lunedì 23 luglio 2012

La risalita della valle. Bella. E basta.


Bassa Val Badia/11 (fine) - La partenza da un angolo di Dolomiti che non può lasciare indifferenti. E' pace, è pulchritudo.

Albeggia. Per un atto di cortesia mi trovo ad abbandonare anzitempo la Val Badia. Complice l’annunciato intasamento dell’Autostrada del Brennero, sono obbligato a scegliere la via delle montagne: Corvara, Campolongo, Arabba, Alleghe, Agordo, Belluno… e poi la pianura. Così mi ritrovo a percorrere praticamente l’intera lunghezza della valle, da Nord a Sud, dalla Bassa all’Alta Badia. 
Un percorso che affronto lentamente, accarezzando le curve per non contraddire la natura conciliante della valle; seguendo il rilievo con lo sguardo che a tutti i costi cerca di avanzare mimetico alla silhouette dei prati, dei boschi e delle rocce; pregando formule spontanee all’apparizione dell’ennesimo crocifisso di legno, o d’un campanile, o d’una cappella; lasciandomi sorprendere dai colori che da spenti che erano – o piuttosto in riserva – s’accendono non appena i primissimi raggi del sole superano la barriera delle montagne, ad Oriente; aprendo il finestrino per respirare il profumo della valle, gli umori dei boschi battuti dalla pioggia della notte o dai prati falciati di fresco.
Piculìn e la sua modestia appena contraddetta dall’imponente ma aggraziata mole di una vecchia casa grande e misteriosa, lascia il posto alla perfezione urbanistica di San Martino e del suo castello; Pederoa tradisce la laboriosità della gente della Badia, con le sue teorie di commerci che son tutti boutique; lassù, ad Oriente, La Valle sfida col suo campanile la legge newtoniana; Badia, un pendolo per l’intera valle; Pedraces giace sotto lo sguardo del santo partito anch’egli ad Oriente; La Villa l’ordine naturale che sposa il bel turismo; Corvara s’apre al Sella e all’alto dominio della dolomia; Campolongo è già d’un’altra parrocchia, ma pare voler chiudere, concludere l’effusione di bellezza con l’abbraccio delle rocce e del cielo e dei prati.
Bella. È l’unico aggettivo che non stride al termine della leggera cavalcata. La mia vettura pare essere trainata da un destriero. Bello.

venerdì 20 luglio 2012

Il pittore e mistico che si firmava S.S.O.P.N.


Bassa Val Badia/10 - Uno, uno solo degli abitanti di Badia spiega un'intera valle. E' Lois Irsara.

