lunedì 27 ottobre 2014

Bayauly, un caravanserraglio nel deserto

Viaggio in Kazakistan/6 - Nel deserto una stazione di posta in riva al fiume. Un incanto, un rifugio, una speranza

La mia meta odierna è il Tamgay Tas, una breve escrezione rocciosa sulle rive del fiume Ili, che sfocia poi nel grande lago artificiale di Kapshagay, la città dei casinò. Un fiume che pare un miracolo perché scorre nel deserto dello Zethisu kazako, blu intenso nel giallo paglierino della steppa che talvolta di fa deserto. Visitando le rocce del Tagsay Tas, ammirando i petroglifi incisi nella pietra, m’accorgo che a cinque o sei chilometri di distanza nella valle, dall’altra parte del fiume si erge – o, meglio, si distende – una sorta di forte nel deserto. 

Un caravanserraglio. Qui in effetti passava una delle tante deviazioni della Via della seta: un fiume del genere poteva all’epoca (ma anche ora!) sembrare una benedizione. Ha dimensioni notevoli, a occhio ritengo che di lato misuri anche più d’un centinaio di metri, con le sue torri e i caratteristici camminatoio in cima alle mura perimetrali merlate. Il fascino d’un castello nel deserto!
 

Ma come arrivarci? Il mio autista, che parla solo ed esclusivamente il russo, mi avvicina per quanto possibile al caravanserraglio, ma sempre al di qua del fiume. Più m’avvicino, più m’appare misterioso e salvifico: dopo interminabili camminate o cavalcate, giungere in uno di questi luoghi doveva suscitare qualcosa di veramente simile al sentimento della salvezza, non solo perché protetto ma anche perché prossimo a un corso d’acqua. Quasi un miraggio. Come lo è per me che mi ritrovo nell’impossibilità materiale di raggiungere il forte per esplorarlo: impossibile attraversare il fiume, non c’è nessuna imbarcazione in vista. E in auto bisognerebbe percorrere un periplo di settanta chilometri almeno, cinquanta dei quali non asfaltati, cioè piste nel deserto.
 

Per cui m’è struggente e in fondo piacevole accoccolarmi su una roccia in riva all’Ili ombreggiata dai canneti, in attesa che i miei accompagnatori – l’autista Barash e la moglie Allina – cucinino dei succulenti shashlik, spiedini alla brace, il piatto nazionale di tutte le nazioni centroasiatiche.

lunedì 20 ottobre 2014

Shimbulak Il sogno kazako delle Olimpiadi invernali

Viaggio in Kazakistan/5 - Sulle montagne del Tien Shan una stazione sciistica di grande prestigio

Raccontano che anche il presidente Nazarbayev tre o quattro volte all’anno venga da queste parti per cimentarsi nell’arte dello sci alpino, ma soprattutto per vedere a che punto è l’avanzamento dei lavori della maggiore stazione sciistica dell’immenso Kazakistan. Sì, perché non è certo un segreto quello che vede il Paese centrasiatico avere obiettivi alti, tra cui quello di portare Almaty, Medeu e Shimbulak congiuntamente a ottenere l’organizzazione di un’edizione dei Giochi olimpici invernali prima del 2050, orizzonte che il presidente dal pungo di ferro ha voluto dare ai suoi concittadini (il precedente, peraltro largamente disatteso nei suoi obiettivi, era il 2015).
Shymbulak in realtà è il quarto gradino della scala, gigantesca scala, che porta dalla steppa ai ghiacciai del Tien Shan, una delle più straordinarie catene montuose conosciute al mondo. Il primo è Almaty-1, la città vecchia, povera e piatta, che va da 100 a 500 metri; il secondo è Almaty-2, che cresce e s’arricchisce, che va dall’altezza di circa 500 metri del Parco Panfilov ai 1500 dei sobborghi residenziali più meridionali; il terzo è Medeu, l’originaria stazione invernale, tempio del pattinaggio su ghiaccio, che va dai 1500 ai 2000 metri; il quarto è, appunto, Shimbulak, che dai 2000 sale fino ai 2700 metri della sua terrazza panoramica. Gli altri gradini protesi verso le cime più alte dello Tien Shan sono di roccia e di ghiaccio.
Con gli amici mi accomodo sulla vasta terrazza di legno su cui sono distribuiti centinaia di tavolini gestiti da bar e ristoranti dai nomi italiani. La vista è d’alta montagna, con le consuete brutture delle stazioni sciistiche: skylift, cabinovie, pilastri d’acciaio, raschiature del manto erboso, percorsi e strade e mezzi meccanici. L’aria è fresca. Chi è venuto quassù non è sempre danaroso e non può permettersi un tavolino al bar, dieci euro. Così sbocconcella il suo panino portato da casa osservando le montagne o il falco che un kazako dai tratti mongoli, viene in effetti dall’Altai, “affitta” per cinque euro perché la gente possa farsi fotografare con un bestione da quindici chili appollaiato sul proprio avanbraccio, protetto comunque da un enorme e spesso guanto di cuoio.
Lascio per qualche momento la civiltà per cercare l’immersione nella natura. Bastano cinque minuti per superare un crinale e ritrovarmi nella più silenziosa e selvaggia natura del Tien Shan. E allora mi riconcilio persino con i vetero-comunisti al potere ad Astana: possono fare grandi danni alle persone e alle cose, ma alla fine l’immensa natura kazaka prende sempre e comunque il sopravvento. Almeno lo spero, per queste meravigliose montagne.

