martedì 26 ottobre 2010

Maalula nelle mani dei qaedisti



La città è ormai caduta. Che cosa si trova in una delle città più cristiane della Siria? Visita del 2005.

Lasciata la stupefacente Mar Mousa e il deserto di rocce tra Damasco e Homs, una stretta e pittoresca valle conduce da Yabrud verso una cittadina dal nome fascinoso: Maalula, ai piedi della catena ancora innevata dell’Antilibano, incastonata in una striscia di verde che evidenzia l’umidità della valle. Il mio accompagnatore mi dice con una certa fierezza che la cittadina è famosa presso il popolo siriano non tanto per le bellezze d’arte, per la natura scorticata o per la tradizione d’un tempo lontano di cristianità originaria, quanto molto più prosaicamente per la bellezza delle sue giovanette e delle sue donne. Costato come sia vero. Spuntano ovunque, dagli angoli più impensati, degne senza essere ingabbiate in scafandri di tessuto, certamente più intraprendenti di quanto non lo siano normalmente le donne siriane…
A Maalula c’è dell’altro, ovviamente, del bello e dell’antico. Come il monastero di Santa Tecla, Deir Mar Takla. Pare di essere nel siq di Petra, in un canyon angusto e misterioso che si dice sia stato aperto miracolosamente dal passaggio di Santa Tecla, appunto, seguace di San Paolo in fuga, e poi martirizzata sul posto. La Siria non cessa di sorprendere per la sua incredibile capacità di generare miti, di tirar fuori dal suo cilindro santi d’ogni tipo ed origine.
Più sotto, appresso al convento moderno dedicato alla santa, come una fortezza ricca di modestia (mi si perdoni l’anacoluto) si para dinanzi al pellegrino il monastero di San Sergio, Deir Mar Sarkis, che in alcune sue parti risale addirittura al III-IV secolo. E il suo altare data ad un’epoca pre-cristiana: è semicircolare e non è piatto – come prescrissero i primi vescovi, per non confondere il rito cristiano con quello pagano –, conservando quelle scanalature e quei bordi che servivano a trattenere il sangue dei sacrifici animali dei culti ancestrali della regione. Il pretino, che pare voler affermare d’essere lui stesso una reliquia dei primi tempi del cristianesimo, mi offre un bicchierino di passito – squisito, per onor di cronaca –, prodotto dalle magre vigne del monastero e poi intona solo per me il Padre nostro in aramaico: il dialetto del posto è quello stesso (sembra proprio che sia così) che Gesù parlava in Palestina.
Il monastero annuncia poi una originalissima conformazione calcarea, forata come un gruviera da infinite grotte che avevano ogni sorta d’uso, forse salvo quello dell’eremitaggio. Da quegli anfratti escono capre, pecore, mucche, galline, conigli e umani ch sembrano capre, conigli…
Ancora una ventina di chilometri di ebbrezza, seguendo una catena montagnosa che pare lo slabbramento d’una ferita mai rimarginata, ed ecco un altro grappolo di case, l’ennesimo, che s’inerpica su un colle coronato da un altro grappolo, di cupole questa volta. Ecco Seidnayya, una delle più antiche mete di pellegrinaggio di tutto il Medio Oriente: qui è conservata, in un oscuro anfratto ricavato nella cripta della chiesa principale, un’immagine mariana, un’icona ante litteram, che si dice dipinta niente meno che dall’evangelista Luca in persona. Ogni sorta di miracoli è attribuita all’icona, non solo dai cristiani delle Chiese più diverse, ma anche dai musulmani. Nell’orribile scalinata a zigzag costruita di recente con materiali dozzinali per permettere un’ascensione più comoda al santuario, le donne velate sono in effetti più numerose di quelle a capo scoperto. Si confondono con le monache ortodosse che custodiscono il santuario con ferreo rigore, senza transigere minimamente alle anarchie dei turisti. Anch’io mi becco una violenta reprimenda per aver osato fotografare l’icona, commettendo così un atto di peccaminoso consumismo…
Perdersi nei cortili, sulle terrazze, nei tetti, negli intricatissimi passaggi del monastero è piacevole e contagioso, tanto più quando si ha la coscienza di scoprire uno dei luoghi più antichi della fede cristiana, dopo Gerusalemme, ovviamente costruito per sostituire, o più precisamente per sovrapporsi, a un antico tempio pagano, romano o greco, chissà. In ogni modo qui la fede non è un’opinione, è forte come la roccia. Quella dei cristiani e quella dei musulmani. Maria fa da trait-d’union tra i fedeli delle due religioni, forse non a caso. Forse è una profezia.

mercoledì 20 ottobre 2010

Auvers-sur-Oise, Van Gogh e gli scioperi


Mentre la Francia vive momenti di alta tensione politica e sociale, una visita nel paese che ospita le spoglie di Van Gogh (a cui Roma dedica in queste settimane una mostra importante) può insegnare il senso della misura. Si era nel 1993.