Badia era considerata la pietra che distingueva l’Alta e la Bassa Val Badia. Poi, come ho già ricordato, il confine è stato spostato a La Valle. Badia s’allunga ai bordi della strada statale, a due passi da Pedraces, nella parte forse più straordinaria della Val Badia, con l’immenso e imponente costone che borda con strapiombi improvvisi l’Alpe di Fanes, a Ovest, e ad Est la meno dura ma più pittoresca linea montuosa verde e grigia creata dal Sassongher e dalla Gherdenacia.
Sui rilievi sopra Badia abitava un uomo, Freinademetz, che ebbe una vocazione missionaria, dai Verbiti. Partì per la Cina dove riuscì in un’opera straordinaria di inculturazione ed evangelizzazione. È stato beatificato. In tutte le chiese della Val Badia ora si può trovare un quadro che lo rappresenta in abiti cinesi, con la barbetta dei mandarini e il cappellino dei notabili locali. Da casa del signor Irsara si scorge la casa-santuario di Freinademetz, di cui Lois, questo il suo nome, ha dipinto un piccolo ritratto dai contorni sfumati, apparentemente vaghi, ma che in realtà trasmettono a chi lo guarda l’impressione di conoscere quell’uomo. Da sempre. Lois Irsara è pittore e mistico.
Nato in un borgo verso La Valle, aveva vissuto un’infanzia povera ma serena, come tanta gente da queste parti. Arrivato all’età del lavoro – a quel tempo erano i 14 anni – si decise in famiglia che avrebbe fatto il macellaio, visto che era gracilino e la vita dura dei campi forse non l’avrebbe retta. Ma, proprio mentre stava imparando il mestiere in quel di Brunico, si ammalò gravemente e per due anni fu costretto a camminare sorreggendosi su due stampelle. Perse quindi il mestiere. Durante lunghe degenze a letto, affinò lo spirito e lo sguardo. Cominciò a scolpire il legno, poi a dipingere. E dimostrò indubbie doti artistiche, tanto che riusciva a vendere non poche delle sue opere. Faceva soprattutto ritratti. Firmava quelle opere con uno pseudonimo, perché aveva l’impressione di non creare cose belle. In realtà quello pseudonimo era un acronimo che nessuno capiva: S.S.O.P.N., cioè: Sedes Sapientiae Ora Pro Nobis. Finché i genitori, sotto la spinta del parroco del luogo che si era accorto della bravura del giovane uomo, non si decisero a mandarlo a studiare all’Accademia delle Belle Arti di Milano. Da quel giorno cominciò a firmarsi Lois Irsara. Senza timore.
La vita di Lois, rallegrata dal matrimonio con «la mia regina», come la definisce, Giovanna, e da tre figli, è stata costellata da malattie e gracilità, oltre che dalle consuete sofferenze spirituali di chi ha un animo sensibile. Da qualche anno – oggi Lois ha 86 anni – la gravità dei suoi mali s’è accentuata, in particolare per una paresi facciale. Ma non si perde d’animo: «Dio fa solo cose belle: guarda il prato, guarda l’erba, guarda i fiori, sono tutte cose belle. Dio fa solo cose belle, vedi le montagne. Non riusciremo mai a capire quanto Dio sia capace di far cose belle e solo cose belle. Quindi anche queste mie malattie sono cose belle, se so vederle da Dio».
Saliamo nel suo atelier, illuminato da un’ampia finestra dalla quale s’ammira uno scorcio di valle, prima che la visuale venga interrotta da una casa di recente costruzione: «Sì, mi ha interrotto la vista della valle, da qui vedevo la mia casa natale. Ma sul tetto della casa vedo il camino e l’antenna della televisione, che mi indicano il cielo. Ecco, il Cielo è più bello ancora». Le pareti sono ricoperte da quadri d’ogni foggia, a carattere sacro o profano, tanti ritratti. Ritratti che ti danno l’impressione di riuscire a cogliere l’essere, anzi il dover essere della persona raffigurata. D’un tratto ci dice: «Vi mostro la Trinità». E tira fuori dai suoi archivi tre quadri, forse 30 centimetri per 40. Il Padre viene rappresentato da un anziano barbuto e capelluto, su uno sfondo giallo, era un suo amico valligiano, Giovannone, uno scultore, un altro uomo di Dio. Il Figlio è la riproduzione di un Cristo che in croce grida l’abbandono del Padre, un quadro che era devozionale e pietistico, ma che sotto i pennelli di Lois diventa un uomo-Dio che par aver perso la sua divinità. Infine, lo Spirito Santo, a prima vista, appare quanto di più tradizionale possa essere rappresentato, cioè una bianca colomba, in volo, slanciata ma nel contempo come trattenuta da qualcosa o qualcuno; in realtà è il cielo rappresentato a sconvolgere, perché è il cielo di Badia, trasfigurato.
Pittore e mistico è Lois Irsara. Lo avrete capito.

giovedì 19 luglio 2012

San Martino, la potenza e la grazia

Bassa Val Badia/9 - Centro culturale della ladinità, la cittadina di 1700 abitanti occupa una posizione strategica nella valle.

È inutile cercare di condensare in una formula l’equilibrio tra le aspirazioni umane e la concessione divina, cioè tra la potenza e la grazia. In ogni campo dell’agire umano  si vorrebbe catturare la giusta alchimia ma invano, ovviamente. Resta solo la possibilità, la ventura direi, di capitare in luoghi dove tale equilibrio è stato raggiunto, forse solo per un caso, o per elezione. Uno di questi, totalmente inatteso, è San Martino di Badia, vera plaque tournante, crocevia della Badia, snodo tra la parte bassa e quella alta.
La grazia sta nella sua posizione incantevole, tra un salto che la separa da Badia, e una gola che s’interpone verso il Marebbe. Sta nella sua chiesa, tipica della valle, nulla di particolarmente interessante, inserita perfettamente nel contesto abitativo, nulla più d’un coronamento, nulla meno che un incastramento riuscito. La grazia, ancora, sta nello straordinario cono verde che sormonta l’abitato, verde di bosco e di prato, verde d’umidità e di perizia contadina.
La potenza sta nell’ergersi al centro della valle come una sentinella – i romani vi si erano già insediati, avendo studiato la posizione strategica del sito –, o forse come una pietra miliare atta ad indicare la direzione, ma anche lo stazionamento, la posizione d’eccellenza topografica. La potenza sta pure, ovviamente, nel castello, nel bastione, nel maniero, nella fortezza che fornisce al cono rovesciato verde una punta di pietra.
Salire il cono rovesciato non è impresa da alpinista ma da speleologo. Della civiltà. Perché l’avvicinamento al castello fa discendere nelle profondità dell’animo umano. Ecco, per capire i ladini bisogna salire, ascendere verso la cima della montagna, ma ancor più verso il cielo. Di aria di nuvole di nulla di tutto. E poco importa che ad additare il cielo al viandante sia il tetto a guglia della torre maestra del castello, qualcosa che di più terreno non si possa immaginare. Pietra e legno, legno e pietra.
Il castello di San Martino – Ciastel de Tor –  ospita un bel museo della ladinità. Tutto funziona come un orologio svizzero (non so se quest’espressione possa sembrava irriverente!), l’estetica ha la sua parte, la regia pure. Ma il vero fulcro, la quintessenza della visita si manifesta solo nel salire i gradini lignei (triangoli di legno inchiodati ad assi retrattili) della torre, che portano su, più su ancora. E nella solitaria stanza sommitale appare la vera ladinità sotto forma di verde, il colore dei prati e dei boschi, e il grigio rosato delle rocce.
Che poi il museo spieghi tante cose della storia e degli usi e costumi ladini – storia, tradizioni, agricoltura e silvicoltura… –, beh, questa è solo una conferma di quanto si prova salendo. Al castello, nel castello e anche oltre.

