mercoledì 24 febbraio 2010

Padova, 200 mila al Santo


Folle immense nella prima settimana di esposizione delle reliquie di Sant'Antonio. Nel cuore d'una città intima e ricca, giovane e dinamica. Appunti scritti nel 2007.

Le città della propria infanzia corrono il rischio, per il nomade incallito, di venire classificate sugli scaffali dell’anima, sotto la categoria dell’oblio: la-conosco-perfettamente. Il che significa esattamente il contrario: credo di conoscerla, di amarla e di conservarla nel più profondo del mio cuore, ma in realtà ne vezzeggo solo gli odori e i sapori della casa della nonna, la nebbia di un canale di periferia, l’oscurità inquietante della basilica del Santo, il sole invernale d’un prato e d’una valle. Sì, certo, anche tali emozioni infantili contribuiscono a spiegare un luogo e un luogo in un’epoca, ma talvolta ne determinano anche il definitivo oblio.

Così rischiava di essere la “mia” Padova, città materna, per il mio istinto nomade e viaggiatore insieme. L’avevo sempre eletta “mia” città, più di quella paterna, ma nell’immaginario piuttosto che nella realtà. Complice un dentista amico, tra una tortura e l’altra, ecco che la primavera mi svela le meraviglie di una città sospesa tra pubblico e privato, tra sacro e profano, tra giovinezza e vecchiaia. Una città di contrasti e pacificazioni, provocate dalla semplice bellezza del suo abitato medievale, della sua storia e della sua gente. Perché no.

In quattro giorni di passione dentaria e di elevazione spirituale, non uso mezzi di trasporto d’alcun genere. Solo i miei piedi, fantastico! M’abituo al rumore dei passi sul selciato di pietra che ancora resiste in quasi tutto il centro città al levigato (e banale) bitume che tutto rende accessibile (e banale). Ora la pietra è lastricato, ora è acciottolato, ora marmo inciso o intarsiato, tradendo i secoli levigati e politi, opera d’artista collettiva, preservazione della traccia, del passaggio, del viaggiare o del deambulare. Non immaginavo che in una città ci potessero essere tanti diversi tipi di selciato.

Anche quelli che guidano a uno dei massimi gioielli universali dell’arte medievale, quella Cappella degli Scrovegni che giace isolata nei giardini tra Bacchiglione ed Eremitani, privata dapprima delle mura di protezione, poi dell’antistante portico, quindi dell’intonaco ed infine addirittura del contiguo Palazzo degli Scrovegni, ormai giunti al XIX secolo. Tutte ablazioni che ne misero in forse la stabilità e finanche la sopravvivenza stessa. Ma quest’oggi, nell’ammirare la cappella così nuda ed essenziale, nella sua veste di mattoni rossi appena ingentilita da qualche candido fregio, mi viene da ringraziare il genio della Storia che accavalla e sovrappone tempo ed avvenimenti, traendone bellezze senza uguali, inimmaginabili da mente umana.

Sta lì, la cappella voluta dagli Scrovegni, usurai rimasti scolpiti nella storia solo per questo gioiello d’arte, o quasi. Sta lì protetta dagli ingegneri e dai tecnici della deumidificazione come fosse un bambinello cui evitare ogni minimo mutamento di temperatura: un raffreddore può essergli letale, e questa volta senza appello alcuno. Sta lì in attesa dei 25 eletti che per quindici minuti, anzi tredici, possono levare lo sguardo al cielo dipinto di blu e, per l’alchimia dell’arte, trovare al di là delle tinture e delle colle, il cielo-cielo, dove non occorre toccare il reale per sentirsi reale.

Tredici minuti possono solo rivestire un significato d’inventario, o d’anagrafe se lo si preferisce, il tempo di ricordare quel che i dipinti del Giotto reduce dai cicli di Assisi rappresentano nelle forme e nei colori. Il ciclo di Maria, quello di Gesù, quello della passione. E il giudizio, e i vizi e le virtù e le figurine asimmetriche e le decorazioni floreali e i finti marmi, i medaglioni dei santi e dei profeti. «Dlindlon, si esce!». Non è possibile, la contrazione del tempo è provata. Così come l’esistenza della Provvidenza che s’è oggi rivestita dei panni del custode: un acquirente dei biglietti del successivo quarto d’ora si dev’essere inginocchiato dinanzi ad una delle tante bellezze della città. Non più 25, ma 24 sono i presenti alle cinque e un quarto. Il custode mi strizza l’occhio, e mi suggerisce di non uscire… E allora ecco che il tempo si inverte, e da contratto e sincopato che era si trasforma in un’eternità senza confini umani, sommerso nell’incanto di un paradiso cromatico che non ne vuole sapere di ricondurre lo sguardo alla realtà rappresentata.

Complice forse il blu che solo Giotto e la sua bottega sapevano impastare, la deambulazione non avviene più nella sottile striscia moquettata al centro dell’unica navata, ma in alto, saliti i tre “gradoni” dei cicli affrescati. Di cielo in cielo, nelle allegorie della gloria ma anche in quelle della sconfitta, della morte, dell’inferno. Giotto sembra aver intuito, da laico-laico qual era, qualcosa dell’alchimia della morte del Cristo, della teologia ribaltata del Dio-morto-in-croce, scandalo per i giudei e per i pagani. Non a caso, da qualunque lato io guardi alla cappella policroma, lo sguardo cade lì, sul riquadro affrescato della crocifissione. Cruda e bella. È lì il segreto della bellezza che nasce dalla morte e che è a sua volta nascita, in un ciclo che riesce a spezzare le catene delle tenebre in terra.

Ed è proprio questa lettura della crocifissione che apre le porte all’interpretazione del senso ultimo dell’intera Patavium. Le piazze – Erbe, Frutta, Signori e Prato della Valle –, le chiese – Santo, Sofia, Duomo, Giustina – e i palazzi – Ragione, Signori, Comune – dicono l’armonioso convivere di sacro e profano, grazie alla bellezza dei secoli rispettati e rispettosi. Perché la laicità si fonda sulla coscienza della libertà civile, mentre la sfera del sacro sa che il suo limite è nella libertà religiosa. Quando le due libertà si federano grazie alla bellezza, ecco che la lezione di Giotto – la passeggiata” celeste fatta su questa Terra – prende corpo e forma e sostanza.

E allora non è blasfemia ripensare a Giotto e pregare la Bellezza seduto ad un tavolino di uno dei caffè più prestigiosi – e belli e laici – al mondo, il Pedrocchi.

martedì 23 febbraio 2010

Turchia, ennesimo golpe dell'esercito?


Arrestati decine di alti gradi militari per un tentativo di golpe. Lo ha annunciato il premier Erdogan a Madrid. La laicità dei militari si scontrerebbe contro la religiosità del governo. Laicità che trova le sue origini nel padre della patria, Ataturk. Visita (2006) al palazzo di Dolmabahçe, dove visse e morì.

Il palazzo di Dolmabahçe, costruito appena nel XIX secolo, è legato ai ricordi degli ultimissimi sultani, fino a colui che ha cercato di riscattarne la memoria, l’orgoglio dell’impero schiacciato dalle potenze europee, i nemici-amici di sempre: Atatürk, il padre della patria di oggi, quella laica e filoccidentale, che ha abbandonato l’alfabeto arabo per sposare quello latino, che ha scelto la domenica come giorno di festa, che ha relegato la religione ai margini della vita sociale (almeno tale era il suo progetto), che beveva vino e andava a donne.