mercoledì 15 ottobre 2014

Lago di Yesik, dell’azzurro che è verde e che è grigio

Viaggio in Kazakistan/4 - Uno specchio d'acqua di carattere alpino, le brutture del collettivismo, la semplicità della gente locale

Non è certo allettante l’avvicinamento a uno dei laghi alpini più pittoresco e suggestivi del Kazakistan, il lago di Yesik, che prende il nome dell’omonima cittadina che giace nella valle, anzi all’inizio dell’infinita piana di queste parti, che qualche decina di chilometri più a Nord diventa steppa. Il fatto è che, salendo nella valle, ci si trova accompagnati da enormi tubature azzurre stese a fianco della strada, solo per risparmiare sul loro interramento. Appaiono qua e là pertugi e fessure che lasciano fuggire torrenti d’acqua. Cipressi e pini e noccioli e betulle e qualche quercia. Finché la strada si fa ripida. C’è pochissima gente in giro. Strisce di abeti scendono a scala dai pendii erbosi come slavine di color verde scuro sul verde chiaro dei prati. E si debbono sopportare le consuete brutture vetero-comuniste: una torre antincendio, casamatte abbandonate, cottage di cui rimangono solo tetti sfondato e pilastri marciti.
Finché il miracolo appare, non appena scavalcato l’ennesimo passo: un lago alpino color verde pallido tendente al grigio, lattiginoso. L’aria è fresca, le montagne boscose, in lontananza si ammirano i ghiacciai del Tien Shan. Creste di pini, ciuffi di abeti, conifere isolate, betulle flessuose e argentee. Delle rocce penetrano nel lago, invitano alla meditazione seduti sulla loro sommità. C’è pure la consueta sporcizia, purtroppo. Un gruppo di kazaki, una grande famiglia di Yesik, fa picnic sotto gli alberi: una ventina di persone salite quassù con un pulmino che avrà cinquant’anni. Mi invitano a prendere il chai con loro. Gioia e curiosità reciproche. Le donne più mature hanno i denti d’oro e appaiono più estroverse delle giovani. Gli uomini giocano a una sorta di backgammon. I bimbi corrono e si divertono. Come al solito non c’è nessun straniero nei paraggi.
Cammino verso Occidente dove emergono grosse infrastrutture di cemento atte a canalizzare le acque a fini alimentari, agricoli e idroelettrici. Orrori. Ma perché? Tre tecnici controllano la tenuta delle installazioni che appaiono consumate dal tempo. È proprio triste che le bellezze naturalistiche del Kazakistan siano gravemente danneggiate dalle scellerate infrastrutture di marca comunista e dalla trascuratezza dei comportamenti umani, come testimoniano le brutture sparse ovunque. È emendabile tutto ciò? Là buona volontà c’è, come testimonia una scaletta in pietra e cemento che risale dal lago fino al parcheggio, equipaggiata di grossi secchi di alluminio per raccogliere l’immondizia. Ma i contenitori restano vuoti o quasi, mentre tutt’attorno si estende il cimitero della maleducazione.
Forse non caso il lago era noto fino al 1963 come “la perla del Tien Shan” per le sue acque colorate di un azzurro unico nel suo genere. In quell’anno una terribile valanga-frana scese a valle provocando morte e distruzione. Il suo nome divenne perciò semplicemente “Lago di Yesik”.