La chiesa di campagna immortalata dal pittore fiammingo negli ultimi squarci della sua tormentata carriera d’uomo si erge nella modestia contadina, così simile al dipinto eppure così diversa, quasi meno reale della copia. Potenza dell’arte, potenza dell’immaginazione! Controvoglia salgo i quattro materiali scalini della parrocchiale, che subito m’appare deturpata nella sua semplicità architettonica dal solito armamentario dei curati: annunci libretti rosari questue riviste.

Immaginavo di potere incontrare sotto le volte neogotiche un vecchio sacerdote senza più forze né illusioni che mi scaldasse il cuore, come a Emmaus; che mi ascoltasse calmo e amoroso, come al pozzo di Samaria; che mi capisse acuto e misericordioso, come l’angelo del sepolcro vuoto; che mi rimproverasse con un drammatico: «Mi ami più di costoro?». Ci sono giorni così. Il prete appare sul serio, ma giovane e dinamico, scattante come una cavalletta, preoccupato che tutto funzioni alla perfezione per la cerimonia che comincerà di qui a poco. Non mi degna ovviamente di uno sguardo. Meglio così. Meglio emigrare da questa chiesa, quest’oggi chissà perché senza Santissimo. Chissà dove l’hanno nascosto, quasi che ci si dovesse vergognare della sua presenza.

Sono giorni blu, come il cielo che avvolge le arcate schizoidi del folle d’Anversa, pazzo per amore. Dietro la chiesa, oltre un prato ubriaco di ranuncoli, giacciono le tombe dei due fratelli Van Gogh, Vincent e Théo, legatissimi in vita, uniti nella stessa terra mortuaria. Altrove la gente si slancia accecata sulle orme dell’uomo che da vivo non vendette nulla; Van Gogh Museum, Moma, Héremitage e Musée d’Orsay rigurgitano di gente assetata di vedere, ingoiare e digerire in pochi minuti le sue pennellate geniali. Senza grande successo, domani un Cezanne o un Michelangelo pubblicizzati prenderanno il posto del fiammingo, in una confuzione da supermercato dell’arte.

Auvers-sur-Oise gode invece della pace dello spirito. Cosa valgono le ceneri di un pittore, anche del più grande? Polvere. Van Gogh, eunuco della vita. Ma le sue ceneri sono avvolte da un fitto cuscinetto di edera silenziosa. Un capolavoro di divina semplicità, che Vincent avrebbe certamente approvato.

Van Gogh ha sperimentato l’eterna assurdità di riconciliare il mondo col suo Dio. Ha ricominciato cento volte. La centunesima gli fu fatale. Ma, ne sono certo, nell’agonia, avrebbe voluto ancora ricominciare. Il sangue nero di polvere da sparo glielo impedì.

giovedì 14 ottobre 2010

Serbia, la pace tra 10 mila anni


1999: intervista all’allora arcivescovo cattolico di Belgrado, Franc Perko, personaggio conosciutissimo a Belgrado, di cui all'epoca era arcivescovo metropolita. Di grande interesse rileggerla dopo i fatti di Genova.


Nato nel ’29, Franc Perko è sloveno. Mi accoglie nel suo studio carico di libri, riviste e soprammobili, che evidenzia una cultura vasta e coltivata: è teologo orientalista e “basilista”. È stato condannato a quattro anni di prigione, che ha scontato dal ’55 al ‘58 proprio a Belgrado. L’arcivescovo fuma la pipa e ha un parlare schietto.

Proprio oggi si festeggiano Cirillo e Metodio, evangelizzatori dei Balcani. Cosa le suggeriscono le vicende dei patroni dell’Europa «a due polmoni», assieme a Benedetto?

«Nell’attuale difficile situazione è molto importante che la chiesa contribuisca alla creazione di una nuova mentalità di perdono, convivenza, e, perché no, mutuo amore. Tra singoli e tra etnie. La pace dipende da questo cambiamento di mentalità, che tuttavia non si può fare dal giorno alla notte. Inutile illudersi. È una sfida, un dovere non solo per la Chiesa cattolica, ma anche per quella ortodossa e per la comunità musulmana. Penso che la mia chiesa sia pronta a questo passo, che anzi sta già compiendo. Ma sono felice che anche la Chiesa ortodossa si sia avviata nella stessa direzione, ammettendo alcuni errori passati. È una speranza; bisogna essere pazienti e ottimisti».