Un’ora di tappeti e tendaggi e quadri e maioliche e decorazioni e harem e hammam e salotti e parquet… Di scalinate imperiali ampie e avvolgenti, le cui balaustre sono di cristallo! Unica costante nella visita: il Bosforo che, oltre le finestre e i cancelli bianchi, pare una sicurezza e una minaccia. Da lì giunse la fine dei sultani, non dalla terra, come invece si temeva.

lunedì 22 febbraio 2010

Meknès, dove il minareto è crollato


Crolla il minareto della moschea Lalla Khenata in una delle quattro cittòà imperiali del Marocco. Decine di morti, caos e distruzione. Una breve visita nell'estate del 2004.

Dopo la costa ci avviamo verso l’interno, dove il sole impietoso non è più temperato dalle brezze marine. Con una certa sorpresa, però, la regione appare più verde di quanto non si possa immaginare, per via di un’agricoltura assai sviluppata e di piogge invernali assai consistenti per la regione. E poi ci sono i fiumi che scendono dall’Atlas... Si attraversa persino una vastissima foresta, 850 mila ettari di alberi da sughero e di eucalipti. Vi si raccolgono pure ottimi tartufi, che costano solo un centesimo dei loro confratelli d’Alba o d’Umbria. Poi viene il turno di spesse siepi di fichi d’India, addirittura veri e propri muri alti quattro o cinque metri, e di olivi. Il resto è desolazione. Solo, qua e là, spuntano uno dei tre altri alberi sacri dell’Islam, oltre all’olivo: la palma, il melograno e il fico.

A Meknes qualche gioiello lo strappiamo alla calura sempre impietosa. La piazza el-Hedim e la porta Bab el-Mansour, ingresso monumentale alla medina vecchia e alla kasbah, un raccordo di spazio vuoto, dopo l’affastellamento dei corpi e delle cose di quei quartieri incredibilmente stipati. Lo spazio aperto, anche all’Islam è essenziale, anche se talvolta parrebbe il contrario... La bellissima Bab el-Mansour, la porta del rinnegato vittorioso, è un arco trionfale costruito... da un architetto cristiano!

Impressionanti sono gli spazi coperti a volta della Dar el-Ma, la casa dell’acqua, in cui in quindici diversi locali veniva pescato l’elemento più prezioso al mondo dalle vene sotterranee, grazie a ingegnosi argani assai ben progettati. Qui il buio e la frescura dominano, interrotti solo da piccole feritoie che quasi in ogni locale si aprono sulle volte, lasciando filtrare lame di luce di bellezza misteriosa.

E poi le attigue scuderie, le Heri es-Souani, i cui soffitti sono crollati nei terremoti che hanno colpito queste terre il secolo scorso. Spazi preda del verde parassita e della prospettiva, che permettono di scattare foto da brivido.

Per il rotto della cuffia riusciamo poi a visitare quello che viene considerato il luogo più sacro della città imperiale, e cioè il mausoleo di Moulay Ismail, del XVII secolo, nel quale è sepolto l’autore delle meraviglie testé descritte, in un palazzo cesellato come un gioiello, bello e pulito, fresco e gioioso.

venerdì 19 febbraio 2010

Il monaco tibetano che guarda le montagne


Obama riceve il Dalai Lama, che esce da una porta secondaria, dove scaricano le immondizie. Riporto le note di un incontro con un monaco tibetano nel monastero di Jokhang (dicembre 2006).

Dal cortile interno parte pure una ripida scaletta decorata in ogni suo elemento – anche i mancorrenti indispensabili per la salita e, soprattutto per la discesa – di rosso, verde e giallo, esclusivamente lignee. Attraverso di esse si accede dapprima alla terrazza del primo livello, quello delle abitazioni dei monaci – un palazzo dipinto d’arancio indica il luogo dove abita il priore –, e poi al secondo livello, quello che non ha altra funzione se non quella di aprire lo sguardo sull’infinito del Cielo e sul finito circonchiuso delle sue montagne, cioè della città di Lhasa.

Decorazioni dorate – toccante è quella centrale, che rappresenta i raggi della ruota della legge, con gli otto sentieri dell’illuminazione buddhista, sorvegliati e riveriti da due cerbiatti accucciati – si stagliano sull’azzurro intenso del cielo baciate da un sole da urlo, e indicano l’imponente Palazzo di Potala sovrastano l’abitato regolare della città, purtroppo ormai vulnerabilissima al cemento e alle sue brutture consumiste. Un gruppo di fedeli, guidate da un monaco, sfilacciano tessuti per farne preghiere votive, con le loro facce paffute e spesso ricoperte di burro di yak essiccato, per proteggerle dalla violenta potenza dei raggi solari a quest’altezza di 3600 metri. Una monaca spazza il terrazzo come se stesse mostrando al mondo come ci si avvicina all’eterno.

Un giovane monaco guarda tutt’attorno a sé la cinta di montagne brune che proteggono Lhasa, ma che nel contempo la minacciano. Sanghe, trent’anni, è in questo monastero da 18 anni. S’è fatto servitore del Buddha «per semplice amore della fede». In un inglese appena comprensibile, mi spiega come la religione dei tibetani sia «indistruttibile perché nessuna potenza, nessun dittatore potrà mai impedire loro il rito e la venerazione».

I monaci sono tanti, non solo quelli che prestano servizio al monastero, un centinaio o poco più, ma anche quelli che vengono in pellegrinaggio a Jokhang. Le residenze dei monaci, apparentemente aperte, s’agglutinano ai lati di lunghi corridoi coloratissimi, attorno a portici e cortili, nascosti in anfratti improvvisi; vagando in questo dedalo, si può facilmente incontrare il sorriso d’un monaco, molto spesso bisognoso di un passaggio dal dentista (magari non quello che troverò più tardi poco distante dal tempio, dove ognuno sceglie in una vetrina di più che dubbia sterilità il suo dente preferito, che un uomo solerte provvede a installare, senza anestesia e senza disinfettanti).

giovedì 18 febbraio 2010

Patagonia asfaltata


Altri 127 chilometri di strada nazionale 40 ricoperte di bitume nella regione più a sud dell'Argentina, attorno a El Calafate, cebntro turistico alle prote del grande parco nazionale de Los Glaciares. Nel prossimo numero di "Città Nuova" reportage sulla Patagonia. In questo blog, invece, qualche nota sulla città di El Calafate stessa (Capodanno 2009).

Vento ovunque e comunque, difficile persino restare in piedi. I piloti sono provetti e conducono l’MD-83, vecchio e decrepito ma sempre forte, al di là delle perturbazioni meteorologiche. L’unica compagnia gradevole nella discesa a picco (qui in Argentina i piloti scendono in 15 minuti, contro i 25 dell’Italia) è la striscia sempre più evidente del celestissimo Lago Argentino. Per uno strano riflesso del sole che non mi spiego, oltre che per l’effetto dei venti impetuosi che spirano, pare un’enorme bandiera argentina, con l’azzurro solcato al centro da una bianca striscia di onde e vento. L’aeroporto è nel deserto.