mercoledì 18 luglio 2012

Per i boschi, la convenienza della natura


Bassa Val Badia/8 - Gironzolare tra abeti e larici, cogliendo funghi e mirtilli.

C’è una stagione per l’orgoglio delle vette e ce n’è una per l’umiltà del bosco. In Val Badia è possibile sperimentare e l’una e l’altra. Senza gelosie, senza lacrime, senza proteste. Un banale dolore muscolare può essere l’origine del cambiamento di stagione peripatetica, uno di quei momenti in cui l’interiorità prende il posto dell’esteriorità e ti porta ad apprezzare quel che in precedenza avevi trascurato, o addirittura ignorato. La fretta e la forza lasciano spazio alla pazienza e alla debolezza, facendo scoprire l’altra metà della vita dell’uomo.

L’ascesa nel bosco è sempre una scoperta. Si ansima, s’inciampa, si prendono in faccia rami elastici come fionde, si saltano tronchi caduti a terra, si afferrano arbusti che si spera sostengano le nostre fatiche. È vero, ma ad ogni ostacolo, ad ogni impedimento, ad ogni gradino inatteso corrisponde una scoperta – un fungo rosso brillante, una radura da fate, una radice che pare un’opera d’arte moderna, un ruscello che scherza con il muschio –, uno sguardo nuovo sulla vita – che sia uno squarcio nel fogliame che lascia intravvedere un panorama mai visto prima, una serie di abeti ritti come pali della luce ma mai esattamente paralleli, un cerbiatto che incrocia il nostro cammino.
La discesa è ancora più gradevole, perché manca la fatica. Girovagare cercando d’individuare il cammino più originale, fermarsi a raccogliere funghi, fragole e mirtilli, sostare su un albero abbattuto dalla folgore e meditare sul caso e sul fato (o sulla Provvidenza), così, perché tutto ciò rinfranca. E poi la scoperta della flora sempre più minuscola e, sulla flora, della fauna altrettanto piccola…
Non ci si annoia mai in un bosco, tanto più in queste terre ladine in cui la forestale pare geniale nel coniugare la cura del bosco e il rispetto per le sue dinamiche.

martedì 17 luglio 2012

Tra Rina e Antermoia, il gradino nel bosco


Bassa Val Badia/7 - La prerogativa prima della valle altoatesina è forse la presenza dei prati

Di sorprese la Bassa Badia ne riserva non poche per chi ha la pazienda di coglierle e raccoglierle. Come la strada provinciale che in cinque chilometri collega Rina con Antermoia, cioè uno dei più antichi insediamenti della valle e uno dei più recenti: la storia del passato e il turismo del presente. Scrivo al chilometro 1, di ritorno dalla dolce ma lunga scarpinata, seduto su una panchina custodita da uno dei tanti crocifissi della zona, in legno ovviamente, protetto da un tettuccio spiovente. Dinanzi a me si estende la valle fino al paese di San Martino, elegantissimo borgo dominato dal massiccio e nel contempo aereo castello che ospita il museo della ladinità. Sopra tutto, il Sas dla Crus gioca a nascondino con le nuvole. E boschi e boschi e boschi a dismisura, scuri, qua e là interrotti nella loro muschiosa bellezza da squarci di quel verde prato che non può essere definito altrimenti che “verde Badia, così delizioso come il manto di una dea che cerca di sedurre gli umani. Da qui si può capire l’essenza della Val Badia, anzi la quintessenza, riconosciuta persino dall’Unesco nella sua lunga lista dei siti protetti dell’umanità. Perché la valle è da proteggere, l’uomo non sarebbe più lo stesso senza questa meraviglia. L’uomo ladino, ovviamente, ma anche ogni altoatesino, ogni trentino, l’italiano, l’europeo. L’uomo.
La strada si snoda in costa come un nastro pacifico, mimetico al rilievo e alla sua uniforme varietà. Pare il gradino principale di quella maestosa scalinata che sono i suoi prati e i suoi boschi. Gli altri gradini, spesso e volentieri in diagonale, sono gli altri sentieri tracciati dai valligiani nel corso dei secoli. E per questo artificiali-quasi-naturali, ormai un tutt’uno con l’ambiente. La Bassa Val Badia è un modello da imitare per capire quale può e quale deve essere l’intervento dell’uomo nell’ambiente naturale. Rispettoso e pacifico, essenziale e utile.
(In due ore di camminata conto la bellezza di sette auto che passano sulla strada provinciale, cioè una ogni 18 minuti. Sopprtabile presenza umana. Ne noto inoltre un’altra, due contadini che tagliano il fieno con la falce. Mi chiedo come facciano a non ruzzolare a valle per la spaventosa pendenza dei prati).