La propaganda del regime è invadente. Ma anche in Occidente spesso non abbiamo informazioni esaurienti. Così si dipinge il popolo serbo come bellicoso e quasi diabolico…

«No. Tutti i popoli sono uguali. Che alcune persone appartenenti all’etnia serba siano sotto l’influsso del male, questo è un altro discorso. Ma di gente così ce n’è in tutti i popoli. Così non si può nemmeno dividere la popolazione tra buoni e cattivi; ma c’è qualcosa che, a mio avviso, ha falsato l’orizzonte politico, religioso e sociale della regione: l’idea della Grande Serbia, che andrebbe difesa (e non conquistata) contro coloro che la minacciano nella sua esistenza. Nella penultima guerra balcanica, quella del ‘91, paradossalmente erano in conflitto solo difensori: mi dica, non è difficile fermare una guerra quando non c’è un solo attaccante, un solo colpevole? Il regime attuale ha usato quest’idea della Grande Serbia anche nel recente conflitto: la Serbia non esisterebbe senza il Kosovo. Alcuni esponenti religiosi hanno appoggiato ripetutamente quest’idea, sin dalla guerra con la Croazia: so per certo che nei giorni precedenti il conflitto, autorevoli uomini di chiesa in Kraijna diffondevano e sostenevano questa teoria. In quell’occasione era stato persino rifiutato un piano croato (detto Z4), per una forte autonomia della regione. E ora, dopo la nuova ripartizione della Bosnia-Erzegovina firmata a Dayton, la Grande Serbia non c’è più. È vero, emerge lo spettro di una Grande Albania, che si esprime tra l’altro nella purificazione etnica attuata dai kosovari albanesi in numerosi villaggi abitati anche dai serbi, già prima di quest’ultimo conflitto. È ora di finirla con queste menzogne storiche e politiche».

La carta dei Balcani è impressionante per il mixing etnico. Sarebbe possibile dividere definitivamente le etnie? Non servirebbe piuttosto un piano per la loro coesistenza pacifica?

«Dividere le etnie nei Balcani è assolutamente impossibile, come ha dimostrato la guerra in Bosnia ed ora il conflitto in Kosovo. Lo ripeto, più che un piano politico (pur necessario) c’è bisogno di un cambiamento di mentalità per giungere alla coscienza che si deve vivere assieme. Solo questo è il futuro, al quale debbono collaborare tutte le comunità religiose. Si conoscono ad esempio i codici di vendetta esistenti tra gli albanesi: in Kosovo i cattolici avevano proposto e realizzato un perdono generale tra tutti gli albanesi, cattolici o musulmani che fossero. I conti erano stati azzerati. Ma i cattolici albanesi non avevano rivolto questo invito al perdono reciproco a serbi e rom. Sarebbe ora opportuno farlo. È vero, ci sono migliaia di morti che pesano sulla bilancia, ma senza azzeramento delle vendette non si riuscirà ad uscirne vivi. La Chiesa cattolica è pronta a fare questo passo, speriamo che lo siano anche i cattolici».

L’Europa si interroga, perché nel suo seno è nata questa guerra, risolta coi bombardieri americani. Quale ruolo può ancora giocare il vecchio continente?

«L’Europa ha fatto molti sbagli, ma ha anche avuto i suoi meriti. Senza la sua presenza - lo dico senza remore - le cose sarebbero andate molto peggio. Dopo il crollo del comunismo, che aveva fatto tacere con la paura le discordanze etniche dando cinquant’anni di apparente pace ai Balcani, i movimenti sociali si sono rimessi in moto. I piccoli popoli, giustamente, non sopportano più di restare sotto il dominio dei grandi. La Russia stessa, con le sue quindici etnie maggiori, è sul bordo dell’esplosione. Penso che il processo di decolonizzazione africana ci insegni qualcosa: le frontiere, quali che siano, debbono restare intatte. Questo principio ha salvato l’Africa dalla totale anarchia. Nei Balcani ha tenuto finché non è venuta fuori quest’idea della Grande Serbia, e tutto è saltato per aria. La Bosnia si è salvata grazie proprio a questo principio dell’immutabilità delle frontiere. Credo che lo stesso possa accadere col Kosovo. Autonomia delle singole regioni, sì. Indipendenza, no».

A suo avviso, quali sono i lati più positivi del popolo serbo?

«L’ospitalità, l’amicizia e il rispetto, soprattutto - a dire il vero - per chi è dalla loro parte. Un giovane studente serbo mi disse un giorno: siamo amici, perché allora non abbiamo la stessa lingua? Gli risposi che dovevamo rispettarci e amarci, ma nella diversità. I serbi sono inoltre eccellenti non solo nel calcio, ma anche nella cultura. È un popolo fiero e nobile».

A quando la vera pace nei Balcani?

«Tra 10 mila anni».

10 mila, senza sconti?