El Calafate, cioè il nulla creato per turisti e andinisti che vogliono salire sui grandi ghiacciai del Perito Moreno, dell’Upsala, dello Spegazzini o di uno delle altre decine di lingue di ghiaccio minori. Nel deserto quasi imbarazzante della pampa patagonica più brulla – qui è così lontana l’incantevole bellezza della Terra del fuoco – portano alla straordinaria bellezza di immensi ghiacciai che non vogliono sapere di starsene fermi e tantomeno di regredire – pazzo mondo quello della meteorologia! –, ma se la godono un mondo a tuffarsi nei due laghi con boati assordanti e improvvisi. Uno degli spettacoli più affascinanti al mondo, dicono.

Ebbene, El Calafate non è nulla di tutto ciò. O meglio, approfitta di tutto ciò per far soldi che finiscono in gran parte nelle tasche della famiglia Kirschner, guarda caso la coppia più famosa e chiacchierata d’Argentina, l’ex-presidente e la presidenta, che vengono da queste parti, precisamente da Santa Cruz, che hanno saputo conquistare Buenos Aires e che hanno trasferito la loro residenza proprio a El Calafate. Insomma, della cittadina si può dire solo che è francamente brutta, brulla, kitsch, inutile, degradante, consumistica. Ha persino un casinò, famoso perché spilla con arte gruzzoli di soldi alla povera gente, ai turisti meno benestanti. E poi più banche che scuole, più drug store che panaderia. Ma ha i grandi ghiacciai e le vaste estencia e i cerro che paiono solo sassi. E questo basta a giustificarne l’esistenza.

mercoledì 17 febbraio 2010

Libia, dove si conserva la memoria del colonialismo italiano


Mentre s'infiammano le relazioni tra Europa e Gheddafi per la "lista di indesiderabili" emessa dalla Confederazione elvetica, racconti di una visita (2007) al "Libian Jihad Center for Historical Studies" di Tripoli, il luogo della conservazione dei documenti della presenza militare italiana nel Paese. Un esame di coscienza e una serie di domande.

L’ultimo atto della mia visita a Tripoli e dintorni avviene in un centro governativo assai interessante, deputato alla conservazione della memoria storica della Libia, in particolare di quel periodo coloniale che appare di assai difficile interpretazione se ci si basa solo sulla reazione della gente. Da una parte, infatti, appare evidente come la colonizzazione italiana sia stata una semplice colonizzazione, punto e basta, violenta e certamente inibitoria della cultura locale. Ma nel contempo i libici manifestano assai raramente un qualche astio nei confronti di noi italiani, certamente meno di quanto non ne manifestino verso altri popoli europei o verso gli statunitensi.

Nella sede assai dignitosa e per certi versi anche ricca del centro, lavorano alcune centinaia di persone per mantenere vivo il ricordo del passato. È gente attenta e semplice, sorridente e in ogni caso, accogliente. Qui spesso e volentieri vengono degli studiosi italiani per effettuare delle ricerche storiche in archivi che paiono ben tenuti, anche se l’informatica deve ancora soppiantare i microfilm e le schede perforate. Ma già si sta operando per la modernizzazione dei depositi di libri, foto e registrazioni.

A capo dell’istituto storico c’è un personaggio dalla rara cultura e dalla semplicità contagiosa nei rapporti: è il prof. Mohammed T. Jerary. È gentilissimo, e risponde ad ogni domanda con una parlantina fluidissima, ricca di sorprese e di contrappunti. Tutti dicono che il professore abbia il rango d’un ministro della cultura. Sembra averne la stoffa, anche se si schermisce di continuo. In poche parole riesce a descrivermi il lavoro del centro da lui diretto: preservare la cultura libica. E ciò grazie a una libreria di 250 mila volumi, a un deposito di un milione di documenti (libri e documenti sono di varie lingue), grazie a 600 volumi pubblicati, a 100 mila foto raccolte in tutta la Libia, a 5 mila manoscritti alcuni di grande valore. I collegamenti con le università locali ed europee sono quotidiani, così come le decine di congressi che vengono organizzati ogni anno dal centro. Al centro dell’interesse degli studiosi e degli impiegati del centro c’è ovviamente il periodo coloniale e la seconda guerra mondiale, fino al 1943. Unica lamentela: la scarsa collaborazione del governo italiano e anche di alcune istituzioni universitarie di casa nostra.

«Abbiamo bisogno degli italiani – mi spiega –, anche perché in termini umani siamo molto vicini. Il colonialismo è stato un periodo duro, e gli italiani non sono stati molto meglio degli inglesi o dei francesi. Ma sentiamo che siamo a voi più vicini che ad altri popoli europei» Una premessa incoraggiante: «In ogni religione – prosegue – ci sono estremisti e gente normale. La religione è qualcosa di cui avere cura nella vita umana, senza però farla interferire con il sistema politico. Così noi libici musulmani non abbiamo nulla contro i cristiani, coi quali abbiamo tante cose in comune: emozioni, pensiero, odio e amore. La difficoltà viene da una parte dal fatto che troppo spesso si sente dire che non siamo diversi, che siamo uguali, cancellando così le diversità; ma dall’altra sentiamo troppo spesso dire che siamo diversissimi, e che nulla ci unisce. Come sempre serve equilibrio. Dobbiamo metterci lealmente gli uni di fronte agli altri, e scopriremo che quello che ci unisce è più vasto di quello che ci divide. Io vado alla moschea e tu in chiesa, ma possiamo capirci, vivere insieme, apprezzarci, amarci, prendere il caffè insieme…».

Prosegue il prof. Jerary: «A lungo termine non possiamo che ipotizzare la convivenza tra i popoli e le religioni. Siamo in certo modo condannati a vivere insieme. È quindi logico e lungimirante cercare di capirci e penetrare nel pensiero dell’altro. Ci sono eredità pesanti che non possono essere dimenticate, ma bisogna riuscire nello stesso tempo a non farci schiacciare da esse».

Poi concentra lo sguardo sulla situazione politica palestinese: «Risolto il problema politico dello Stato palestinese, tante cose andranno a posto, e terroristi e fondamentalisti diventeranno sempre più una residua minoranza. I palestinesi però stanno soffrendo troppo, sono trattati come cani. Gli ebrei, ovviamente, sono come noi esseri umani, e quindi non posso e non devo odiarli. Ma bisogna riuscire a trovare una soluzione per ridare ai palestinesi libertà, terra, dignità. Siamo tutti uguali».

Passiamo poi alla questione libica: «La Libia ha un ruolo importante da giocare nell’aprire le mentalità della gente araba, sia dal punto di vista religioso che umano. Il velo obbligatorio, ad esempio, non è accettabile, non ha riscontri scritturistici definitivi. Sono d’accordo con questa tesi. Ma nello stesso tempo non si può ridurre la libertà a liberalismo, politico, filosofico o economico. Abbiamo bisogno della libertà, che è fatta di cultura e di religione. Il governo libico sta facendo grandi sforzi per mostrare che l’Islam è qualcosa di razionale e umano, e non è quello che si dice in troppi Paesi occidentali, cioè arretrato e irrazionale. Il ruolo della Libia è intellettuale e umano nello stesso tempo».

martedì 16 febbraio 2010

Ancora sui montagnard del Vietnam


Ho ricevuto la seguente lettera: «Gent.mo Sig. Michele, ho letto e riletto il suo articolo sui montagnard del Vietnam e mi sono emozionata perchè i miei due bambini vengono proprio da quella zona, precisamente dall'orfanotrofio che sta in campagna, più lontano dalla bellissima chiesa di legno scuro. Voglio ringraziarla di cuore per le emozioni che ha risvegliato in me descrivendo queste zone e questa gente così fiera e dignitosa nella loro povertà materiale. Cordialmente, Elena».