lunedì 16 luglio 2012

Ciornadù, i colori cangianti


Bassa Val Badia/6 - Sopra l'abitato di La Valle, le vicende meteorologiche hanno forti conseguenze cromatiche.

In Val Badia negli anni scorsi s’è scatenata una furiosa battaglia (verbale s’intende) attorno ai confini della Bassa e dell’Alta Badia. Verrebbe da classificare la faccenda tra le questioni oziose, se non fosse che il label Alta Badia pare porti non pochi quattrini nelle casse dei comuni, e quindi degli abitanti. E poco importa se talvolta Corvara e Pedraces, San Cassiano e La Villa nell’alta stagione paiano piuttosto delle città percorse da Suv e arlecchini all’ultima moda che un delizioso luogo di montagna. Preferisco la montagna preservata dai difetti e dalle angherie della gente di città. Sia come sia, La Valle è entrata nella diatriba, per capire se era parte o meno dell’Alta Badia. Vinse la battaglia, e ora può fregiarsi del marchio tanto ambito.
Ma io la preferisco ancora classificare nella Bassa Val Badia, più umana, più verde, più semplice e autentica. Ora, proprio sopra La Valle, s’apre una delle più stupefacenti coste dell’intera Badia. Quella che porta fino al Parco naturale Fanes-Senes-Braies, attraverso la Val de Fanes. Sulla scoscesa fiancata esposta a meridione della valle s’incontrano villaggi dai nomi fantasmagorici: Rü, Lonz, Tolpei, Freines, Funtanela… Si ammira una deliziosa chiesetta alpina dedicata a Santa Barbara, Berbura per i ladini, e la vecchia pieve di Dlijia Vedla, di cui rimane solo il glorioso campanile: la chiesa infatti fu distrutta da una rivolta dei locali contro la potentissima Badessa del convento di Ciastel Badia che spadroneggiava come una feudataria sulla regione.
Arrivati quasi alla fine della scoscesa costa, un albergo ospita i viandanti, o per meglio dire i marciatori, con un nome straordinario nella sua sonorità: Ciornadù. La sapiente gestione ha preparato un ristorante che è una stupenda terrazza sulla valle, giù giù fino al Sas Putia, con arredi rustici su un prato curatissimo, mentre una fontanella rallegra l’ambiente. La steccionata pare un’opera d’arte, composta com’è da listelli di legno appuntiti tutti diversi, seppur simili. Dalla terrazza s’ammirano i colori della valle: oggi piove a tratti, mentre squarci di sole d’improvviso cambiano la conformazione stessa della valle, allorché prati oscurati dalle nubi s’accendono d’un verde soprannaturale che pare illuminare il cielo stesso.
Mentre si gustano i buoni piatti della cucina ladina – uova e speck e patate, un’associazione deliziosa –, le pendici del Sas dla Crusc cambiano colore ogni due minuti, o tre, passando dal viola al rosa, al giallo, al grigio, al verde addirittura. Mentre le lontane Odle si divertono a tracciare silhouette impareggiabili sul controluce delle ondate di pioggia. Finché la discesa a valle per la pioggia diventata insistente scivola nel tesoro della gente di queste parti: i prati, impareggiabili prati della Bassa Val Badia. O Alta?