«A meno che la provvidenza non intervenga. Questo lo spero e lo credo».

martedì 12 ottobre 2010

Masada, l'orgoglio degli ebrei

Il governo israeliano ha approvato una modifica alle norme della concessione della cittadinanza: bisognerà giurare fedeltà anche all'ebraicità dello Stato. Visita a Masada, orgoglio d'un popolo.

Masada, Massada o Mezada, dipende dalle traslitterazioni. Il Mar Morto giace come sempre sonnacchioso, con le onde rese vischiose dalla concentrazione salina, sotto una foschia che sa di inerzia, di mestizia, di polvere sospesa nell’aria. Il profilo del Monte Nebo s’intravede al di là della distesa d’acqua che ricopre la depressione: il papa è lassù, a predicare pace su queste terre che nella storia hanno conosciuto più conflittualità che tregue. I paesaggi sono lunari, desertici, aspri: si capisce così l’asprezza di questa gente avvezza più a costruire muri che ponti. Qui in effetti anche le montagne paiono muri invalicabili, o quasi. Come lo sperone roccioso di Masada, che persino i romani fecero un’improba fatica a conquistare. Spingendo i difensori a immolarsi come kamikaze ante litteram, forse seguendo il Sansone biblico, che gridò in un impeto di collera nazionalistica: «Muoia Sansone con tutti i filistei».

Che i romani abbiano faticato tanto a conquistare il simbolo stesso dell’entità nazionale ebraica lo si capisce da subito, salendo dal Mar Morto fino alla roccaforte di Masada, issata su una roccia che pare un tronco di cono sovrastato da una piattaforma che già dalle pendici del monte pare grandiosa. Si può salirvi usando una funivia di fabbricazione svizzera – rassicurante presenza elvetica –, oppure sfidando sole e calore imboccando lo snake path, il sentiero del serpente, chiamato così non a caso, per l’ardito percorso che s’inerpica lungo il crinale orientale. Ad ogni tornante lo scenario acquista toni sempre più epici, quasi si stesse spiccando il volo a picco sull’azzurro cupo del Mar Morto. E salendo si scorgono pure i perimetri ben visibili degli accampamenti che i romani eressero per porre l’assedio alla fortezza, che durò circa sei mesi. Eressero pure una muraglia di legno, per impedire ogni via di fuga agli assediati: oggi resta un lungo e ininterrotto muretto a secco che ne ripercorre il tracciato.

È con non poco sollievo, allora, che si giunge alla Porta Orientale, attraversata la quale s’apre il vasto altipiano (700 metri su 300) di Masada, che dapprima non suscita grandi entusiasmi, a dire il vero, né estetici né archeologici, salvo per tre o quattro torri monche che paiono più che altro residui di un forte militare d’altri tempi, o poco più. Ma è questione di qualche centinaio di passi, quando il reticolato di muri svela la città che lassù era stata costruita, o piuttosto una reggia fortificata. Se la polvere, che nell’ascesa contrappuntata da gradini che si sfaldano alternati ad altri che invece paiono venire dai millenni trascorsi e andare verso nuovi millenni, era stata invadente e appiccicosa, qui invece si erge addirittura in volute modellate dal vento che paiono materializzare fantasmi. Ebraici e romani, in lotta tra loro, con il corredo di zeloti ed esseni e finanche cristiani bizantini.

La fortezza viene descritta dallo storico ebreo che s’aggregò all’esercito romano, Giuseppe Flavio, quasi un imbedded reporter dell’epoca. Fu il re Erode, quello del tempo di Gesù, quello sepolto nella collina artificiale dell’Herodiyon (40-4 a.C), che rese grande Masada, trovando il luogo adatto a difendersi dai tanti nemici, reali o potenziali, che minacciavano Israele. Così su questo pianoro eresse una reggia e una fortificazione di eccellente fattura, usando dell’arte dei migliori artisti e artigiani dell’epoca. Scriveva Giuseppe Flavio: «Costruì sulle mura trentasette torri e un intero castello, cosicché la sua opera si erge verso il cielo e di fronte agli uomini a riparo del nemico che sale in guerra contro di lui».