Gentile signora Elena, oggi pubblico una foto di quel piccolo orfanotrofio, dove il cuore mi si è spezzato, per i tanti bambini e le tante bambine, anche non più piccolissimi, che mi prendevano la mano dicendomi «Portami con te».

Ecco quanto ho scritto nel mio diario di viaggio, solo parzialmente pubblicato nell'articolo: «Le suorine, anch’esse montagnard, che non hanno mai un cedimento, nonostante la loro proverbiale ignoranza; i volontari europei che vengono a dare una mano, per evitare il grigiume di vacanze noiose e con la prospettiva di sentirsi almeno un po’ utili agli altri; il cibo minimale, un po’ di riso un po’ d’insalata un po’ di pesce secco; le preghiere obbligatorie recitate in coro, ad alta voce; l’estrema povertà, pur tuttavia degna, dell’abbigliamento; gli sguardi dei piccoli, struggenti, in cerca di una mano di padre o di madre, quasi spinti da un istinto ancestrale, insopprimibile, di cercare la forza paterna o la dolcezza materna; i cori intonati dai bambini per il sottoscritto che si sente un piccolo vascello sbattuto dai marosi dei sentimenti…».

lunedì 15 febbraio 2010

India e Pakistan, l'eterna conflittualità


Attentato a Puna, proprio mentre si annuncia la ripresa dei negoziati di pace tra i due colossi del subcontinente. Visita (2005) al posto di frontiera di Wahga, in cui si coglie la tensione infinita e nel contempo il mai sopito desiderio di convivenza tra i due Paesi.

Vicino a Lahore, nel Punjab pakistano, esiste un luogo che dalle nostre parti si stenterebbe a credere che possa esistere. Si tratta del posto di frontiera più importante tra Pakistan e India, i fratelli nemici dal tempo della separazione tra i due stati. Ad una trentina di chilometri dalla città, raggiungibile percorrendo un lungo tratto di strada che costeggia un canale che collega i due paesi, superato non senza difficoltà un mercato dove si vende di tutto e di più in una confusione – la solita – assolutamente indescrivibile e nemmeno fotografabile o filmabile, perché è impossibile riprodurre gli odori, terribili miasmi e soavissimi profumi. Poi, al termine di un lungo rettilineo costeggiato da forni per mattoni e da poverissime capanne occupate dai profughi afghani, ecco il posto di frontiera di Wahga, annunciato da uno strano stadio semicircolare, rivolto verso il paese nemico. Un passo avanti, ed ecco un altro stadio, questa volta al di là dei due cancelli che segnalano la frontiera, rivolto verso il Pakistan. Poco alla volta gli spalti si popolano di uomini e donne (al di qua separati sugli spalti, al di là invece in promiscuità), armati di bandiere del proprio paese e da una forte vena nazionalistica, come traspare dagli slogan e dalle facce dei partecipanti al singolare spettacolo. Sì, perché di uno spettacolo si tratta, messo in scena dalle guardie di frontiera dei due paesi al momento della chiusura (ma anche all’apertura, alla mattina, senza spettatori), secondo un rigidissimo cerimoniale concordato tra le parti con un lunghissimo iter diplomatico costantemente sotto osservazione.

Mentre dagli spalti si leva un tifo da stadio – che talvolta, però, trascende la sportività di cui dovrebbero essere portatori i veri supporter di un campo –, nella via che separa i due stati i ranger da parte pakistana e i corazzieri da parte indiana si scambiano gesti e parole e gridi di sfida e di superiorità, applauditi e osannati dai rispettivi supporter. Qualcosa di incredibile, che dice tuttavia la straordinaria vena nazionalistica che abita entrambi i paesi, ancora sotto l’onda lunga della separazione vissuta traumaticamente da parte indiana e come una liberazione da parte delle popolazioni musulmane trasferitesi nel nuovo stato o già lì stazionanti. Da parte pakistana scorgo gesta e grida che paiono oltre il limite dell’odio; ma anche qua e là il sorriso di sapere che non si sta facendo sul serio. I turisti sono pochissimi, per via della stagione; ma anche loro se la godono un mondo e partecipano al tifo. Una differenza tuttavia esiste: se da parte indiana si tende ad inscenare delle danze, da parte pakistana l’invocazione orante di Allah è dominante.

Poi, al termine dell’ammaina bandiera effettuato congiuntamente e contemporaneamente – ma assolutamente separati dai pochi centimetri della linea di confine –, per alcuni eletti (stranieri e raccomandati) viene concesso l’accesso ad un piccolissimo piazzale dove si può farsi fotografare con i soldati pakistani e indiani, alcuni addirittura a cavallo, seppur separati da una barriera metallica orizzontale. Finché colgo due soldati di campo avverso che si scambiano qualche parola, subito rimbrottati dai loro capitani. Se si invertissero le uniformi farebbero la stessa figura, e nessuno dubiterebbe dell’etnia dell’altro. Così è, il popolo è lo stesso, ma la politica (e un’interpretazione massimalista della religione) ha provocato la frattura. Dieci minuti, poi via, ci si ricomincia a guardare in cagnesco, e le dispute diplomatiche, le recriminazioni via media, le ripicche e le gelosie riprendono a pieno ritmo. Fino a domani, quando ancora una volta il cerimoniale prevederà l’alzabandiera e poi l’ammainabandiera.

venerdì 12 febbraio 2010

Quegli occhi in comunione coi miei


Mi scrive Paolo R. dall'Umbria: «Sappi che la foto della bimba di Kon Tum è sul desktop del mio pc, e ogni volta che entro in quegli occhi (inevitabile) tocco l'umanità lontana e tocco pure il Dio Padre anche degli sperduti umani degli altipiani».



Confesso di essermi in qualche modo innamorato della bimba, di cui non conosco nemmeno il nome, incontrata in un villaggio dei montagnard di Kon Tum, negli altipiani del Sud, in Vietnam. Ormai in ogni reportage le foto scattate sono migliaia, per via della tecnologia digitale che consente di scattare foto a raffica e poi di cancellare quelle che non piacciono. Così anche alla piccola di Kon Tum ho scattato una ventina di foto, avvicinandomi a quattro zampe, per essere alla sua altezza, sulla palafitta nella quale abita la sua famiglia. La madre mi osservava (aggiungo qui sotto la sua foto), assai divertita.

La conversazione non c'è stata per via della lingua (la mia guida era lontana in quel momento), ma il fatto che l'avvicinamento si sia concluso con un dialogo muto con la piccola - che s'è messa ad odorare il profumo della mia mano - mi ha veramente commosso. Era un rapporto non banale, un gesto ancestrale, una comunione al di là del linguaggio verbale. Esistenziale, direi.