venerdì 13 luglio 2012

Pederü, quando il mondo finisce e rinasce


Bassa Val Badia/5 - Una valle profonda dodici chilometri e la roccia rossa

Da tanto tempo ne avevo sentito parlare, ma mai m’era capitato di venirci. Perché è uno di quei luoghi in cui ci si va solo per andarci, solo perché si ha la ferma volontà di andarci. Pederü giace – sì, mi piace proprio usare questo verbo di stasi – in fondo ad una valle che non è altro che la continuazione del Mareo, del Marebbe, ma che si diverte a cambiare nome: Pici Tréi, poi Rudo e infine Tamersc. E da lì, da Pederù, porta al Parco naturale Fanes-Senes-Braies, s’aprono almeno altre tre valli, in una dinamica topografica che lascia sbalorditi. E che insegna come luoghi che paiono delle impasse rivelano avere vie d’uscita senza fine, inaspettate, certamente frutto della più creativa delle menti.
A Pederü ci si arriva da San Vigilio di Marebbe – per i ladini Al Plan de Mareo –, percorrendo una lunga fettuccia d’asfalto lunga ben dodici chilometri: un festival di pareti a picco, d’un fondovalle verde come pochi, di brevi boschi che paiono ciuffi di esuberanza adolescenziale. Si fa in tempo ad abituarsi all’habitat della valle – pardon, delle tre valli in fila –, al punto che l’improvvisa apertura del Plan de Pederü pare un’intrusione non concordata. Ma la bellezza della tri-valle non la si può apprezzare che oltre Pederü, dal Valun de Fanes che sale sopra il rifugio che occupa il breve piano. Perché dall’alto s’apprezzano le pareti a picco di dolomia, che mutano non solo per l’angolo di visuale, ma anche per i capricci meteorologici: rosse, grigie, nere, rosa, viola, salmone e turchese! Pareti interrotte da ghiaioni candidi e così verticali da mettere in dubbio la legge di gravità. E spesso le pareti si fregiano di creste da moicani, teorie di abeti che da lontano paiono nere come la pece, o la notte piuttosto. E poi la sorpresa, in coppa a tutto, un fraticello d’un verde così tenero che pare attendere solo la fata della valle come un morbido giaciglio. Lo stesso colore del prato attorno al rifugio, quasi che un cataclisma ne avesse interrotto la continuità, facendo emergere le paurose pareti di dolomia.
Ci sarebbero da scrivere pagine e pagine sul “valun”: l’iniziale aspra colata di pietra bianca, dai riflessi verdini, di tutte le dimensioni immaginabili, l’esplodere del rosso della dolomia sulle pareti grigie e lisce che attorniano la valle, l’apparire inatteso di creste pettinate di pini, lo specchio turchese del Lé Piciodel, le strane geometrie sui Banch Dal Sé, argentei ghirigori simil-maya o simil-aztechi, umani-più-che-umani. Pederü chiude e apre. Come uno scrigno di gioie… e dolori.

giovedì 12 luglio 2012

Passo del Furcia, quando la modestia vince


Bassa Val Badia/4 - Passaggio tra Marebbe e Valparola, valli che incantano per la loro semplice bellezza

C’è poco di interessante al Passo del Furcia, il valico che separa la valle di Marebbe dalla Valparola. In fondo, nient’altro che due modeste diramazioni della Val Badia e della Val Pusteria: qualche albergo, un laghetto artificiale mezzo vuoto, qualche ruspa che scava l’ennesima stazione per risalite meccaniche. E molte indicazioni di sentieri. È questa la ricchezza di un passo, cioè di un passaggio che esiste proprio in quanto non esiste, in quanto serve, si offre. Un luogo che da un lato, verso il Plan de Corones, offre il meglio in quanto a risalite invernali, mentre d’estate risulta un orrido luogo cementificato; dall’altro, invece, verso il Piz de Perez, 2507 metri d’altezza, presenta tipiche conformazioni dolomitiche in tutta la loro bellezza e anche, in scala ridotta, possanza.
Scelgo ovviamente di salire verso la natura incontaminata, o quasi, attraversando un bosco che, la mattina presto, pare un ricettacolo di fate e di misteriose creature della foresta. Salgo circuendo la bella cima del Piz de Peres, che dalla mia finestra di Rina ho costantemente dinanzi a me, come un sogno, una prospettiva, un quadro. Oggi è realtà. Tra canaloni di ghiaia che franano ad ogni passo e un delizioso declivio erboso sulla sommità, si giunge a quel luogo sempre mitico che è la cima. Lo sguardo allora si sazia di ogni creazione montana e silvana, con il solo imbarazzo della scelta, che spazia dalle montagne austriache all’Ortles e al Cevedale, e a tutte le Dolomiti, o quasi.
Ma lo sguardo va rivolto anche verso il basso, verso le valli, il verde, la terra, verso la bellezza forse meno stupefacente delle rocce e delle cime, ma certo più accessibile e dolce. La Valparola appare allora non solo un piccolo paradiso terrestre, punteggiata com’è da masi e alpeggi, case bianche di calce e brune di legno, ma un luogo di tregua, di pacificazione, per via del suo carattere chiuso e aperto nel contempo – il Passo del Furcia non è una gran via d’uscita, è piuttosto un tappo. E il Marebbe, il Mareo in ladino, vallata d’incanto attorno a quel San Vigilio che laggiù pare una sentinella in attesa dell’esercito. Scendendo i crinali della valle ammiro il legno antico e le pietre ben disposte, i prati baciati dal sole e i ciuffi boscosi pettinati, in un ordine che pare sfiorare la pura bellezza.