Ma la vicenda di Masada fu resa epica dalla grande rivolta contro i romani del 66 d.C., quando un gruppo di “sicari” (zeloti estremisti, determinati alla morte pur di sconfiggere il nemico), guidati da Menachem Ben-Yair, attaccò la fortezza sottraendola al controllo romano. Arrivarono anche gli esseni quassù, in un impeto di orgoglio tutto ebraico. Dopo la caduta di Gerusalemme, nel 70 d.C., gli ultimi ribelli si rifugiarono proprio quassù. Vi costruirono nuovi edifici, sia militari che cultuali che educativi. Finché i romani, al comando di Flavio Silva, tre anni più tardi intrapresero la riconquista di Masada. Mille erano quassù, diecimila laggiù. Ma l’assedio non fu facile, e durò alcuni mesi. Fu una terribile battaglia in cui gli assediati si decisero alla morte pur di non cadere vivi in mano del nemico: dapprima furono le donne e i bambini ad essere sgozzati dai loro stessi mariti e padri, i quali poi funsero da kamikaze ante litteram, cercando di sacrificarsi solo dopo aver ammazzato ciascuno dieci nemici, più o meno. I romani, vinte le ultime resistenze, trovarno a Masada solo una distesa di cadaveri. Vennero poi i bizantini, prima che l’intero sito cadesse nell’oblio, finché due archeologi inglesi, Smith e Robinson, nel 1838, reperirono di nuovo il sito. Ma solo nel 1953 vennero reperiti il Palazzo Nord e la serpentina, e fu così chiarito l’enigma storico di Masada, così come l’ho sommariamente raccontato.

Si capisce, allora, come Masada sia diventata il simbolo storico dell’eroismo ebraico, al punto che gli ebrei ora vengono in questo luogo come si va in un pellegrinaggio, ritenendo questo luogo il simbolo della conquista della libertà. È la storia della resistenza di una minoranza contro la maggioranza: in fondo, la storia del popolo ebraico. Non a caso i soldati israeliani impegnati nelle più complesse operazioni militari e di intelligence contro il terrorismo palestinese (o la resistenza, dipende dai punti di vista!) vengono quassù giurare la loro fedeltà allo Stato ebraico, naturalmente sulla Torah.

È importante deambulare nel sito avendo ben in mente questa storia, che spiega tutto, o quasi, di questi reperti. Così le terme – con frigidarium e calidarium e tiepidarium – e il complesso sistema di raccolta delle acque (già all’epoca una specialità degli abitanti del luogo di religione ebraica), così i magazzini regolari e efficienti, così il Palazzo di Erode vero e proprio, costruito su tre livelli, quasi sospeso nel vuoto, così i mosaici di squisita fattura che compaiono qua e là nelle abitazioni e nelle casematte. Si cammina e si respira la profondità dei millenni, pare di scorgere, nelle frotte di turisti velati dalla nuvola di polvere, truppe disposte al combattimento; pare di udire le grida dei bimbi che scorrazzano nelle corti delle scuole; pare di veder le donne intente a coltivare i loro orticelli e a raccogliere l’acqua piovana fino all’ultima goccia. Pare scorgere il corteo reale incamminarsi per le celebrazioni dello shabbat

venerdì 8 ottobre 2010

Shanghai, il castello del capitalismo comunista


Il premeir cinese Wen Jaobao è in visita in Italia. Ha promesso 100 miliardi di scambi tra Cina e Bel Paese. Visita del 2006 a Shanghai, capitale del capitalismo locale.

Industrializzazioni spinte all’estremo e limitazione delle libertà religiose e di pensiero, consumismo sfrenato e comunismo al potere. Sono contraddizioni a lungo sopportabili? Questo mi chiedo in attesa dell’aereo della China Eastern che mi condurrà a Shanghai, capitale commerciale del Paese: se Beijing è la storia e la tradizione, Shanghai è invece il presente, costruito com’è con criteri di massima produttività e spirito d’iniziativa privata.

Abito in una torre di 35 piani, proprio di fronte al mercato più noto ai turisti occidentali, quello dove si vendono i prodotti di marca europei, in particolare italiani, contraffatti bene: dai Rolex ai Louis Vuitton a Prada e Armani. Tra pochi mesi questo mercato, anche per le pressioni occidentali, verrà chiuso, e i commercianti che vi sono attualmente accolti non avranno più la licenza di vendere. Ma questo, mi spiegano, avrà probabilmente come solo effetto quello di moltiplicare tali templi della copia, perché la capacità riproduttiva cinese e il disprezzo per le leggi internazionali della proprietà è assolutamente irrefrenabile.

Dalla mia finestra si ammirano centinaia di grattacieli, una foresta impressionante di acciaio e cemento, anche se è rivolta verso il Nord, e quindi non riesce a inquadrare Pudong, il massimo centro commerciale della città, che conta il maggior concentrato al mondo di grattacieli assieme alla lontana Manhattan e alla vicina Hong Kong. «Ma sono in media i più alti esistenti», ci tengono a dirmi degli amici. Aggiungono che la corsa ai grattacieli è finita, perché il sottosuolo della metropoli, sottoposta ad un’enorme pressione, comincia qua e là a cedere. Per questo motivo sono state interrotte tutte le estrazioni di acqua dal sottosuolo, e per questo i nuovi progetti vengono valutati uno alla volta, con rigore. Non è nemmeno immaginabile pensare quello che succederebbe se ci fosse un cedimento, fosse anche di mezzo metro, del terreno di Shanghai.