Non mi stupisco, allora, che la foto in questione sia riuscita in fondo bene: serve sempre, anche col digitale, un rapporto serio e profondo per arrivare a scattare foto belle che poi colpiscano chi l'osserva. Non basta la tecnica, non basta la migliore Nikon (la mia è una reflex Nikon D60, quindi assai modesta ed economica), non basta la voglia di scoop: serve empatia, serve comunione. Come sempre. Il reportage, scritto e/o fotografico che sia, è una tecnica giornalistica di comunione.


giovedì 11 febbraio 2010

Un po' di corrispondenza con gli amici di questo blog


Città Nuova e i social network

«Sono Carlo da Lanciano. Seguo i tuoi articoli dal mondo con interesse, perchè ci apri un oblò su queste realtà spesso sconosciute. Molti articoli sarebbero interessanti da "condividere" anche attraverso i moderni sistemi di comunicazione (facebook ecc.). Non sono un granchè a livello informatico: perchè non rendete gli articoli tuoi e quelli di Citta Nuova condivisibili? Scusami per l'intrusione e buon lavoro». Carlo

Grazie Carlo dei suggerimenti. Stiamo valutando la cosa, ora che il sito ha preso un'andatura regolare. Perché devi sapere che fare un sito che dica qualcosa di serio, e non sciocchezze da copia/incolla, non è da poco. Prima o poi arriveremo anche a una condivisione più ampia. Grazie ancora, Carlo.


Sul canone Rai

«Dato che cittanuova scrive ormai di frequente sulla RAI, ti invio, se può essere utile, la lettera che ho recentemente scritto alla direzione aziendale relativamente al mio rifiuto di pagamento del canone. Ciao, Pierpaolo». Ecco il testo della lettera: «In riferimento alla vostra lettera protocollo N° ..., e probabili successive da me cestinate, informo che non sono titolare di abbonamento TV poiché non posseggo televisore; pertanto non ritengo doveroso sottopormi al pagamento del canone RAI. Nelle rare occasioni in cui desidero vedere la TV, usufruisco del televisore di ..., il cui abbonamento TV è regolarmente pagato. Vi prego gentilmente di archiviare la pratica che mi riguarda nel momento attuale e per il futuro, evitando di inviarmi notifiche e richieste di pagamento canone TV per i prossimi anni. Il poco tempo libero che mi rimane dagli impegni di lavoro e sociali, li dedico ad hobby diversi dal vedere passivamente la televisione. Non apprezzo, infatti, i bassi valori culturali e stili di vita proposti dai moderni mass media, in primis la televisione dei gestori privati e, come dimostrano i fatti, anche quella pubblica che, al basso livello della privata si è progressivamente uniformata: sono valori di basso profilo, che non formano le coscienze e che non educano. Auspico una revisione della programmazione RAI per dimostrare un livello qualitativo decisamente superiore al grigiore imperante».

Caro Pierpaolo, gentilezza e fermezza. Sono due virtù rare, ormai. Fa piacere vederle e sentirle.

(La foto l'ho scattata a Tunisi, al WSIS 2005)


martedì 9 febbraio 2010

Henri-Lévy, Kapuściński e la verità dei fatti


Il filosofo francese scivola di nuovo nelle falsità mentre esce un libretto di stupefacente amore per la verità del giornalista polacco (nella foto). Il doveroso servizio dei giornalisti alla realtà delle cose, delle persone, degli avvenimenti.

Era il 21 agosto 2008 , ancora in pieno conflitto russo-georgiano; ero in Georgia per raccogliere materiale per il libro uscito qualche giorno fa, Sul largo confine. Storie di cristiani nel Caucaso. Mi trovai a varcare i numerosi posti di blocco dell'armata di Mosca al seguito di un convoglio della Caritas Georgia, per portare un po' di pane alla popolazione di Gori, la città natale di Stalin, occupata dalle forze provenienti dall'Ossezia meridionale. Bernard Henri-Lévy (BHL per i transalpini), aveva appena scritto un reportage, rivelatosi incompleto e per molti versi addirittura falso, sull'occupazione sovietica della città, nella quale non era mai penetrato, contrariamente a quanto aveva scritto su Le Monde, sul Corriere e su altri famosi quotidiani. La realtà era ben diversa. Drammatica ma ben diversa. Un mese dopo il direttore de Le Monde dovette scusalo pubblicamente, dicendo che bisognava capirlo, la sua era una «narrativa giornalistica». Stupefacente.

Già il suo reportage sulla morte del giornalista ebreo americano in Pakistan, Qui a tué Daniel Pearl?, un tomo di cinquecento pagine, non era altro che un mix di fantasie e di contatti reali, una perfetta proposta postmoderna: fiction e realtà mescolate assieme. Edhi Abdul Sattar, da me intervistato, colui che aveva raccolto i resti del povero giornalista, definì quel lavoro «ricco di fantasia». Oggi BHL ci casca di nuovo, citando nel suo ultimo libro, De la guerre en philosophie, un filosofo mai esistito, Jean-Baptiste Botul, supposto autore del libro La vita sessuale di Immanuel Kant, ma in realtà (reale) frutto della vena umoristica di un collaboratore della rivista satirica Le canard enchainé, Frédéric Pagès. Ci risiamo. BHL vittima del copia/incolla!

Proprio in questi giorni, per la piccola ma dinamicissima casa editrice il Margine di Trento, esce un libretto di poche pagine, Perché è morto Karl von Spreti, opera di Ryszard Kapuściński, che ci ha lasciato nel 2007, magistrale giornalista polacco, autore di stupendi reportage, come Negus, Ebano, Lapidarium... Consiglierei a BHL di leggerlo attentamente. Racconta la vicenda dell'assassinio dell'ambasciatore tedesco in Guatemala, avvenuta nel 1970. Riavvolgendo passo passo il filo della matassa del rapimento, l'autore racconta la schiavitù dell'intero Paese sotto la dittatura delle multinazionali agricole statunitensi. 90 pagine di silenzioso racconto, documentato, verificato, caloroso e rigoroso nel contempo. Con il massimo rispetto per le singole persone, anche per i carnefici, e perciò capace di far intravvedere squarci di verità.

In epoca di fiction d'ogni genere spacciate per giornalismo, l'esempio positivo di Kapuściński e quello meno edificante di BHL indicano la strada della ricerca della verità. Strada faticosa, impervia, dispendiosa: il reporter polacco dell'agenzia PAP per risparmiare alloggiava negli alberghi più economici, tra pulci e sporcizia, e non negli Sheraton o nei Marriott... La verità rimane e rimarrà l'impossibile orizzonte del giornalista, anche ai tempi di Internet. Verità forse mai raggiunta ma sempre perseguita.

p.s. A meno che il furbissimo BHL non abbia inserito a bella posta nel suo libro la citazione del falso filosofo per far pubblicità al suo libro. Tutto è possibile, purtroppo, come insegnano la vicenda del nostro Morgan o tante letture fantasiose degli intrighi vaticani...

lunedì 8 febbraio 2010

L'Ucraina ha votato

Non si sa ancora con certezza chi ha vinto nelle elezioni presidenziali, se il redivivo filo-moscovita o la pasionaria dalla treccia bionda. Il Paese, però, è in serie difficoltà. Brevissima metafora (2009).

Nel passage dei Louis Vuitton, di Gucci e Roberto Cavalli, un enfant prodige suona il violino, raccogliendo non poche offerte. Quando suona sembra sollevarsi sui tacchi, e planare nell’aria. Le banconote posate nell’astuccio del suo strumento se ne volano via, ma lui pare non accorgersi di nulla. Cerco il suo mentore, un genitore, un fratello, non li vedo. Pare solo, pare vivere di musica, in tutti i sensi. La genialità certamente è qualcosa di unico e non omologabile. È bellezza.

venerdì 5 febbraio 2010

Spagna in crisi? E' robusta come l'Escorial!