mercoledì 11 luglio 2012

Pieve di Marebbe, la costa bella


Bassa Val Badia/3 - Passando dalla Val Pusteria alla Val Badia, viaggiando su una strada aerea
 
Brunico è la morte della Val Badia e la vita della Val Pusteria. Lo sanno tutti i ladini, lassù la loro civiltà si eclissa nella potenza austro-ungarica, nell’universo germanofono che tanta attrattiva ha avuto ed ha per i ladini, ma che appare sempre più come radicalmente diverso dal loro modo di vivere.
Una transizione che va vissuta lungo un itinerario di una ventina di chilometri, tra San Lorenzo e Pieve di Marebbe, un paesino issato sopra San Vigilio, a dimostrazione che le vedette, le sentinelle hanno una loro funzione. Una strada tutta in costa, che passa per il santuario di Maria Saalen, una cappella in cui si venera una riproduzione della Madonna di Loreto. Poi la carreggiata s’inoltra nel bosco, un bosco di larici e abeti alteri e possenti, ma con un che di gentile nella luce che filtra attraverso i rami. Ci s’imbatte in taverne e malghe, mulini e masi, mentre la valle che unisce Brunico a Longega – oggi percorribile in pochi minuti grazie ai quattro nuovissimi tunnel che hanno risolto l’annoso problema delle frane –, scorre in contro basso come un budello oscuro e vagamente infernale. Di tanto in tanto appare una breve radura, una fattoria, gente al lavoro nei campi.
Finché si sbuca nella luce dei prati, i vasti e scoscesi prati di Marebbe, dove pare che il verde intenso dell’erba esista solo per evidenziare quelle poche costruzioni che ne interrompono l’uniformità sempre diversa. Il cielo è percorso da nuvole di mille forme e strutture, tanto che il sole gioca a nascondino con i diversi verdi che dipingono il paesaggio, divertendosi a scompaginarne la tavolozza armonica. La pioggia scende d’improvviso, come un’onda e come un abbraccio, evidenziando ora un campanile ora un grumo di masi di legno scuro, ora un boschetto ora un rigagnolo. Dalle nuvole, ad un certo punto, spuntano solo tre campanili, una metafora della fede, anche dei ladini che hanno saputo far crescere santi come Freinademetz, missionario verbita in Cina, un grande dell’inculturazione.
Finche non appare un borgo più grande degli altri, dominato da una geometria originale e poco consueta: una grande casa bianca con un enorme tetto spiovente, molto spiovente, e una pieve, appunto, decorata nel consueto stile barocco teutonico e sormontata da un campanile grazioso dalle tegole rosse. E tutt’attorno un grumo di abitazioni, molte delle quali paiono avere non pochi anni sulle spalle.
Pieve di Marebbe starebbe bene nella lista dei “borghi d’Italia” da proteggere, perché sono questi abitati che non devono essere abbandonati. Come fa il vecchio prevosto che celebra la messa seduto, perché sofferente…

martedì 10 luglio 2012

Prè Rié, tutto scivola giù

Bassa Val Badia/2 - Ovvero, dove le terrazze sono aperture sull'infinito.