Mi reco a pranzo in un noto ristorante del centro, il Nanxiang Steamed Buns, dove si sono fermati a gustare le prelibatezze della cucina di Shanghai – meno fritta, va detto, di quella di Beijing – persino la regina Elisabetta d’Inghilterra e Bill Clinton. Non costa più di tanto (25 euro in quattro), e si rivela una cucina prelibata: un’infinità di cibi dolci e salati, accompagnati da un tè meraviglioso che sembra sciogliere ogni grasso, con manicaretti che paiono impastati dalle mani di un chef di grandi capacità.

Il ristorante dà su una piazzetta sospesa sopra un piccolo lago in cui sguazza una moltitudine di pesci rossi ingozzata da cento e cento mani generose che si sporgono dai parapetti come stessero nutrendo gli dèi stessi. La folla è traboccante e impenetrabile, un muro, dedita alle più varie attività, in certo modo incurante di chi passa accanto. Siamo nel centro antico della città – antico, si fa per dire, qualche edificio supera appena il secolo o i due –, completamente restaurato e trasformato in un immenso centro commerciale che offre di tutto e di più, dalle effigi di Mao ai profumi di Calvin Klein, alla Bibbia. È in certo senso un buon modo per introdurmi al capitalismo cinese, alla sua incredibile aggressività e, almeno in apparenza, alla sua assoluta mancanza di etica. Tutto è possibile, sotto l’occhio attento del Grande Fratello.

È un impatto forte, quello con Shanghai, 17 milioni di abitanti, una storia in fondo breve, un passato coloniale a opzione plurima, uno sviluppo economico al 30 per cento annuo, un’esplosione edilizia che non ha eguali al mondo. È la città dei grattacieli, di tutte le fogge e le altezze. Ce ne sono a bombetta, a foulard, a punta, a palla, a bustina, a infiorescenza, a borsalino, a piume. E ancora a biscotto, a carota, a sedano, a zucchina, a mango, a melanzana. Ce ne sono bombati e slanciati, tozzi ed esili, giunchi battuti dal vento e querce secolari. Gli architetti del mondo intero vengono qui a vendere i loro progetti ai cinesi, che hanno soldi e mano d’opera a buon mercato, know how e gusto del rischio.

È tutto vero, ma Shanghai, vera città cinese del business, ha l’attenzione dovuta per i suoi edifici più antichi, che vengono preservati e restaurati qui sul Bund sul quale passeggio sul far della sera, illuminato a festa. In questo modo la città cerca di attirare turisti cinesi in primo luogo ma anche europei e americani, tanta valuta pregiata e una riserva di plusvalore impressionante a causa dei ritmi di lavoro e degli stipendi ancora bassi, da Paese in via di sviluppo, e dello yuan che il governo non accetta di rivalutare. Con queste riserve il governo cinese sta comprando il debito estero statunitense, robe dell’altro mondo!

Shanghai ha il concentrato di popolazione di Hong Kong e la vastità dell’abitato di Pechino. Una miscela esplosiva, se non fosse per la straordinaria capacità disciplinare del popolo cinese. Lo penso osservando, al di là del fiume Huangpu, Pudong, uno degli skyline più belli al mondo. Su un grattacielo vengono proiettate immagini della Gioconda, di quadri di Van Gogh, di film di Fellini. Ecco la globalizzazione alla cinese!

Finalmente varco il fiume. Qui sono concentrati alcuni degli edifici più alti e avveniristici della città, attorno a quella Torre della televisione che è diventata il simbolo della città, con le sue due enormi sfere lucenti che ne ornano la base e la cima. Salgo alla sommità del più alto grattacielo della città, quel Jinmao Dasha, edificio cristallino, scintillante, alto ben 420 metri, che negli ultimi 35 piani ospita uno dei più straordinari hotel che esistano al mondo, in un’avveniristica cavità scintillante d’oro. Dalla cima della enorme torre lo spettacolo è vertiginoso, anche se la foschia oggi è particolarmente densa. Si ha l’impressione che un gigante stia giocando coi birilli, che la gravità umana sia più relativa che altrove, e che si possa incarnare per una volta lo scalognato Icaro, ma con più fortuna.

Ai piedi del grattacielo, magnati thailandesi hanno costruito un avveniristico centro commerciale, tutto luci e ammiccamenti e pubblicità. E l’interrogativo essenziale di questa mia visita riprende forma e colori: come può convivere una società comunista, retta ancora da un partito forte e onnipotente, con una società di mercato spietata e tragicamente avviata ad accrescere le disuguaglianze sociali? Le risposte stanno o nella progressiva diminuzione dell’uno o dell’altro: facile pensare che sarà il materialismo spietato a scacciare il comunismo altrettanto spietato. Ma chi poi renderà la gente più felice?

venerdì 1 ottobre 2010

Konyeurgench, le culle in miniatura


Le rovine raccontano più delle costruzioni rimaste in piedi. Nelle macerie di tanta parte dell'Asia centrale, Konyeurgench, in Turkmenistan, è un capolavoro.

