poochi altri per risalire all’altare, gradini levigati e sbeccati, marmorei nella loro altera sicurezza, fino a morire nella pazza gioia – altra milanesità – delle pietre sottostanti all’altare d’oro e d’argento, pietre levigate e arrotondate, quasi a ricordare gli acciottolati della città d’una volta e a istituzionalizzare la creatività della gente di Milano.

Milano versione n° 2 l’incontro invece l’indomani nel centro più centrale della centrale Milano. Esco dalla bocca della metropolitana a San Babila, accanto ai salotti buoni della finanza e del commercio milanese, all’imboccatura delle vie della moda, della alta moda. Qui tutto vuol essere “alto”, anche se in alto non ci sono che nebbia e nubi. Percorro Viale Vittorio Emanuele II, m’imbatto nei portici delle boutique di lusso, mentre i ricchi, soprattutto i nuovi direi, i vecchi paiono aver scelto ultimamente la via della sobrietà del lusso che non si pavesa ma che si porge modestamente. L’abside del Duomo restaurato, mentre la Madunina è ancora sorretta da impalcature leggere ma sempre sgradevoli, dà una visione certa dell’enorme sforzo dell’Europa delle cattedrali, ma avvolta dalla fiumana di gente assatanata di consumo che si costringe in poche vie, mentre cinquanta metri più in là il tappeto umano diventa deserto umano. Un’Europa del consumo che non sa più costruire se non beni voluttuari, esternazioni dell’opulenza dell’Europa della finanza e del lusso che vacilla tuttavia dinanzi alla penetrazione irrefrenabile dell’armata d’Oriente, carica di suggestioni di marketing e d’imitazione, ma con una valanga umana che non ha limiti.

La Galleria ne è l’esemplificazione, e così via Torino, e via Montenapoleone e tutte le altre vie del lusso. Vie che non sanno che farsene dell’antica tradizione milanese della laboriosità. Un mito, e come tutti i miti destinata a non essere più realtà ma espressione dell’idealità della realtà. E più s’allontana dalla realtà, più cioè vive di rendita e d’ozio, più il mito della laboriosità cresce e la spocchiosità e l’assenza di generosità lievitano. Il cardinal Tettamanzi abita dietro al Duomo, in un palazzo d’antico lignaggio discreto ed elegante, ma sobrio, veramente sobrio. Lì sotto passa poca gente, e pochi ascoltano le sue parole che invocano la solidarietà dei ricchi, la necessaria giustizia, l’inderogabile necessità di riprendere a pensare ai figli, all’altro, al lavoro più che ai soldi. Pare una Cassandra in porpora cardinalizia, ma quanto più necessaria in un’epoca grigia, com’è la Milano versione n° 2.