Venti di bufera sulle borse europee per i conti in disordine di alcuni Paesi, tra cui in testa c'è la Spagna. Inutile deminizzare una nazione che saprà tirarsi fuori dai guai, perché solida come il suo monastero-fortezza. Visita del 2002.

Un’enorme blocco di granito, immenso come una montagna, scolpito fino a trarne una magione che è un castello, un monastero, un tripudio della forza dell’architettura, una dimostrazione di forza della Controriforma, un’enorme corona regale per Filippo II e le insegne monarchiche ricevute dal padre Carlo V.

L’Escorial, battuto dal vento impetuoso che viene dalla meseta, sembra un gigante a cui un infante allunga una carezza, che serve solo a scuotere qualche granello di polvere dalla sua pietra secolare. Un gigante buono e severo, tuttavia, troppo bello per essere vero, troppo austero per essere falso, troppo ideologico per essere credibile. Eppure c’è. E questo è un fatto. Migliaia di uomini ci hanno rimesso la pelle nell’edificarlo in 43 anni, altre migliaia nel difenderlo, altre migliaia ancora nel cercarvi quella pace di Dio che non può nascere in una dimora di 2000 stanze, 2600 finestre, 1200 porte, 86 scaloni, 16 cortili, 15 chiostri e 88 fontane. Una pace che forse si può toccare solo nelle cripte che ospitano le spoglie delle famiglie reali spagnole, ma solo per la meditazione sulla caducità dell’umana gloria.

Costruito a forma di graticola, per ricordare San Lorenzo, a cui è dedicato il monastero, El Escorial esalta un concetto di santità castigliana che forse non aveva tenuto conto a sufficienza delle figure straordinarie di Teresa di Gesù e di Giovanni della Croce, concentrandosi sulla commistione, spesso fraudolenta o intimidatoria, tra monarchia e cattolicesimo. Ma tant’è, si disse che Carlo V morì in odore di santità, ritiratosi a vivere in un convento negli ultimi due anni della sua vita.

Forse, il luogo più consono a ritrovare un legame col Dio della semplicità è la pinacoteca, il museo di pittura che contiene centinaia di capolavori di quell’arte del XV e XVI secolo che faceva della ricerca dell’essenzialità, pur con guizzi di innovazione e di fragilità, il proprio credo. Ecco, scorrendo le tele, si coglie un barlume della luce divina che Filippo II voleva trasparisse da tutta la costruzione, almeno nelle intenzioni, seppur frammista a troppi segni del potere terreno.
Un ambiente del monastero attira la mia attenzione: lo scalone principale, al centro della loggia a ponente del chiostro. Una struttura di grande dignità, progettata da un italiano, Gian Battista Castello, detto il Bergamasco. Al fascino della sua linea architettonica, si aggiunge il fasto della volta affrescata nel 1692 da Luca Giordano: La gloria della monarchia di Spagna. Un’apoteosi barocca quasi inimmaginabile, giocata su ori e azzurri, in un’orgia di nuvole e di personaggi, balconi e conciliaboli, spade e croci, spade che diventano croci e viceversa, corone e scettri…

Non va dimenticato, naturalmente, che El Escorial ha espletato diverse funzioni: quella di monastero dei monaci dell’ordine di San Geronimo, con la chiesa adibita a sepolcro dell’imperatore Carlo V, di sua moglie e del figlio Filippo II, dei suoi familiari e discendenti, e quindi luogo di preghiera in cui i frati potevano rivolgersi al loro Dio, per perorale la causa e la salvezza dei reali; e quella di scuola e seminario, a completare il carattere religioso dell’edificio. Per tutte queste funzioni concentrate in un solo luogo, El Escorial ricorda che la santità è incompatibile col potere che non si fa servizio. Ma che la santità è all’inverso altrettanto compatibile con la politica che ricerca il bene comune.

giovedì 4 febbraio 2010

Ossios Loukàs, le note che perpetuano la vita


La Grecia è in gravissime difficoltà per via della sua allegra finanza statale. Visita (1995) alla chiesa di Ossios Loukàs che era in effetti dotato di capacità profetiche: previde l’invasione dei bulgari. C'è ora chi parla di invasione cinese, che starebbe acquistando i bond greci...


Agosto nell’entroterra greco è una sfida al buonsenso, soprattutto se vi ci si avventura a mezzogiorno con un’auto priva di condizionatore. Eppure la giornata permette di apprezzare in tutta la sua bellezza uno dei capolavori dell’arte bizantina, quel monastero di Ossios Loukàs che si trova alle pendici occidentali del Monte Elicona, a metà strada tra la Boezia e la Focile, accanto all’acropoli di Stiri. Le pietre del tempio di Demetra che si ergeva in essa, sono servite alla costruzione delle due chiese del convento. Si tramanda che, ad un paio di chilometri da Ossios Loukàs, Edipo abbia ucciso Laio, re di Tebe, senza sapere che si trattava di suo padre.
L’immersione nella mitologia e nella storia greca qui è avvolgente. Le stesse vicende del santo e del monastero a lui dedicato permettono di rivivere un millennio di storia: Ossios Loukàs nacque infatti nell’896, da Stefano ed Eufrosine, terzo di sette figli. Già a 14 anni seguì due monaci ad Atene e divenne anch’egli monaco. Si ritirò sul Monte Imetto, per poi farsi cenobita. Per sfuggire alle incursioni barbariche, si trattenne a Zemenò, per dieci anni, a fianco di una colonna. Più tardi, per salvarsi questa volta dai Turchi, si rifugiò per tre anni ad Ambelona. Solo nel 946 si installò nel luogo dove oggi sorge il monastero. La sua fama di umiltà, amore e fede attirò numerosi benefattori, tanto che già nel 950 iniziò la costruzione della prima delle due chiese del monastero, allora dedicata a Santa Barbara, ed oggi alla Vergine Maria. Ma morì prima che fosse completata, nel 953, dopo aver previsto la sua morte un anno prima. Ossios Loukàs era in effetti dotato di capacità profetiche: previde l’invasione dei bulgari e la liberazione di Creta dal dominio arabo. Nel 1204 il monastero fu gravemente danneggiato dall’invasione franca e nella guerra d’indipendenza, nel 1821, divenne il quartier generale dei partigiani della libertà greca.

Scendendo al monastero dalla strada di accesso, si rimane stupiti dalla sua imponenza, ma pure dall’eleganza tutta bizantina degli esterni in pietra e mattoni, armonizzati con attenzione e perizia. Un monaco controlla all’ingresso la pudicità dell’abbigliamento dei visitatori, e li fornisce di pesanti indumenti, se il caso. Come il mio. Eppure ben presto dimentico la blusa e i pantaloni della censura. Entrato nel cortile grande del convento, vengo in effetti catturato dalle note arcane – o quanto arcane! –, d’un coro ortodosso, rigorosamente maschile, che gioca la sua forza sui bassi e sui baritoni, che avvolgono con le loro voci l’ascoltatore, come in un mantello di serenità e di gravità. Seguendo le note, penetro in un luogo incantevole per la frescura e l’oro che brilla in ogni angolo della chiesa di Ossios Loukàs, la più vasta del monastero. I vocalizzi sembrano rianimare i santi rappresentati nei mosaici – Anempòdistas, Pagàsias, Achyudinos, Afthoinios e Elpidefòros –, mentre le sante – Tecla, Elena, Agata, Anastasia, Febronia ed Eugenia – sorridono in contemplazione. Il canto liturgico dà vita, trasmette vita, perpetua la vita. Ed è con questi sentimenti che passo dal nartece alla navata, ma senza ancora trovare l’origine di quelle note. Ed è così che vengo trascinato nella seconda basilica, quella della Vergine Maria, legata alla prima da uno strano incrocio: due gradini sconnessi dell’angolo sud-ovest della chiesa più antica penetrano nell’angolo nord-est della chiesa meno antica. Curiosità dell’affastellamento dei secoli. Dall’oro, si passa al più estremo spogliamento. Nessun mosaico nella chiesa della Vergine Maria. Ma le note del coro qui appaiono ancora più spirituali, meno estetiche e meno politiche. Paiono essenzialità. Il coro – solo quattro cantori vestiti di nero e collo sguardo altrettanto scuro – li trovo sotto le uniche pitture della chiesa, accanto all’altare: sant’Ignazio Teoforo e san Policarpo. Santità antica.