Era la vera Urgench, ma gli uzbechi hanno voluto non perdere il suo nome, costruendo un’orrida città con lo stesso nome a un centinaio di chilometri di distanza. Così l’antica capitale del Khorezm ha dovuto chiamarsi Konyeurgench, cioè antica Urgench. Poco male, ciò non toglie nulla alla sua gloriosa storia: il Khorezm, in effetti, faceva figura di un’oasi di civiltà nel deserto dell’Asia centrale. Nel VI secolo a.C. divenne persiano, mentre già nell’VIII secolo gli arabi vi introdussero l’Islam. La grandezza della città divenne reale nel 995, grazie al re Mamun, che unificò il Khorezm: all’epoca l’Amu Darja, l’immenso fiume che viene dal Pamir, attraversava ancora la città. Furono però i Khorezmshah, dinastia selgucide, a dare il massimo splendore alla città. Fino al regno di Muhammad II, che spostò la capitale a Samarcanda, irritando nel contempo il “grandissimo” dell’epoca, Gengis Khan. Risultato: i mongoli distrussero Samarcanda, Bucara, Khiva e Konyeurgench. Muhammad II morì in esilio nel 1221, su un’isoletta del Caspio. Nella città restano i mausolei di suo padre e di suo nonno. Tamerlano ci mise poi del suo, radendo di nuovo al suolo la città, nel 1388. Non si riprese più, Konyeurgench.

Si respira storia da queste parti, che contrasta non poco con la piccola storia che, invece, si vive nell’abitato più recente di Konyeurgench, che fa da corona ai due siti archeologici. Poca roba, ma grande povertà – quella che il presidente-dittatore vuole nascondere alla sua opinione pubblica e, soprattutto, agli stranieri –: un bazar assai povero, pochi edifici pretenziosi di rappresentanza, pressoché inutili, come quelli che ho visto ad Ashgabat, Mary e Dashoguz. Poche attività commerciali e artigianali, per giunta sommarie. Pranziamo in uno dei migliori ristoranti della cittadina, che conta circa 15 mila abitanti, affacciato su una strada polverosa, gestito da una coppia uzbeco-coreana: qui i sovietici, in effetti, avevano fatto traslocare con le buone o con le cattive alcune migliaia di coreani del nord. Tre e solo tre sono i piatti a disposizione degli avventori, cotti in una cucina a vista di sporcizia notevole: spiedini (ne ho fin sopra i capelli), salsicce di pecora (idem) e lenticchie con una sorta di hamburger. Opto per quest’ultima pietanza, nei fatti assai appetitosa, anche se estremamente ricca di calorie. E così comincio a sudare come una fontanella, mentre l’aria condizionata non ce la fa più a sputare fresco. Sopore prolungato seduto su un divano ricoperto da un polveroso tappeto. In effetti la polvere regna sovrana, perché qui le strade secondarie non sono asfaltate. Esco, do uno sguardo dentro un cortile: c’è solo povertà, disagio sociale, trascuratezza. Qui la gente ha come prospettiva storica quella di portare a casa qualcosa da mangiare per la giornata, il mese sarebbe già un lusso. Un vecchio, Ahmad, intabarrato in un abito di lana, come solo i vecchi ormai fanno, mi confessa: «Vivo con la pensione di 15 dollari al mese. Il resto lo tiriamo fuori con altre attività agricole. In famiglia siamo in cinque a dover vivere. Già sopravvivere è importante».

È da queste case e da queste strade che mi inoltro nel primo lotto del sito di Koneurgench, certamente il minore, ma comunque significativo, in particolare per la fede dei musulmani turkmeni, certamente non delle più ortodosse e vive, ma forse sottovalutata soprattutto dal governo laico che vorrebbe ora lunghe schiere di musulmani obbedienti. Due in particolare sono gli edifici che meritano attenzione, due mausolei guarda caso: quello di Najm-ed-Din Kubra (XII secolo) e quello del sultano Ali (XV secolo). Il primo è il luogo più venerato della città, dedicao com’è al maestro sufi che nel XII secolo fondò l’Ordine di Kubra. Si ritiene che la sua tomba abbia poteri terapeutici. Mi diverto a seguire tre donne, giovani e slanciate, che appaiono devotissime, che toccano ogni pietra, che compiono percorsi votivi per me misteriosi, che recitano incomprensibili formule di preghiera. Le fotografo e loro stanno al gioco: la gente turkmena è estremamente affabile.