venerdì 10 ottobre 2014

Kok Tobe, la collina blu

Viaggio in Kazakistan/3 - Sopra Almaty, un luogo dove la popolazione ama salire per divertirsi e sentirsi orgogliosa di appartenere a un Paese in crescita

Si raggiunge il crinale della collina, assai allungata e affilata come la morena di un ghiacciaio che accompagna la discesa della città dalla montagna alla pianura, grazie a una funivia degli anni Sessanta che dall’epoca non è mai stata rinnovata, nemmeno nelle sue cabine di legno e di metallo, con le porte che non chiudono bene, controllate comunque da un addetto stazza 150 chili che appena mette piede nell’abitacolo fa tremare sinistramente ogni cosa. I pilastri di scambio sono pitturati di fresco, ma non si sa bene quali siano le loro reali condizioni. La salita costa l’equivalente di due euro, ma molti kazaki non possono permettersi nemmeno tale modesta spesa, preferendo la salita a piedi o colla navetta, che costa 40 centesimi. Nell’ascesa mi diverto ad ammirare il paesaggio, la maestosa vista sulla città di Almaty, quella vecchia e quella nuova, ma soprattutto a cogliere negli occhi della gente la sorpresa, la gioia e la meraviglia di un mondo che s’eleva per incanto. Sguardi di gente semplice, della steppa, facce mongole senza le consuetudini vestimentarie dei musulmani.
La collina è dominata da un’altissima torre di comunicazioni in puro stile sovietico, inaccessibile a differenza di altre, come a Tashkent o a Kiev. Quel che c’è d’interessante quassù, oltre alla vista che sempre incanta verso la città e le montagne innevate, è una sorta di vasto luna park kitsch quanto si vuole ma amato alla follia da grandi e piccini: giostre, lancio delle freccette, tiro a segno, enormi castelli gonfiabili da scalare, montagne russe in tono minore... Ma anche un mini zoo con una dozzina di gabbie che ospitano malconci animali, dai lama agli stambecchi, dai cervi ai pavoni, dagli agnelli a strane galline arlecchine. E poi bar e ristoranti dalla dubbioso qualità. Una famiglia che viene dalla steppa nel cuore del Paese vuole farsi fotografare con me, che con tutta probabilità sono il solo straniero sulla collina. Mi dice: «Mi chiamo Gengis, vengo dalla steppa, ho 250 cavalli, 400 mucche e 8 figli». Mi sento povero e imbarazzato: «Mi chiamo Michele, do lavoro a 16 persone, dirigo quattro riviste e alcuni siti web, ho pubblicato quaranta libri». Riprende Gengis un po’ interdetto: «Tua moglie non ti ha dato figli?». «Non sono sposato». «E che cosa lasci di te dopo di te?». «Qualche pensiero e un po’ d’amore». Meglio cambiar discorso: «Da dove vieni?», mi fa. «Dall’Italia». «Nibali!». Sorpreso dall’inatteso riferimento ciclistico mi sovvengo che il corridore italiano, fresco vincitore del Tour de France, è capitano della squadra kazaka chiamata Astana, “la capitale”. E poi aggiunge: «Milan, Juve, Inter, Roma...». Orgoglioso. Gli faccio: «E i papi e gli imperatori romani?». E lui: «Ah sì, quel Francesco che difende gli immigrati... Ma quali imperatori?». «Gli imperatori romani...». «Ma di imperi ci sono solo quelli di Gengis Khan e di Tamerlano!». Così è se vi pare. E mi fa offrire da uno dei suoi otto figli, un frugoletto dalla faccia perfettamente rotonda e schiacciata, una caramelle color verde pisello, un pasticcio glutinoso troppo dolce: «Modernità», mi dice soddisfatto. Chissà che cosa significa per lui una tale parola.
La discesa a piedi è un ringraziamento per la semplicità di questi popoli centrasiatici, che spero non venga spazzata via dal consumismo globale. Ma il timore di sbagliarmi è grande.