Nell’Alta Val Badia i paeselli che contrappuntano la verde e liscia superficie dei prati paiono aggrappati a rocce che non esistono, inerpicati su pendii dove s’immaginano solo capre al pascolo, al punto che paiono voler sfidare la legge di gravità. Le profonde vallate che si dipartono dalla valle-madre paiono volerla imitare, o perlomeno accompagnare mimeticamente.
Appena oltre l’origine della valle di Marebbe, Rina s’arrampica sul costone erboso e boscoso con una caparbia che stupisce non poco. Da Longega, l’incrocio tra le valli, alzando lo sguardo si nota solo la punta di un campanile che pare voler sfidare ogni equilibrio: è piccolo, lo si nota, ma pare immensamente alto. Quattrocento metri più in alto.
La gente di Rina è fatta come questo campani letto. Sta, mantiene l’equilibrio, guarda su e guarda giù senza tema, rastrella su pendii che paiono quasi verticali, porta al pascolo mucche che non soffrono certo di vertigini, sfrutta ogni minimo scalino presente naturalmente sui prati e nei boschi per organizzare la vita sociale. La gente di Rina è riuscita a trovare il modo di realizzare persino un campetto di calcio!
Ed è proprio dal campetto di calcio che parte la strada bianca che conduce alla malga di Rina, attraversando boschi che invitano a raccogliere funghi e ad appostarsi per cogliere l’attimo fuggente del volo d’un gallo cedrone, l’animale più mitico della zona. Sotto la malga, a un paio di centinaio di metri di dislivello, gli amici Resi e Giovanni – ladini al 100 per cento, lui indigeno, lei di Pedraces, venti chilometri più a nord nella Val Badia – ci invitano nella loro di malga, una baita, un fienile piuttosto. È recente, è stato costruito tre anni fa da Giovanni con la collaborazione dei carpentieri della valle. Una piccola costruzione lignea – 5 metri per 8 – dove stipare il fieno per le bestie e dove trascorrere qualche domenica tranquilla senza lavoro. Il maso è ospitato in un pianoro poco più grande della costruzione stessa, mentre la pendenza del prato è vertiginosa. Una terrazza, da cui si possono osservare le montagne della Val Badia, ma con lo sguardo che scivola felice oltre il confine austriaco, e verso le Dolomiti ampezzane, si scorge la sagoma inconfondibile del Cristallo.
La grigliata è leggera e invitante, l’aria è tiepida, ma quando il sole arriva si brucia di raggi diretti, prima che siano addomesticati dallo smog. I sentimenti volano lontani, il ricordo emerge naturale, come se risalisse dal fondo valle per venirsi a stabilire proprio qui, in questa terrazza di terra sul declivio di terra. E il silenzio, signori, il silenzio. Il vero sovrano della valle, un silenzio che parla e che sussurra, che grida e che s’incapriccia, un silenzio che ha formato la gente del luogo, come Giovanni, che distilla le sue parole come se ogni espressione verbale dovesse passare per il filtro della verità, pena la vanità delle vanità. Il silenzio che, invece, ha educato Resi alla leggerezza delle parole, che danzano dalla sua bocca alle orecchie dell’ascoltatore come un minuetto dall’accento un po’ sincopato dei ladini, ma gradevole come una musica leggera.
A Prè Rié – l’etimologia, dalle reminiscenze francofone non estranee al ladino locale, parla di un prato solcato da lunghe canalette parallele e verticali, atte a far scolare l’acqua oltre il prato, verso il bosco, in modo da evitare che il terreno s’impaludisca – s’apprezza ogni aspetto della vita, facendo attenzione che non scivoli giù per la valle.

lunedì 9 luglio 2012

San Vigilio di Marebbe, la bellezza da conservare

Bassa Val Badia/1 - Alla scoperta di una valle dolomitica che sfida le leggi della banalità. A cominciare dal paese alle pendici del Plan de Corones.