Ma è all’esterno della città che si trovano i grandi monumenti che testimoniano ancor oggi la grandeur perduta della capitale del Khorezm. Maestoso, anche se di dimensioni in fondo non straordinarie, è il mausoleo di Turabeg Khanym, del XIV secolo, simbolo della rinascita di Konyeurgench dopo il passaggio devastante dei mongoli. È l’edificio antico più importante giunto pressappoco ancora integro all’appuntamento del XXI secolo. È accogliente, armonioso, perfetto anche se in fondo fragile, con la sua cupola esterna ampiamente danneggiata e le decorazioni in ceramica quasi interamente divelte dal tempo, dalle intemperie e dall’incuria. Ma mantiene una sua dignità, la fierezza di un passato glorioso e di un presente un po’ trascurato: non è che i restauri siano poi stati impeccabili e la pulizia lascia a desiderare, coi piccioni che spargono il loro guano ovunque. Ma il rivestimento interno della cupola è rimasto intatto, meraviglioso nei suoi blu e azzurri che in qualche modo vogliono riprodurre la volta celeste. L’osservo nelle sue geometrie che, per volere religioso islamico, prendono il posto delle rappresentazioni figurative. Ma no, che dico, le figure ci sono: le costellazioni e i sogni e i misteri della Terra e del Cielo. Nei fatti il mosaico rappresenta i 365 giorni dell’anno, gli archi a sesto acuto sotto la cupola raffigurano le 24 ore del giorno, mentre i sottostanti archi rappresentano i 12 mesi dell’anno. Le quattro grandi finestre stanno per le settimane del mese.

È faticoso camminare quest’oggi col calore che fa. Ma almeno ora la meta è chiara, lo slanciatissimo minareto di Kutlu Timur, eretto nel 1320, che contende a quello di Bucara il primato dell’edificio antico più alto dell’Asia centrale. Da lontano pare pendente e d’altezza indefinibile – so che raggiunge i 67 metri –, ma avvicinandomi appare certamente ragguardevole, con la sua silhouette aggraziata, quasi un porro gigante, oppure un giunco col suo bulbo. Oppure, perché no, una giovane donna stilizzata. L’apertura d’ingresso è posta a dieci metri d’altezza sopra una fonte alla quale si abbeverano i pellegrini – che coraggio, l’acqua ha il colore della terra quando esce dalla cannella! –. Ci stanno lavorando degli operai, che tuttavia riesco a “corrompere” per qualche manat. 275 gradini – o, meglio, balzi – di altezza sempre diseguale, in un buio impressionante, per poi arrivare alla delusione di un’apertura sommitale a cui non è possibile affacciarsi, tutto è ancora in restauro. E allora scendo, con estrema attenzione, usando la mia lampada frontale benedetta, come fossi nel ventre di una balena posta in posizione verticale, o piuttosto nel cuore di una fede che non cessa di voler salire in alto, sempre più in alto.

Ma i due edifici che più mi incantano sono visibili solo dall’esterno. Si tratta dei mausolei di Sultan Tekesh e di Il-Arslan, rispettivamente nonno e padre di Muhammad II. Mi colpiscono per la forma delle cupole, coniche o quasi, più attente si direbbe al Cielo che alla Terra, protese verso l’alto con le loro ceramiche azzurre a zigzag che sembrano essersi in gran parte staccate proprio nello sforzo di sollevarsi, come le scaglie di ceramica di uno sky shuttle. Dalle contingenze umane alle cose più serie. Hanno un che di indifeso, più che incutere timore, un desiderio di accogliere sotto quella strana cupola uomini e donne e bambini e vecchi, nella speranza di portarli alla gioia della vita piena.

Il resto non ha gran peso archeologico, a Konyeurgench, La fede popolare sembra privilegiare luoghi di recente costruzione piuttosto che le pietre della storia. In particolare la gente si concentra su un mausoleo dedicato alla “vecchia fiamma”, reminescenze zoroastriane. Sulla collinetta attigua, chiamata Kyrkmolla che, probabilmente, ospitava il più antico villaggio di Konyeurgench e dove si combatté l’ultima battaglia, la più sanguinosa, contro i mongoli, sono state scavate ed erette varie tombe e vari luoghi di preghiera. Uno in particolare mi colpisce: un semplice mucchio di sassi sui quali le donne con problemi di fertilità depositano delle culle in miniatura, come voto ai Santi perché concedano loro la grazia della maternità. Mi pare un segno: le civiltà muoiono e, di solito, continuano in forma diversa in altre civiltà, dando in qualche modo loro vita. Non accade sempre. A volte le civiltà perdono la loro fertilità.