mercoledì 3 febbraio 2010

Tibet. Il monastero mimetico alla montagna


Mentre Obama progetta d'incontrare il Dalai Lama e le relazioni Usa-Cina s'infiammano di nuovo, vi offro una visita a Drepung, uno dei massimi centri di formazione dei monaci buddhisti tibetani (dicembre 2006).

A soli otto chilometri dal Palazzo Potala, vanto di Lhasa capitale d’un Tibet orfano del Dalai Lama, m’immergo digià in un altro mondo. In una valle che s’inerpica a sud verso le cime brulle e inospitali delle montagne tibetane, giacciono due grandi monasteri certamente meno importanti e pretenziosi del grande e venerato Jokhang, ma forse più sinceri, più a misura d’uomo. E di monaco. Forse non a caso qui essi sono ben più numerosi di quelli, 150, che abitano nel monastero-madre a Lhasa. Raggiungono le 895 unità. Due monasteri a misura d’uomo, insomma, seppur con scale decisamente più mozzafiato rispetto al monastero più celebre.

Non c’è tempo per visitre entrambi i luoghi, e quindi debbo optare per quello più elevato, Drepung, che in tibetano significa “mucchio di riso”. E un mucchio di riso da lontano lo sembra sul serio, con le sue manciate di edifici bianchi gettati sulla bruna montagna. Drepung fu fondato nel 1416 da un discepolo del fondatore dei “cappelli gialli”, Jamyang Choje, e conobbe l’apice del suo splendore nel XVII secolo, quando poteva contare sulla presenza in loco di ben 10 mila monaci! Anche questo monastero propone una serie di cappelle, di sale, di residenze, di cortili… Su grosse rocce attigue al monastero sono dipinte raffigurazioni e immagini buddhiche, talvolta tracciate sulle rovine degli edifici andati in disuso nei secoli. C’è poca gente in giro, si respira rispetto alla confusione indescrivibile (pur affascinante) incontrata al tempio di Lhasa. Qui si può capire meglio l’interiorizzazione spinta cui invita la Via della luce buddhista.

I monaci sbucano qua e là, impegnati chi a trasportare acqua, chi ad accatastare legna, chi a istruire i visitatori, chi a controllare che nelle cappelle si paghino i dieci o venti yuan prescritti per scattare foto o fare riprese video. Questi monaci vivono certamente dell’elemosina abbondante della povera gente che qui sfila in pellegrinaggio, più che del loro lavoro. Nel complesso paiono assai ignoranti e un po’ zotici, e sicuramente tanti di loro sono monaci solo perché “si fa così”, solo perché così almeno una manciata di riso al giorno ce l’hanno assicurata. Ma negli occhi di taluni di loro scoppia letteralmente il senso del divino, la serenità di una vita consacrata alla divinità, o forse solo al Buddha eterno.

Le finestre di questi monasteri sono invariabilmente racchiuse in una cornice nera che nell’ascendere si restringe, così come tutti gli edifici dei monasteri sono iramidi tronche, quasi volessero non solo imitare la forma delle divine montagne, ma dire all’essere terrestre quanto si debbano concentrare le proprie forze nell’ascesa, nella costante ascesa che diventa ascesa-ascesi, seppur gioiosa.

Nei cortili sopravvive qualche albero, talvolta persino di età secolare, grazie alla protezione delle mura e alla venerazione della gente. Sulle montagne si notano qua e là le strisce colorate delle preghiere della gente, issate nei luoghi più impervi e impensabili. Stanno e si sfilacciano al vento impetuoso della regione, osservate da un monaco che s’è inerpicato su un comignolo dorato, ma di rame. Le cappelle si succedono ai cortili, alle sale di riunione, alle cucine, ai portici, in un incatenamento che sfugge alle logiche della ragione cartesiana. Poco male. Qua e là dei mendicanti tendono la mano, probabilmente quegli stessi che abitano le stamberghe attigue al monastero, ricavate da anfratti rocciosi o dalle rovine dei precedenti romitori. Vivono di pochi yuan, così come i monaci, che però possono usufruire delle banconote che i pellegrini abbandonano in ogni angolo del monastero. Vita dura la loro, dominata dal silenzio che però, in un monastero buddhista, non può essere mai totale. Il silenzio buddhista ha da essere innanzitutto interiore.
Un vecchio monaco mi vede, viene da un angolo dove sono accatastate tonnellate di legna presa chissà dove. Mi sorride, mi dà la mano, accetta di farsi fotografare dinanzi agli stupa dorati e al cielo azzurro come la profondità dell’iperuranio. Un monaco più giovane, in visita al monastero, mi segue curioso di ogni mia mossa, della mia scrittura sul taccuino, delle foto che scatto, delle cose che osservo. Mi dice, dopo innumerevoli sforzi linguistici e gestuali: siamo fratelli. Non posso che convenire, e prendermi un abbraccio odoroso di sterco di yak e di incenso.

Dinanzi al collegio dove studiano i futuri monaci, assisto a una scena che meriterebbe l’occhio d’un grande regista, d’un fotografo d’eccezione: una dozzina di loro spazza con minuscole scope, che li costringono a chinarsi a 90 gradi verso il suolo, gli erti scalini del tempio. Nei loro gesti e nei loro volti si legge una gioia straordinaria, un’allegria contagiosa, una noncuranza delle regole di una pulizia fatta ad arte per privilegiare il momento della convivialità, della fraterna condivisione. Si uniscono e si separano, mi accolgono e m’interrogano, mi fanno sentire importante. Nei loro sguardi ci sono secoli di bontà.

Scendo rapidamente per viottoli di pietra col costante sfondo delle montagne e del cielo. All’uscita decine e decine di venditori di souvenir non voglio tradire la tradizione di ogni fede di attirare il soldo attorno ai luoghi di culto. Pochi yuan al giorno debbono guadagnare, ma non si lamentano. Abitano attorno al monastero, come accadeva per i benedettini nel Medioevo europeo.


martedì 2 febbraio 2010

Tra gli ustionati della guerra dell'Ossezia del Sud

Ancora un estratto dal mio libro "Sul largo confine. Storie di cristiani nel Caucaso": la visita ai piloti di tank ustionati dopo la guerra lampo dell'agosto 2008.