Val Badia, terra ladina, luogo d’orchi e di fate, piccole leggende e grande storia, di santi (molti) e dannati (pochi). Capito alla messa domenicale che le campane son già silenziose, la chiesa è piena e i fedeli sono costretti a seguire la celebrazione dal camposanto che circonda la chiesa, un giardino per lacrimanti, devoti e filosofi. Tombe curatissime, nessuna esclusa. Leggo nomi che svelano un popolo: Palfrader, Castlunger o Kastulunger o ancora Costalunga, Complojer-Rimcać, Kost, Obijes, Ties, Pescoller dal Jablen… Un fiore fresco non manca mai su queste tombe.
Mi ritrovo anch’io in questo piccolo camposanto che attornia la chiesa parrocchiale, decorata a motivi barocchi teutonici ad opera dei bavaresi Franz Singer e Mathhäus Günther che rende chiaro anche ciò che è oscuro. Bello anche ciò che è sgradevole o dozzinale alla vista… Lo sguardo non può che spaziare sui rilievi che attorniano la valle, che la creano, a 360 gradi. In dissolvenza – due, tre, quattro livelli – s’ergono monti verdi e dolci, ricoperti di prati pettinati e di boschi spazzolati, punteggiati qua e là di masi bruni e bianchi, luoghi di lavoro più che altro, ma spesso anche di dimora. Un incanto, qualcuno dice un presepio naturale. Uno spicchio di paradiso terrestre, afferma un secondo valligiano, perché sì, in Paradiso, quello celeste, ci saranno proprio questi prati e questi boschi, questi abitati così umani e così incantevoli, almeno dall’esterno.
Mi diverto a percorrere con lo sguardo le creste dei rilievi, ad uno ad uno, e poi passando dall’una all’altra là dove s’incrociano creando geometrie che paiono perfette. Poi le vette rocciose, il Piz de Peres, Munt de Senes, Croda del becco, eleganti e nel contempo ardite, atte ad incutere timore e riverenza, anch’esse opera di una fantasia che supera ogni umana facoltà, proprio per dare all’uomo la forza di superasi e di sfidare l’impossibile. Ancora, lo sguardo passa senza soluzione di continuità all’abitato che circonda la chiesa, legno e intonaco decorato, candido candido (non per niente, oltre questi rilievi, si trova il borgo di San Candido!) e decorato da tocchi vivaci a carattere essenzialmente floreale.
Lo sguardo dai masi, dai prati, dalle rocce, dalle decorazioni floreali scende regolarmente alle tombe e ai fiori che le decorano, per poi risalire e ridiscendere e risalire ancora. Tutto passa: l’uomo e la sua vita più rapidamente dei masi, e i masi più rapidamente delle chiese, e le chiese più dei boschi, e i boschi più delle rocce. Come conservare questo paradiso? Come renderlo eterno, un paradiso eterno e non un effimero anticipo di paradiso? Tra cent’anni le bellezze silvane e rurali saranno eliminate da un immenso comprensorio di risalite meccaniche? Oppure i masi collasseranno perché nessuno riterrà utile e profittevole continuare a falciare i prati attorno a San Vigilio? O, chissà, tutta la cittadina sarà trasformata in un immenso ClubMed, un resort di lusso ipetecnologizzato? Difficile pensare il futuro di questo squarcio di paradiso (o di Paradiso, con la maiuscola?). Mi consola solamente sapere – credere, piuttosto – che i Kost, i Ties, i Kastlunger si stanno occupando della faccenda dal loro paradiso reale. Che è qui, che è altrove, che è lassù e quaggiù. A San Vigilio di Marebbe.

lunedì 2 luglio 2012

Sacro convento di Assisi, l'apertura del Poverello


Quando un luogo sacro spalanca valli e monti e orizzonti.

Padre Egidio, un amico frate francescano al Sacro Convento di Assisi, quello che pare sostenere con i suoi massicci e leggeri bastioni la basilica di San Francesco, m’invita a trascorrere un fine settimana nel simbolo stesso di una delle maggiori tradizioni spirituali del mondo intero, non solo dell’Italia. Non a caso è proprio qui che, al cuore di “sorella povertà”, si tengono i più grandi e riusciti appuntamenti della galassia del dialogo interreligioso. Ed è sempre qui che milioni di persone ogni anno formulano propositi edificanti, per sé e per il convivere civile e sociale. Fatto sta che mi offrono una stanza nell’estremo limite occidentale del palazzo-convento, proprio a ridosso degli appartamenti papali – questo in origine era un palazzo pontificio, di cui ha conservato tra l’altro l’extraterritorialità. La camera è ricavata sotto volte medievali, si parla del 1300, in modo un po’ barbaro ma suggestivo, aperta, anzi spalancata sulla valle d’Assisi, che va da Perugia a Foligno. Vista sconfinata, sospeso sulla creazione, oltre ogni possibile confine umano e spirituale. Il caldo scompare, spazzato all’apertura della finestra-vetrata ad arco da uno straordinario profumo di erba e santità, di storia e di bellezza. Prendo una sedia, la sistemo dinanzi alla finestra e mi siedo, respiro e mi apro, mi spalanco nell’anima, nel corpo, nello spirito, in tutto, proprio in tutto. Non serve yoga, non servono adorazioni senza fine, nemmeno tecniche ascetiche di concentrazione: basta lo zefiro leggero che sale dalla valle santa. E così entro in comunione progressiva con la natura, anche con coloro che hanno abitato sotto queste volte. Me li immagino, ad uno ad uno, compaiono spontaneamente al proscenio della mia memoria (prodigiosa, solo ora) occupando le stanze della mia anima con dolcezza e intransigenza: «Tu sei qui perché tanti prima di te hanno dimorato sotto queste antiche volte. Non prenderti tutto il merito, anzi nemmeno un po’».
Esco dalla mia cella, scendo una dozzina di gradini che paiono riassumere in sé, concentrandoli, i secoli che hanno vissuto sotto questa stella francescana: il secolo lungo e quello breve, quello senza fine e quello tormentato, quello scosceso e quello incerto… Tutta la storia francescana, e non solo, in pochi gradini! Che si elidono nella straordinaria deambulazione sotto gli archi aperti che percorrono l’intero Sacro Convento da Oriente ad Occidente e viceversa, aprendo squarci di senso e di bellezza che mi fanno dire: «Qui si dimora», cioè si resta, senza soluzione di continuità. È il miracolo della mutua in abitazione, forse.