Un deputato, che vuole mantenere l’anonimato, mi accompagna poi a visitare all’ospedale dei grandi ustionati i piloti dei carro armati georgiani feriti. Ma prima vuole dirmi, con una certa solennità, che «la Georgia non merita il fantoccio di presidente che risponde al nome di Mikhail Saakashvili! L’esercito georgiano era stato fornito di molte armi, poi però vendute in giro per il mondo. È uno sconsiderato, il presidente. In Parlamento non c’è una vera opposizione, ma le cose, vedrà, cambieranno rapidamente».

Al Jazeera s’è interessata al Centro grandi ustionati di Tbilisi, sulle alture orientali della città. Qui è ricoverata una bambina di Gori gravemente ustionata, che però è stata salvata. Il direttore Besik Jashvili mi permette d’incontrare alcuni militari rimasti feriti. Fanno impressione le ferite rosse e le medicazioni gialle. Tra di loro c’è Erekle Ioladze, pilota di tank, unico sopravvissuto all’incendio del suo mezzo: i due colleghi sono bruciati vivi. Ne avrà per un anno di cure e trapianti. Riesce comunque a raccontarmi l’avanzata verso Tskhinvali e la controffensiva russa.

Cerco di fargli ammettere che l’attacco è stato dapprima georgiano… Dice e non dice, confonde le date, confessa di non sapere perché fossero arrivati nella capitale ossetina meridionale: «Non voglio problemi», si scusa. E prende a raccontarmi degli atti di eroismo dei soldati georgiani per salvare i loro commilitoni e le popolazioni civili. Ogni tanto si lamenta. E così anche Alexis Chitadze, autista di camion. E Jatsenko Vasiliev, ucraino d’origine, pilota di caccia, colpito sul suo aereo a Marnaouli, mentre ancora si stava preparando a decollare. I Mig russi sono stati più rapidi: «Tutto assolutamente inatteso», mi dice.

lunedì 1 febbraio 2010

Tbilisi, la città di legno

Ancora un estratto dal mio libro "Sul largo confine. Storie di cristiani nel Caucaso". Un breve itinerario in una delle città più belle e inquietanti dell'intera regione, quella capitale georgiana che cerca disperatamente di diventare un centro di statura internazionale.

Mi concedo una visita a Tbilisi, finora solo “annusata”. Pensavo di farlo in solitudine – si colgono meglio le tensioni urbanistiche e ci si lascia sorprendere dall’inatteso –, mentre mi trovo accompagnato da tre colleghi. Uno di loro è corrispondente per un giornale turco, un secondo ha creato un gruppo di media di finanza, e il terzo ha aperto la prima e-zine georgiana. La sede di quest’ultima agenzia di stampa è situata nella via dove si erge l’orrido palazzo presidenziale. Per accedere alla piccola redazione si sale una scala di legno traballante in un edificio che potrebbe anche essere pittoresco e avere un certo fascino fin de siècle, ma che purtroppo è in stato pietoso: nel centro non sono rari i crolli e gli incendi.
Una trasandatezza, eredità anch’essa comunista, che è normalità; me ne accorgo gettando qualche occhiata furtiva all’interno delle singole abitazioni, che quasi sempre hanno dei fascinosi cortili interni sui quali si aprono ballatoi e terrazze di legno. Tutti, o quasi, in stato pietoso. Tuttavia nei quartieri centrali di Tbilisi la decadenza affascinana, è qualcosa che sa di passato glorioso e di presente turbinoso. Se i soldi arrivassero anche qui, come a Praga nell’inizio degli anni Novanta, la città diventerebbe un favoloso concentrato di intarsi lignei allungati su tre o quattro secoli, in un’alternanza unica di stili e di mode, pur conservando un non so che di caldo, di familiare. Ma, una volta restaurata, la città resterebbe affascinante?

Cerchiamo poi di avvicinarci al castello, dopo aver dato un’occhiata furtiva alle terme sulfuree, in pieno centro (Tbilisi vuol dire “acqua calda”), ma i miei amici riescono a far esplodere il radiatore: tocca proseguire a piedi, il che non è male, perché questa è una città che va percorsa lentamente per apprezzarne appieno potenzialità e memoria. Ogni legno sfilacciato, ogni intonaco cadente, ogni trave che porta incise antiche decorazioni pare voler riservare un angolo di intimità con la storia. A piedi si possono scoprire le sue chiese in stile georgiano, quasi senza soluzione di continuità con l’abitato e coi suoi grovigli di fili elettrici, rampicanti, brandelli di ricoperture lignee… e pensieri. Sì, i pensieri della gente di Tbilisi sono un po’ aggrovigliati. Ci vorrebbe poco a sbrogliarli, a “restaurarli” verrebbe da dire. Non si esce indenni da decenni di dittatura dopo secoli alternati di occupazione, schiavitù e indipendenza. «Bisogna lasciar del tempo ai georgiani – mi dice uno dei tre giornalisti –, perché la sua natura cristiana ed europea possa riemergere e strutturare la società».

Trovata un’auto, saliamo sulle alture: dapprima passiamo ai piedi di una enorme statua metallica – un orrore, che rappresenta Kartlis Deda, la Madre Georgia –, poi saliamo verso la gigantesca antenna di telecomunicazioni dalla quale si gode una fantastica vista sull’intera città. Mi dicono sia alta 400 metri (sto imparando a non fidarmi delle misurazioni dei georgiani). La vista è proprio straordinaria, da un parco che potrebbe essere incantevole se non fosse abbruttito da edifici in abbandono. Una gran quantità di militari in grigioverde deambula senza sapere bene cosa fare. L’esercito è uno dei problemi della Georgia: lo è ancor oggi, in momenti di forte tensione etnica. Menar le mani è più facile quando c’è poco da fare.

Scendendo, ad uno sguardo più attento, noto numerosi cantieri di vaste dimensioni, mentre le deliziose case in legno poco alla volta conoscono le cure del restauro pagato dai privati. Le auto di grossa cilindrata aumentano anche qui, ma (e questo è un segnale ben più sano per l’economia) crescono soprattutto le auto di piccola e media cilindrata. I salari s’alzano in media più dei prezzi, anche se la gente non se ne rende conto; ma sta di fatto che si ha accesso ormai a beni prima proibitivi per i portafogli. E finalmente comincia a svilupparsi quella classe media che rende possibile un certo liberismo economico.

La religiosità trova una valida spalla nella politica che è alla disperata ricerca di valori nazionali che possano coagulare una popolazione sottoposta alla violenta carica consumista. Così, pur professandosi laico, il potere politico non disdegna di sbandierare le forti vicinanze con le cose dello spirito, quelle legate alla nazionalissima Chiesa di Georgia, ortodossa e autocefala.
La società civile cresce, la stampa pure, anche se l’autocensura di sovietica memoria è ancora all’apice della sua fortuna e anzi, se possibile, è aumentata (lo dimostrerà la guerra del 2008). Di piccoli Berlusconi georgiani non si vede traccia, ma la televisione si americanizza. La proverbiale generosità dei locali si coniuga oggi nella crescita di Ong del posto, seppur legate ad Ong straniere. Il sistema sanitario fatica a raggiungere gli standard europei. Persino l’educazione s’è rimessa in moto, soprattutto per l’iniziativa privata, ed ora la nazione può contare su una cinquantina di università di buon livello. Che poi si approfondisca il fossato che separa chi si può pagare gli studi e chi invece non può farlo, «questo è il prezzo da pagare, anche se lo Stato dovrebbe assicurare a tutti i cittadini un’educazione e un’istruzione adeguata», ammette il ministro della Cultura.